PISTOIA. Ai nostri tempi, i canali dai quali potevamo attingere musica erano pochi e conosciuti. Da qualche stagione, le vie ufficiali d’ascolto, ma anche di tendenza e dunque gradimento e, perché no, voti, passano attraverso altri filtri, che noi che nel 1977 pensavamo che un altro mondo fosse possibile, stentiamo a riconoscere, decifrare, capire. Come i nostri figli, del resto, che sono disobbedienti, sì, ma con ragione e che sono quelli che ieri sera, a Pistoia, per la prima serata di questo Festival Blues, che per non urtare i nervi di quelli che se ne intendono si chiama Storytellers, hanno popolato in ogni ordine e grado piazza del Duomo. La stella d’attrazione è stata il 24enne romano Filippo Uttinacci, che da quando è in voga, si chiama Fulminacci. Un pischello a modo, senza fronzoli, divise, smalto sulle unghie delle dita delle mani, orecchini e tatuaggi, con una capigliatura di cui i suoi genitori ne vanno fieri, con nessun indumento d’astronauta o che ricordi, vagamente, qualche guerra punica. Il giovanissimo metropolitano, che abbiamo già visto all’opera alcune estati fa e Empoli, non ha perso contatti, né di vista, con la realtà; la differenza è che da allora, tra merito e giusti procuratori, è diventato una voce ufficiale dell’allegra insofferenza giovanile e seppur impegnato non è diventato, per fortuna, il paladino di nessuna causa, se non la propria, quella che molto probabilmente lo porterà lontano.
Con lui, sul palco posto lateralmente così come il Covid, dal 2020, ha consigliato/imposto, Claudio Bruno alla chitarra, Lorenzo Lupi alla batteria, Roberto Sanguigni al basso e Riccardo Roia alle tastiere, tutti giovanissimi come lui e come il loro bandleader, con le idee chiarissime. In poco più di un’ora ha esaurito il suo repertorio, perché alle spalle, il pischello, ha poca strada e dunque, senza cercare consensi con cover e riletture, poca storia; ma continua a convincere, perché nonostante poco dopo le 23 la serata fosse già ai saluti della buonanotte, il pubblico, giovanissimo e numerosissimo, ha gradito oltre misura la sua esibizione, fatta di musica orecchiabile, ma degna e di testi semplici, ma per nulla banali, quelli che gli hanno tributato, nel biennio precedente, importanti riconoscimenti, attestati musicali prestigiosi e un posto, per ora in fondo alla classe, vicino al muro, nell’olimpo della musica italiana. Già, il pubblico. I nostri idoli, alla loro età, erano ben altri e raccontavano altre storie, quelle con le quali ci siamo iniettati la testa di illusioni e le vene di merda. Ecco perché quando canticchiano Fulminacci, i nostri figli, faremmo meglio a non deriderli e mettersi con loro, lì, ad ascoltarlo. Capiremmo cosa cantano, oggi, i giovani e cosa vogliono sentirsi dire, oggi, i nostri figli. Già, il pubblico. Dapprima ha seguito i primi brani della scaletta con la dovuta gioia, composta fino all’esasperazione, perché nessuno ha voglia di sgarrare, per cose così banali, oltretutto. Poi, però, si sono lasciati andare, saltellando gioiosamente, ma senza muoversi dalla propria seggiolina, imperlate tutte di pioggia per un temporale di pochi minuti arrivato tra le 19,30 e le 20 e che ha fatto tremare, per fortuna senza conseguenze, lo staff organizzativo.
Prima della stella della prima serata, a provare l’effetto che avrebbe potuto fare e arrivare così, senza colpo ferire, intorno alle 23,30, Dola, che le note di produzione definiscono cantante lisergico (i nostri ricordi lisergici hanno altri contorni) e poi, Giuseppe Puleo, diciannove anni, palermitano, un superpischello, con uno pseudonimo che avremmo fatto bene a spiegarci: Giuse The Lizia. Sul nome preso in prestito chissà da quale serata esagerata, soprassediamo; sulle sue possibilità, invece, scommettiamo: presenza scenica notevole, voce interessantissima e groove complessivo straordinario, fatto di una posa studiata, forse, ma studiata alla perfezione e testi trasandati ma non troppo, incastonati in una scelta sonora che ben si concilia, quando sarà cresciuto e avrà studiato tanto, con i jazzclub.