di Letizia Lupino

GIRONE (FI). Girone, Firenze. Un concerto aspetta. Ma dove caspita è Girone? L’arrivo degno di un Indiana Jones un po’ imbranato crea un’ulteriore domanda, mi aggiro come un gatto di strada in cerca di cibo. Nessuna indicazione, nessun rimando, nessuna pubblicità. Un ristorante, un’oasi nel deserto: È qui il concerto?’ Sì è qui! un sospiro di sollievo, allora è vero, ma, qui dove? L’ingresso non è dei più intuibili, dietro il ristorante stesso tramite una scala anonima di ferro, di quelle con gli scalini aperti qui forati là, che se a quello che sta salendo prima di te disgraziatamente gli cadesse qualcosa. Vabbè. Al terzo o quarto piano, dunque, l’associazione culturale La chute in collaborazione con il Circolo Arci Il Girone ci accoglie in una terrazza ampia, sistemata per l’occasione, davanti verso destra una trentina di sedie sistemate con le doverose distanze, in fondo l’ensemble sonoro che di lì a poco avrebbe cominciato a suonare. Quel poco che basta per un giro di diversi drink.

Ed è allora, nel momento in cui l’ennesimo bicchiere di plastica viene gettato nell’immondizia e le chiacchiere ormai troppo alte passano da un angolo all’altro che i Gianni Giublera Rosacroce di Torino fanno il loro ingresso in quella terrazza dal vago sentore di anni ‘70. Gli elementi sono sei: un violino, un basso, un clarinetto, tastiera elettrica, una chitarra e le percussioni insieme a una piccola fisarmonica. Interessante. Una musica malinconica si leva e la voce della cantante ci accompagna in riva al mare in una giornata uggiosa, seduti sulla spiaggia con lo sguardo rivolto verso un pensiero che svolazza via via sempre più lontano e le percussioni che come un tralcio si arrampicano sui nostri corpi. Ciò che creano è evocativo e la testa segue l’onda musicale da sola guidata da altro fuori da sé. Foreste, montagne, gnomi, nascondigli segreti, scontri epici è ciò che ci rimanda, diventiamo parte integrante di un episodio de Il signore degli anelli. Due voci, lei e lui: lei soave e profonda, lui stride insinuandosi, però quasi con grazia, o forse dovrebbe solo aggiustare il tiro. L’atmosfera che si crea è quella intima di un falò tra amici con il rischio forse non calcolato che il concerto diventi solo un brusio di fondo alla vita che nel frattempo si muove, parla, palpita. Sigur Rós, Lacuna Coil, ritmi arabeggianti, stacchi musicali che si ripetono uguali a sé stessi come un mantra. Musica che forse da qualcuno verrebbe definita alternativa. Si muovono tra l’epico, il canto rivoluzionario e la colonna sonora di un eventuale fumetto noir. Se non fosse che la cantante legge i testi la presenza scenica sarebbe importante, accattivante se pur con la volontà di rimanere rivolta verso sé stessa, quasi nascosta nelle ferite che avvolte scaldano di più di un abbraccio. Avrei voluto che si lasciasse vivere di più. Peccato. Dopo quarantacinque minuti, sull’ultima canzone, le luci si spengono, è un segnale? I saluti sono veloci, troppo, una scia di sufficienza che non aiuta. Si sarebbero dovuti dedicare maggiore spazio, maggiore visibilità, un’ampiezza di respiro differente piuttosto che relegare una performance che avrebbe potuto avere del potenziale in un angolo nascosto del mondo. Di nuovo, peccato.

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