di Federico Di Pietro
PISTOIA. In un Festival Blues fortemente caratterizzato dal dittico pischelli vs glorie del passato venturo, la presenza di Iosonouncane ha subito mescolato nuovamente il mazzo di carte a disposizione del pubblico. Ma aspettate, chi è Iosonouncane? Ma non era quello di La macarena su Roma? Lui, esatto. Ma lo stesso di DIE? Proprio lui, quello che canta Stormi. Ah, ora abbiamo capito. Iosonouncane, al secolo Jacopo Incani, originario di Buggerru, si è rivolto al pubblico solo dopo un’ora dall’inizio della sua esibizione. Buonasera. Laconico. Del resto, le parole a lui non sono state molto d’aiuto nell’ultimo album Ira, uscito proprio nel 2021, il 14 maggio, due mesi esatti dal giorno della sua comparsa in città. Perché Iosonouncane è comparso, sul palco, ha suonato, tanto, ed è scomparso dopo almeno due ore di performance. Nel mezzo? Tutto, politica. Letteralmente. Perché Incani, nell’intervista rilasciata a Rolling Stones, lo dice chiaramente. Il suo album è stata un’impresa complessa, e quindi politica.
Del resto, già ascoltando attentamente DIE si potevano cogliere quei prodromi di ingegno e virtuosismo che hanno portato al suo ultimo lavoro. Lui, un Odisseo che in Ira inserisce musica elettronica, jazz, musica del Maghreb, Kosmische Musik (O Krautrock per i più), canto in falsetto. In effetti un ennesimo protagonista della performance c’è: il continuo magma funereo che dal palco andava a inondare un pubblico ordinato, silenzioso e di un’unica (o quasi) fascia d’età: 27-37 anni. In più di due ore di concerto la musica non si è mai fermata, e per questo è stato difficile cogliere l’esatto momento di passaggio da un brano all’altro. L’esperienza diventa quasi catartica: ogni suono, ogni luce, ogni gesto di Jacopo va a cogliere un ricordo, un significato, una regola, che ristagna nella nostra testa, nel nostro cervello. Siamo noi ad aver dato un senso a ciò che Iosonouncane ci ha portato. Le parole, spesso cantate in falsetto, non erano di chiara comprensione. Meglio, perché la parola sarebbe stata inutile, forse secondaria, sicuramente fallace. Avrebbe indotto un’emozione sicuramente alterata rispetto a quella che sarebbe scaturita genuina dai brani. Iniziando con hiver, toccando quote uraniche con ojos e innalzandosi fino a recitare con voce atavica niran, Iosonouncane, il pischello della terra di mezzo, ci porta in barca in un lago spettrale di suoni, dominato da armonie claustrofobiche e da specchi. La nostra mente.
Iosonouncane, con la sua performance e il suo album, segna un cambio di passo. Lui non fa dell’avanguardia. Lui è avanguardia, almeno in Italia. Almeno oggi. Almeno in questo periodo storico, in cui si sembra prediligere la banalità dei testi e il loro accurato e studiato nonsense. Sul palco, accompagnato da Bruno Germano e Amedeo Perri, Jacopo ci porta per almeno due ore in esilio da noi stessi e dalla nostra demenziale esistenza terrestre. Atterriamo in un limbo di urla, di poesia, di dolore e di rinascita. La nostra? Prima dell’ascensione scenica di Iosonouncane, il palco è stato appannaggio di Vieri Cervelli Montel, già membro degli /handlogic. L’esibizione può tradursi in una perfetta introduzione alla performance di Incani. Vieri, ai più famoso per una personalissima e originalissima versione di Almeno tu nell’universo, si mostra a suo agio, cimentandosi in qualche suo brano inedito, delicato e curato, ma sempre rispettoso della linea segnata da Iosonouncane: sperimentare, ardire, avanzare. Ed ecco quindi sonorità synth e tocchi di industrial. Però, so’ gagliardi questi!