PISTOIA. A non tesserne le lodi, soprattutto in considerazione dell’oceanico gradimento, correremmo seriamente il rischio di risultare spocchiosi (che poi lo siamo, ringraziando il cielo). Ma a noi, questi Negrita, anche in formato acustico, esigenza, più che scelta, dettata dalle indispensabili misure anti contagio, nonostante conoscano alla perfezione tutte le leggi e le regole del palcoscenico, non necessitino di alcuna lezione di musica e sappiano precisamente come attizzare il pubblico (ci vuol poco, eh, a essere onesti), non piacevano prima e continuano a non piacerci ora. Da ieri sera, poi, per la quinta serata del Blues Around, con una piazza del Duomo piena come Covid 19 potesse consentire, che li abbiamo visti all’opera, le impressioni si son fatte certezze. Sono un esemplare e perfetto concentrato di astuzie demagogiche, luoghi comuni, piccole inconfessabili verità e sulle note di canzoni che si somigliano maledettamente tutte (stile Ligabue, tanto per intenderci), usano, nelle conversazioni che precedono, anticipano e solfeggiano i brani in scaletta, uno scientifico, chirurgico vocabolario contemporaneo, e non in aretino, zona (Capolona) dove sono nati e partoriscono gli studi dei loro successi, ma in aspirante milanese, condito inoltre da tutti gli ingredienti fashion/alternativi e nel quale domina incontrastato il termine raga,
che sta per ragazzi, certo, ma che ha assunto, nel terzo millennio, quel significato militaresco e cloroformizzante dell’appartenenza al gregge, modesta e debosciata sottomarca di gruppo. Hanno ragione loro, eh; il pubblico li acclama, la critica li osanna e anche il cinema, specie il trio Aldo, Giovanni e Giacomo ha commissionato loro alcuni motivi che sono poi stati incastonati all’interno di pellicole di esilarante successo. Anche ieri sera, a Pistoia, le cose sono andate esattamente in questo modo: la gente li ha attesi con trepidazione, per poi esplodere in un boato quando dal back stage di ripa del Sale il trio messicano (Drigo, Mac e Pau) hanno guadagnato il palcoscenico. La scaletta, bissata alla lettera quella del concerto tenuto la sera precedente in Val d’Aosta, ad Ayas, è partita sulle note di Ho imparato a sognare per chiudersi, inevitabilmente, su quelle di Gioia infinita, che è un po’ il manifesto dell’essenza negritesca. Nel mezzo, senza il basso di Giacomo Rossetti, le tastiere di Guglielmo Ridolfo Gagliano e la batteria di Cristiano Dalla Pellegrina (il resto della formazione in stato di quiete), indispensabilmente sacrificati, in questa doppia circostanza live, sull’altare del virus, alcuni dei loro successi (Dannato vivere, Che rumore fa la felicità, Hemingway, Non torneranno più, Mama maè, Il libro in una mano, la bomba nell’altra), tutti eseguiti con il coro naturale degli spettatori, che le sanno tutte, ma tutte, eh. Dopo la prima e prima di ogni altra successiva, Pau si è occupato e preoccupato di fare anche da cronista, ricordando questi infiniti festeggiamenti per i cinque lustri di attività della formazione, cercando, inutilmente, di coinvolgere, nella conversazione, le sue ali del palcoscenico, che hanno preferito soprassedere a ogni suo tentativo, fatta salva una circostanza, con Drigo, che ha sommessamente ricordato come in quella piazza, sacra, piazza del Duomo, ci fosse già stato, ma da spettatore, a vedere uno dei suoi idoli, Steve Ray Vaughan. Niente bis, anche se invocati, ma al termine di una serata perfetta, la quinta di una manifestazione nata, partorita e allestita in un battibaleno dalla famiglia Tafuro, alla quale va dato anche questo merito, dopo 40 anni di Festival Blues, di essere riuscita, anche quest’anno e in queste inimmaginabili condizioni, ad allestire, unico in Italia, un cartellone musicale, degno oltre ogni ragionevole precauzione. Da tabagisti incalliti quali siamo, non pentiti, ma di cui non ne andiamo certo fieri, vorremmo suggerire a Pau di evitare di fumare sul palco, anche all’aperto; la sua voce, bellissima, oggettivamente, sembra non risentirne minimamente, ma è il messaggio che lancia agli adolescenti che potrebbe creare fastidiosi e inopportuni danni collaterali. Giusto, raga?