di Luna Badawi
PRATO. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure alla violenza sì. Non ci si abitua mai alla solitudine, ma a vivere una vita non propria sì. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure molti di noi si abituano a vivere soli, circondati da tante persone, inadeguati nella loro pelle e con identità che non si sono scelti. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure portiamo nelle nostre borse tante maschere scelte con cura, che ci fanno sentire abbastanza confusi e solitari. Non ci si abitua mai alla solitudine, eppure viviamo come se fossimo in un videogame ideato e amplificato dai nostri mostri. Non ci si abitua mai alla solitudine, ma vivere respirando solamente non è la vera solitudine dell’anima? Non ci si abitua mai alla solitudine? Oppure sì? Una sottile riflessione, molto toccante e profonda, che accompagna l’intero spettacolo diretto da Mimosa Campironi per l’attore Alessandro Averone: Family Game, al Teatro Fabbrichino di Prato. A godersi lo spettacolo si è per la maggior parte del tempo, soli con la tecnologia di un visore virtuale con il quale si è immersi completamente nella storia. Un giallo. La trama di uno scambio d’identità mescolata a un delitto tesse lentamente l’importanza della ricerca di noi stessi. Una tematica letteraria importante quella dell’identità. Un’identità pirandelliana che si mescola alla tecnologia, che diventa fattore imprescindibile nella denuncia dell’essere un uomo moderno. Uno, nessuno, centomila direbbe Pirandello!