MONTEFALCO (PG). Senza quel piccolo e impercettibile contrattempo diplomatico, il concerto di Serena Brancale tra i vigneti Arnaldo Caprai di Montefalco, poco oltre, scendendo verso sud, di Perugia, uno dei tanti appuntamenti di questa nuova edizione di Suoni Contro Vento, sarebbe durato una decina di minuti meno. E sarebbe stato un peccato. No, certo, la sua voce sommessamente esplosiva, le sue danze feline e gitane, la sua stravagante eleganza e la sua smorfiosa confidenza con il pubblico avevano già esercitato tutto il loro irresistibile fascino e gli spettatori, accovacciati su una redola scoscesa tra filari interminabili di viti, si sarebbero congedati sazi e soddisfatti da quell’angolo incontaminato e paradisiaco. Ma nel bis impreventivato la professoressa barese di canto, che ha le cattedre in due dei templi più prestigiosi d’Italia, a Roma (Centro Jazz Saint Louis) e Milano (CPM), ha regalato anche una dedica a Lucio Dalla, sovrapponendo, nel suo preziosissimo loop, alcune indimenticabili strofe rese eterne dal meraviglioso jazzista pop bolognese. Con Serena, su un palco meticolosamente allestito in controtendenza, ma perfettamente funzionale, tanto acusticamente, quanto visivamente, il giovane (1993) polistrumentista campano Davide Savarese, alla batteria e, al Fender Rhodes, il veterano (ma solo nove anni meno giovane del collega) Domenico Sanna.

In perfetta sintonia con la zingara, che tra i brani proposti nel suo sontuoso repertorio, tra il sound di Vita d’artista, ultima incisione, ma siamo in procinto della nuova e qualche gemma già datata, come Galleggiare (con cui ha partecipato a Sanremo nel 2015) ha anche offerto una piccola nenia rumena, politicamente scorrettissima, ma dal suono irresistibile, e un’altra della sua terra natale, che ricorre, puntualmente, tanto nella sua melodia sincopata, che spazia dal jazz al rap, dal R&B al funk, quanto nello slang dei suoi testi. Il resto, tutto il resto, è stato un veloce e sontuoso sunto musicale e vocale, trasformato in spettacolo dalla sua ricercata naturale dimestichezza comunicativa, quella della quale, in una stagione pandemicamente confusa e che altro non ha fatto che esasperare, ulteriormente, un percorso di immagine che rischia di sopraffare i contenuti, Serena Brancale si muove autorevolmente, dando in pasto al suo pubblico, con dosi da pozioni magiche, tanto la sua irriverente e leziosa sfacciataggine, quanto la sua indiscussa professionalità, un’irriverente macedonia artistica che non può che assegnarle, oltre che docenze vocali, anche un posto ben definito nel famelico e pericoloso sistema delle notorietà. Ieri, in un 11 settembre alle prese con la fine del secondo anno di morte e dolori, paure reali e indotte, chirurgiche restrizioni, leggerezze e demagogie e lungo quell’irragionevole bisettrice storica che nacque, tragicamente, nel 1973 a Santiago del Cile e si è eclissata (?) nel 2001 a New York, Serena Brancale ha ripetuto, quasi ossessivamente, che non c’è niente che mi faccia stare su più della musica, un tormentone che i suoi spettatori e quelli assenti più o meno giustificati condividono pienamente e che tutti, indistintamente, abbiamo voglia di fissare come punto di (ri)partenza. Lo ha fatto con la solita camicetta legata sull’ombelico, stavolta a righe verticali bianche e celesti e non bianche e verdi, come le è successo spesso, in precedenza (la scelta è dipesa dal cromatismo dittatoriale della location, probabilmente), un cappello di memorie meccaniche di agrumi, alla Kubrik, un gilet parecchio francese, dei pantaloni shocking similcavallerizza e gli scarponi da Druga. Lo ha fatto giocando con se stessa, con il proprio corpo, abilmente disegnato, ma soprattutto lo ha fatto divertendosi con i suoi innumerevoli rivoli vocali, quelli che le consentono di riscrivere tanto sopra versi memorabili regalando a questi ultimi nuove inaspettate primavere, quanto su ritornelli e nenie di suburbi dimenticati, anche dagl'indigeni stessi.

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