di Carmen Paolillo
SALERNO. Nella sua Salerno è tornato ieri, applauditissimo, al Teatro Verdi, da vincitore delle Olimpiadi. Perché aggiudicarsi il Premio internazionale Paganini, per un violinista, quello vuol dire. E aggiudicarselo a vent’anni, poi, è un vero trionfo, in un concorso nella cui storia solo tre italiani sono riusciti a guadagnarselo; uno di questi, è stato Salvatore Accardo, sessantatré anni fa, nel 1958. Ieri ha giocato in casa Giuseppe Gibboni, che, accompagnato dall’orchestra filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno, diretta dal Maestro Giovanni Rinaldi, direttore d’orchestra, ha incantato un teatro finalmente di nuovo pieno, a dispetto dei tempi. Cresciuto a Campagna, nell’entroterra meridionale salernitano - in una famiglia di musicisti professionisti -, Giuseppe Gibboni vive da diciassette anni di studio e totale simbiosi con il violino. Alle sorelle, in prima fila, ha dedicato questo suo concerto di ritorno a casa, dopo la matinée di domenica a Roma al Quirinale, dove si era esibito in duo con la sua compagna d’arte e di vita, Carlotta Dalia. La serata al Verdi di Salerno è stata aperta dal Concerto per violino e orchestra n. 1 in mi bemolle maggiore, considerato una delle migliori opere di Paganini, che fonde l’eloquio melodico di immediata presa emotiva dell’orchestra ai funambolici e dirompenti virtuosismi del violino solista.
Perfetta, dunque, per esaltare lo straordinario talento di Gibboni che, dopo la seconda parte dedicata alla Sinfonia n. 1 in do maggiore di Ludwig van Beethoven, con tre strepitosi bis ha meritato la standing ovation di orchestra e pubblico, stregati dalle impressionanti scalate in arpeggi e discese da acrobata della musica del Capriccio n. 5, divinamente eseguito. Formatosi al conservatorio Martucci di Salerno sotto la guida del Maestro Maurizio Aiello, scomparso poco tempo fa, l’enfant prodige ha proseguito l'esperienza all'accademia Stauffer di Cremona, con Salvatore Accardo, per poi passare, e lo fa tuttora, agli studi del Mozarteum di Salisburgo. L'amore per il suo strumento è sbocciato quando aveva appena tre anni. Ero piccolissimo, è iniziato tutto veramente per caso – racconta -. Mio padre pensò di far suonare il violino alle mie sorelline, mentre a me riservò il violoncello, forse per fare qualcosa di più equilibrato. Ma lui, le idee, le aveva già chiare. A mio padre dicevo sì, suono il violoncello, però da grande sarò violinista - ricorda sorridendo -; mi piaceva di più, probabilmente anche perché lo vedevo in mano alle mie sorelle. Così, anche io iniziai a suonare il violino. E da lì, dai concerti di famiglia, al podio del Paganini, è stata una scalata rapida, ma sudata. Il Paganini - spiega -, il concorso per eccellenza per i violinisti. Vincerlo, è un po' come per un atleta vincere le Olimpiadi. Ma sono necessari impegno, dedizione, studio, sacrifici perché al concorso bisogna arrivarci "con una grande preparazione, con uno studio intenso. Una grande preparazione soprattutto mentale. È uno dei pochi concorsi, se non l'unico, che richiede due concerti interi, cioè tutto il concerto di Niccolò Paganini. Io ho portato, come concerto romantico, il Concerto di Cajkovskij, davvero impegnativo, ma una grandissima emozione. A stento riuscivo a trattenere le lacrime, perché era un po' il mio sogno fin da bambino".