PISTOIA. Scegliere di chiudere una serata in onore di Pino Daniele interpretando Chill’è ‘nu buone guaglione è, contemporaneamente, un atto di assoluta devozione all’indimenticabile artista napoletano, di coraggio, perché con A me me piace ‘o blues ci si sarebbe congedati nella migliore e più entusiasmante maniera e, ultimo, ma non ultimo, un’ulteriore attestazione del suo profondo intellettualismo poetico. Vale la pena ricordare, infatti, che quel brano, un inno di rispetto, amore e tolleranza verso l’universo transgender, fu scritta e inserita dal vate partenopeo nel suo primo album, datato 1977 e raccontare, con tenerezza rockblues, la dura realtà e i sogni omosessuali, 43 anni fa, non era affatto così politicamente corretto e soprattutto digeribile. All’autore, a quell’incommensurabile artista che ha trasformato la tarantella in world music e che ha rappresentato per milioni di appassionati e per tutti i seicordisti un indispensabile punto di riferimento, tanto musicale, quanto poetico e prim’ancora morale, non è mai interessato copiaincollare, ma si è sempre preoccupato di sondare nuovi territori. Lo ha fatto da subito, dagli esordi, imponendo, con la grazia, la leggerezza e la sontuosità che hanno contraddistinto le sue performance, un nuovo stile di vita artistica.
Ed è proprio Pensando a Pino che ieri sera, nel giardino del chiostro della Fondazione Tronci (artigiano con il quale la città è da sempre in debito e con il quale lo sarà, inconsolabilmente, poi) a Pistoia, tre suoi attentissimi estimatori (Andrea Gorza al basso, Meme Lucarelli alla chitarra e alla voce e Gennaro Scarpato alle percussioni, alla batteria, all’armonica e alla voce) si sono prodigati in questa particolare e affatto scontata rilettura di alcuni brani del menestrello napoletano, evitando, accuratamente, facili e orecchiabili consensi. Per questo, Napul’è, Yes i know my way, I got the blues e molte altre ballate divenute, nel tempo, veri e propri manifesti, non sono state contemplate. Non è stato un gioco perverso, ma una scelta calibrata, soprattutto perché Meme Lucarelli, seppur reincarnazione spirituale, musicale e di postura di Lee Ritenour, ha tenuto più volte a precisare, conversando con il pubblico sospeso tra le note e la meraviglia di quel giardino di Corso Gramsci, come Pino Daniele non si possa, ma soprattutto non si debba, in alcun modo, catalogare. La componente blues resta un suo indiscutibile marchio di fabbrica timbrica, ma il trascinamento delle sonorità del Mississipi verso le coste tirreniche dell’Italia meridionale non hanno mai non tenuto nella giusta considerazione l’incipit africano e l’evoluzione statunitense, un assemblaggio sonoro che è poi esploso in tutta la sua incontaminabile bellezza con la definitiva consacrazione poetica. Poco meno di due ore di assoluta e indiscussa bellezza, con la tangibile e consapevole nostalgia che la perdita di Pino Daniele, seppur violenta e prematura, non ha minimamente scalfito la sua immortalità e che alcune sue arie, descritte e impreziosite da versi profondi, sicuri, elastici, ma incontrovertibili, restano e reteranno patrimonio, indiscusso, dell’umanità, sia quella che si interfaccia professionalmente con la musica, che quella che dalla musica continua a ricevere emozioni e compagnie inimitabili. Nella foto, con il trio di abili strumentisti, che si sono dilettati per l’intero concerto a perdersi nei meandri funk, rockblues e jazid di Pino Daniele, anche Margherita Cavaciocchi, ospite atteso, giunto in ritardo, ma perdonato, che ha dato il suo piccolo grande contributo con l’interpretazione di Bambina, una piacevolissima cantilena funkblues e con la sua naturale miniaturizzata bellezza.