POGGIO A CAIANO (PO). Senza emergenza Covid, Villa Il Cerretini sarebbe rimasta forse una reggia incantata proibita. E invece, visto che le precauzioni sanitarie impongono esibizioni all’aperto e distanziate, ecco che il Festival delle Colline, per esistere anche in quest’annata lockdown, ha dovuto adeguarsi e trasferire, in un angolo di rara bellezza purtroppo imbalsamata, uno dei suoi appuntamenti. Anzi, due, perché Gnut prima e gli OoopopoiooO dopo, si sono esibiti in un primo set alle 19 e in un secondo, identico (?) alle 21,30, per consentire così al popolo della musica di poterci essere senza correre rischi di contagio. Da filo bossanovisti, intimisti, pinodanielisti inguariti e inguaribili, adoratori incorruttibili dell’essenza musicale e poetica, siamo rimasti incantati dal minimalismo di Gnut (al secolo, Claudio Domestico) e delle sue ballate involontariamente suggeritegli dal poeta asintomatico Alessio Sollo, napoletano come il cantore, che affidava a facebook la sua visione alcolica. Le due vite si sono finalmente incontrate e l’equazione drammatica ha dato i suoi frutti, battezzando novelle di una semplicità e di una fioritura esemplari, odi di ermetico richiamo che si avvalgono dell’autodidattismo di Gnut per trasformarsi in arie che, al di là della dittatura idiomatica partenopea, trasudano, come tutte le ballate che nascono nel golfo del Vesuvio, la solita inconfondibile, inimitabile e comunque mai ripetitiva, saudade napoletana.

Avrebbe potuto continuare ancora e per molto altro tempo, Gnut; il pubblico della Villa Il Cerretini si era già lasciato andare sull’onda malinconica di amori incompresi, tanto verticali, quanto orizzontali, su un sound minimalista che, al di là dell’incantevole scenario, sembrava davvero non aver bisogno di altro, che di quella chitarra, cimelio di sogni adolescenziali e della voce di Gnut, inesorabilmente sporcata dalle illusioni, prima che dal fumo, cancerogeno e dispensatore di brevi indispensabili viaggi intorno a noi stessi. Poco prima delle venti, la pallida, ma luminosissima chitarra napoletana si è dovuta accomodare tra gli spettatori per cedere il palco al primo set degli OoopopoiooO (Vincenzo Vasi e Valeria Sturba) e laloro esibizione elettromagnetica. Potremmo iniziare dal camaleontico (rispetto al sound check) e trashissimo abbigliamento per bollare inesorabilmente, noi che privilegiamo la sostanza alla forma (con la sola eccezione che abbiamo consentito a Michael Jackson), la coppia che esalta il pop con squilli adolescenziali, meccanici, smorfie da clown, suoni da consolle trovata impolverata in una soffitta ma ancora funzionante. Abbiamo aspettato, nonostante l’alabarda demenziale, più che spaziale, di Vincenzo Vasi e la tenuta da pinup degli anni ’70 di Valeria Sturba ci avessero già parecchio influenzato e infastidito. E nonostante il loro esperimento su un Bob McFerrin alcolizzato e prossimo a un trattamento sanitario obbligatorio, un nientismo edulcorato da richiami del cinema muto e varie schegge sconosciute alla musica lavorata sugli spartiti e nell’anima, resta gradevolmente insindacabile il sibemollismo della giovane partner e la sua dimestichezza armonica. Il resto, però, nonostante i tempi, soprattutto quelli legati alla fine della quarantena, suggeriscano un’elasticità e una dimestichezza ricettive particolari, bolliamo inoppugnabilmente l’escamotage di Vasi/Sturba, se non dopo l’assunzione di un potente acido lisergico, ma a patto che dopo la coppia techno non sia la volta di uno Gnut qualsiasi, perché per ascoltare e godere delle odi del menestrello napoletano basta, ma non è necessario, un’innocentissima canna. Concedeteci questo piccolo post; un posto come Villa Il Cerretini andrebbe sfrutatto decisamente meglio e con una maggiore frequenza, senza doverlo spolverare solo per inderogabili esigenze sanitarie.

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