di Letizia Lupino
PISTOIA. La fila è già lunga all’ingresso della Fortezza Santa Barbara di Pistoia che si appresta, ancora una volta, ad accogliere il pubblico pagante e affamato.
SpaziAperti2021 e Teatri di Confine ci invitano nuovamente a entrare e a fare nostro il cortile interno; un luogo intimo e fautore di storie. E sarà proprio una storia, anzi, delle storie che ci verranno raccontate: Storie della buonanotte per bambine ribelli. Quale miglior modo di accompagnare il sole che tramonta? Il palco aperto non si lasca intimidire dai nostri sguardi che frugano da un angolo all’altro, da uno spigolo all’altro. Le sedie sono sistemate a ferro di cavallo, per tutta la lunghezza del palco, e sopra quelle che saranno le loro teste si dipanano, dal centro fino ai quattro angoli, altrettanti fili di lampadine. Ed è già aria da festa di paese: calda, accogliente, profumata da un sottofondo di ballo liscio di coppia, chiacchierona! L’Orchestra Multietnica di Arezzo ne farà da cornice e da protagonista grazie alla direzione precisa anche nelle sbavature involontarie di Enrico Fink. Ciò che manca non si farà troppo attendere: Margherita Vicario, attrice e cantautrice, svolazza sul palco con leggerezza e determinazione.
Adesso tutto è pronto per ammaliarci. La voce di Margherita, così pulita e chiara, ci fa volare da un continente all’altro, da un paese all’altro, da una situazione all’altra. Così diverse all’apparenza e con un’unica e definita costante: la Figura Femminile che si eleva agli onori della narrazione di riscatto, quasi sempre tinta di blu, e si fa lente d’ingrandimento del cadenzato volere è potere, che a forza di sentirlo dire è come un fodero senza ormai più l’arma. È un riscatto sociale, culturale, geografico, che sente il bisogno forte, ora più che mai, di farsi narrazione prepotente e insinuante. Non più super eroine quindi, ma donne che intraprendono nuove e personali vie di crescita all’interno del proprio contesto sociale e riescono a sconfinare oltre il pregiudizio razziale, etnico e linguistico. Scelta obbligata, dunque, quella dell’OMA, un’orchestra composta da trentacinque elementi provenienti da dodici Paesi diversi. Corollario perfetto. Ed è come se, piano piano, l’arma rientrasse nel suo fodero. Gli incastri funzionano all’unisono, Margherita è fluida nel raccontare a tratti e a cantare negli altri e l’Orchestra è la finestra spalancata su un sogno che sembra favola e che invece scopriremo non esserlo. Di storie ne avremmo ascoltate altre, molte altre se non fosse stato per il tentativo, forse un po’ forzato di una chiusura ripetuta per ben tre volte, come i tre colpi finali dei fuochi d’artificio, come l’abbassamento delle luci in un teatro prima dell’inizio dell’opera. L’entusiasmo d’altronde era palpabile; come arginarlo, quindi, se non prolungando il sogno attraverso le canzoni di Margherita Vicario? Raccontando, sì, raccontando ancora perché ognuno di noi avrebbe voluto avere, quella sera, sul comodino, la voce avvolgente di qualcuno che, sistemandoci il cuscino, ci accompagnasse nel sogno reale di un futuro in cui non voler più vedere giù per terra perché sai non sembra ma qui c’è una guerra.