PISTOIA. Fino a quando non ha rispolverato il suo repertorio caro all'età del vinile, la gente di piazza del Duomo, quella abituata a questa edizione alterata del Festival Blues, denominata Storytellers, a rispettare con parsimonia gli inviti da distanziamento, si è fidata del nome, di quello che ha rappresentato negl’ingannevoli anni d’oro e ha applaudito con calore le sue interpretazioni, senza però conoscerle e riconoscerle, le canzoni che andava snocciolando. E tra il pubblico pistoiese di ieri sera, siamo convinti che ben pochi ricordino, o meglio, sappiano, del processo in diretta che Francesco De Gregori subì il 2 aprile del 1976 al Palalido di Milano, quando Nicoletta Bocca (figlia del giornalista Giorgio) e Gianni Muciaccia (bandleader dei Kaos Rock) interruppero a più riprese la sua esibizione serale accusandolo di sfruttare i temi cari al proletariato per fare soldi e successo, fino addirittura a imporgli, a notte fonda, un chiarimento in stile sovietico con la frangia estrema della sinistra extraparlamentare. A più riprese, colleghi cantautori, hanno ricordato, in alcuni loro brani, quella notte, cercando di stigmatizzare quanto più possibile l’accaduto.

Ma quelli sono anche gli anni nei quali il cantautore romano si trova, per inevitabile forza di gravità, a bazzicare gli ambienti dove si produce musica e cultura e lì costruirà il suo successo, che arriverà immediatamente dopo, con quelle canzoni che ieri sera hanno intenerito e rispolverato la memoria di stagioni ormai catalogate nel preistorico e dato un senso, anzi, il senso, al concerto: Rimmel, Buonanotte fiorellino, La donna cannone, Alice non lo sa, Generale, La leva calcistica della classe ’68, Viva l'Italia, poesie e saggi ermetici, spesso non compresi all’istante (ma nemmeno dopo) dal pubblico, ma pluripremiati dalla critica, che ne han fatto, nel tempo, probabilmente con troppi benefici d’inventario, un intellettuale musicale. Che è restato schivo e introverso come negli anni giovanili, un atteggiamento che se da una parte ne ha ingigantito la leggenda, dall’altra ha lasciato e continua a lasciare davvero a desiderare, soprattutto pensando che senza il divismo popolare, Francesco De Gregori si sarebbe dovuto accontentare di fare altro, nella vita. Considerazione personalissima che non ci allontana dal seminato della recensione del concerto che ha visto il settantenne metropolitano, accompagnato dai suoi fedelissimi live, intonare due ore scarse di musica e parole, modulando il sound originale alle nuove estensioni vocali e dando ancora una volta l’idea di avere davvero scarsa familiarità con il palcoscenico e con il pubblico. E con i mezzi di informazione, viste le difficoltà incontrate e superate con apprensione, tanto dai giornalisti quanto dai fotografi, per catapultare l’artista nell’animo del suo pubblico con interviste, recensioni e fotografie. Al posto del cappello con le tese, che lo ha contraddistinto ai tempi delle frequentazioni di Ivan Graziani e Antonello Venditti prima e Lucio Dalla poi, De Gregori ora porta un cappelletto con visiera, gli immancabili occhiali scuri, una t-shirt azzurra che non può non evocare il recentissimo trofeo calcistico europeo e quel solito deambulare che sembra volerlo proteggere da quelli che vorrebbero avere, da lui, l’autografo su uno dei suoi vinili gelosamente custoditi in casa e ascoltati con parsimonia per il terrore di graffiarli. Nessuno, siamo pronti a scommettere, tra quelli che hanno acquistato il biglietto, si aspettava qualcosa di diverso da quanto sia stato loro offerto: inizio in solitaria, con chitarra, armonica a bocca e la sua faccia triste e poi, dopo tre brani, la sua formazione, che l’ha accompagnato fino agli ultimi due bis. Un'esibizione politicamente corretta che teme oltre ogni ragionevole dubbio il timore di un qualsivoglia confronto con l'energia e l'adrenalina che contraddistinguono, prima, durante e dopo il Covi, tutto ciò che succede in diretta.

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