di Federico Di Pietro
PISTOIA. Se doveste scegliere una, un’unica canzone da cantilenare per festeggiare il 2022 (c’è da festeggiare? Bah, la realtà) quale scegliereste? Cantereste The final countdown? Oppure virereste su un classico duo Carrà-Cuccarini con Tanti auguri o La notte vola? Bene, niente scelte cringe. Neri Marcorè, nel suo tour Le mie canzoni altrui, a Pistoia, al Teatro Manzoni, ha scelto di iniziare la serata cantando il brano di Ligabue (non il pittore) A che ora è la fine del mondo? Sicuramente, in altri tempi, la scelta sarebbe stata azzardata, forse non l’11 dicembre 2012, ma altri giorni forse sì. Lo dice lo stesso Marcorè nei suoi intermezzi: meglio sdrammatizzare. Il canovaccio è semplice, ma allo stesso tempo impegnativo. L’attore e musicista, accompagnato dalla sua band di amici e colleghi, dipana nell’aria del Teatro Manzoni un repertorio di pezzi che hanno contraddistinto la sua infanzia, la sua giovinezza e la sua età matura, artistica e personale. Dicevo, che nonostante l’apparente semplicità dello spettacolo, esiste, nell’immaginario di Neri Marcorè in primis, ma anche in quello dello spettatore, forse, una sottile linea logica (non rossa) che lega in maniera inossidabile la scaletta scelta per la serata.
Infatti, dopo Ligabue e Mrs. Robinson di Simon & Garfunkel (che i più giovani ricorderanno nella versione dei Lemonheads, eseguita nel film di Scorsese The Wolf of Wall Street) è stato il turno dei Negrita con la loro Ho imparato a sognare (nuovamente, i più giovani, ricorderanno le note e le parole per averla ascoltata, forse, per la prima volta, nel cult Tre uomini e una gamba) e di Ivano Fossati con Ho sognato una strada. La dialettica del sogno, del desiderio giovanile, del periodo tardo adolescenziale quando tutte le strade possibili sembrano condurci verso i nostri obbiettivi, è infatti narrata da Marcorè con queste due ballate. Dopo l’esecuzione di L’abbigliamento di un fuochista di De Gregori e Y tù qué has hecho? (una bellissima storia di amore non ricambiato tra un albero e una giovane) dei Buena Vista Social Club, si entra nei meandri di Faber. Lo spettatore più attento, in questo cambio di registro, potrebbe riuscire a cogliere anche una sorta di cambio di paradigma non solamente stilistico. Quello che canta, accompagnato da Stefano Cabrera al violoncello, Domenico Mariorenzi alla chitarra acustica, al bouzouki e al pianoforte, è un Marcorè maturo, che coniuga alla sua visione della vita le note di De André. La scelta delle prime due canzoni, infatti, sono segnate anche da una visione politica, di protesta o critica. Fiume Sand Creek e Quello che non ho sono due perle che riflettono una visione dicotomica della storia e quindi, anche della modernità. Una società genuina, pura, vergine che viene colpita dalla rabbia e dalla fretta della modernità, della conquista. Nuovamente, come ricordato in uno dei tanti intermezzi tra un brano e l’altro, Marcorè aggiunge, raccontando un aneddoto legato alla sua famiglia, come i marchigiani abbiano una dolcezza nella pronuncia lessicale. Un vezzo quasi elegantemente allenato. Un esempio classico è la non pronuncia della lettera B in favore della lettera V. Con questa postura dialettale che si riflette anche in altre dolci storpiature, le cover delle canzoni di De André acquistano ancora più una piega privata, quasi familiare. Dopo l’esecuzione di Creuza de Ma, eseguita col tipico strumento greco del bouzouki, e Mégu Mégun, sempre del maestro Faber, la scelta di Verranno a chiederti del nostro amore segna l’ulteriore, possibile, passaggio esistenziale di Marcorè. Dopo una fase giovanile, una di lotta politica e di critica, si approda nella fase della stabilità dell’amore (dell’instabilità dell’amore, pardon). Finito il repertorio di De André, seguono repentine You can close your eyes, di James Taylor e la delicata Non abbiam bisogno di parole, di Ron. L’ultima parte dello spettacolo è caratterizzato da un Neri Marcorè più istrionico e più intrattenitore che cantante. Ma in che senso? Dopo l’esecuzione, piacevolissima, di Monna Lisa di Ivan Graziani, accompagnato da Fabrizio Guarino alla chitarra elettrica, Beppe Basile alla batteria e dalle voci di Flavia Barbacetto e Angelica Dettori (e dopo aver raccontato l’aneddoto del furto della Gioconda da parte di Vincenzo Peruggia) Marcorè dialoga col pubblico spiegando la sua teoria della musica moderna come musica liquida, ovvero di come le note, gli strumenti e i testi possano confondersi ed essere mischiati tra loro. Passando dalla teoria alla pratica, Marcorè canta Il ragazzo della via Gluck (no, questa volta mi sembra inutile citare l’autore), sulle note di C’era un ragazzo che come me, amava i Beatles e i Rolling Stones. Beh, non era sempre stato così? Continuando e ritinteggiando accordando note da far west alla canzone Call me di Blondie, si giunge forse alla parte più divertente del concerto: l’imitazione di Branduardi e Concato che eseguono Soldi di Mahmood. Provate a vedere di nascosto l’effetto che fa. L’ultimo brano eseguito da Marcorè con la band al completo è C’è tempo, di Ivano Fossati. La scelta di questo brano ricade nella volontà del cantante di augurare un buon anno a tutti. Personalmente invece, mi sento di augurarvi, cari lettori, un buon anno, non seguendo le orme dei vostri eroi o cantanti, ma quelle di Vincenzo Peruggia. Proprio lui. Cercate di essere più Peruggia e più intraprendenti nel suo virtuosismo patriottico e meno Mario Dra.. Bene non si può dire. Auguri.