PRATO. Quattro professori e un trip, tra amicizie di vecchia e consolidata prova, complicità acustiche e intellettuali, sonorità eccelse, che non hanno bisogno di presentazioni, titoli, spiegazioni. Riccardo Onori, del quartetto che ieri, 16 luglio, ha incantato i fortunati spettatori dell’Anfiteatro Pecci di Prato, è l’inevitabile bandleader: la formazione è una sua idea e poi, sui gradoni in pietra disposti a semicerchio attorno al palcoscenico, ci sono anche i suoi genitori e qualche piccolo fan, che al termine dell’esibizione, srotola uno striscione con il suo nome. Riccardo, a Prato, c’è nato e da lì ha spiccato il volo con le sue chitarre. Da quindici anni è la prima sei corde di Lorenzo Jovanotti Cherubini, che, a sua volta, non muove un passo e una nota se a condividerla non ci sia anche lui, Saturnino, un pluristrumentista che nasce con il violino stretto tra il mento e la clavicola e si specializza con il basso elettrico: a quattro, cinque, sei corde. Alla batteria, un lametino figlio d’arte, Donald Renda, al quale la Calabria andava un po’ stretta. E allora, via verso nord, Prato e Brescia, per diventare un meraviglioso sessionista, capace di suonare più ritmi contemporaneamente. L’ultimo anello di questa eccelsa formazione è Michele Papadia, a ogni tastiera del mondo, con una febbrile predilezione per quella Hammond,
con il quale corriamo seriamente il rischio di diventare stucchevoli, più che ripetitivi; la sua impressionante padronanza musicale si adatta a ogni circostanza sonora e ovunque mette in mostra le sue ammirevoli doti di collant, che lo eleggono, puntualmente, il direttore asintomatico della serata. Insomma, un concerto in quattro, o quattro concerti, se preferite, al prezzo di uno, lungo la strada che prende spunti dal jazz per rinnovarsi e divertirsi imboccando tutte le deviazioni che il cammino offre: il funk, per eccellenza, ma anche il jazid, fino a sconfinare nell’elettronica, trasformandola in melodia. I brani offerti, rigorosamente strumentali impreziositi da qualche piccolo gorgheggio per giustificare i microfoni, utili comunque a dare alla narrazione musicale della serata le chicche di alcuni aneddoti, sono stati principalmente quelli che appartengono alle creazioni di Saturnino, alcuni dei quali coprodotti, guarda caso, proprio con il compagno di viaggio Riccardo Onori, che ieri sera ha nuovamente confermato la sua naturale e meravigliosa predilezione al santanismo. Un concerto stratosferico in un ambiente surreale, che sono le alcove live alle quali dovremo comunque abituarci, quelle dalla riapertura alla vita normale dopo il coronavirus. Il pubblico, infatti, selezionato, è stato fatto entrare alla spicciolata solo dopo aver firmato un foglio all’ingresso e durante l’esibizione non si è permesso il minimo accenno all’euforia: ognuno è restato al posto assegnatogli, ognuno ha chiuso gli occhi e si è fatto trasportare dove desiderava, ma nessuno si è preso la briga di alzarsi e iniziare a ballare. Che sarebbe stata una reazione tanto bella quanto naturale alla piacevole provocazione, quasi istigatoria, dei quattro musicisti. Per ora, è così. Anzi. Abbiamo il dovere di continuare a stare attenti e poter salutare, progressivamente, il ritorno alla normalità, che per quello che ci riguarda è sempre stato e così vorremmo che tornasse: teatro, da ottobre a maggio e concerti, da giugno a settembre. Ieri sera, i quattro moschettieri del funk, non hanno dato alcun segnale che possa ascriversi nell’albo delle preoccupazioni, anche perché la musica, la loro musica, che è poi anche la nostra, scelta tra una miriadi di offerte che spesso ci sentiamo in dovere di declinare, alcune volte addirittura denigrare, non teme reclusioni, veti, divieti; anzi, quando si sente minacciata tira fuori il meglio che ha in sé e ieri, la dimostrazione, è stata lampante.