PISTOIA. Ci sono dei centravanti che, appena realizzato un goal, si tolgono la maglietta e corrono, a perdifiato, sotto la curva popolata dai propri beniamini per ricevere l’ovazione tribale e orgiastica del tifo. Altri, invece, ma succedeva solo tanti anni fa, anche dopo aver realizzato reti/capolavoro, si limitano ad alzare le braccia al cielo e dividere e condividere con i propri compagni la felicità della realizzazione. Il parallelo calcistico con il concerto di ieri a Pistoia ci sembra calzante. I giovanissimi, infatti, pochi, in realtà, non avrebbero potuto capire. Perché concerti come quello di ieri sera, in piazza del Duomo, appartengono alla memoria jurassica della musica dal vivo, quando ai musicisti, prima di ogni altra cosa, come ai calciatori, del resto, era chiesto suonare: suonare per capire che pochi altri potrebbero farlo, suonare per emozionare, suonare per ricevere. E loro, I Gov’t Mule, (Marco Van Basten, Gerd Muller)? questo han fatto: alla perfezione. Dai Pink Floyd alle viscere del Blues, l’ala scissionista, ma fedele, anzi, fedelissima della musica colta, degli Allman Brothers, ha deciso di perorare meravigliosamente la causa artistica della musica, scorporandola da ogni orpello. Guadagnate le rispettive postazioni sul palco, i quattro musicisti statunitensi lì sono rimasti per l’intera durata dell’esibizione, (preoccupandosi, unicamente, di svolgere, alla meglio, il proprio lavoro. Un’impeccabile catena di montaggio strumentale, che ha portato al termine il concerto intervallando, con soli pochi attimi di silenzio, ogni brano dal successivo.
Tutti di notevole fattura, precisione, pulizia, rigore sintattico e strumentale, perfettamente equalizzato dalla consolle, diritto, senza scuse o alibi, verso la meta. Si sono concessi il bis, vero, ma questo faceva parte anche della musica antica; dunque, alcuno strappo alla regola. Il pubblico, che ha quasi riempito tutte le seggioline blu a disposizione della piazza che le dispone quando il preorder non contempla il tutto esaurito, ha gradito molto, anche se, più d’uno, avrebbe forse desiderato sentirsi autorizzato a scalmanarsi un po’ al cospetto di alcuni solismi, specie quando la formazione, abbandonate le sonorità ambient, si è messa di buon grado a fare rockblues. Prima, con elevato gradimento, Black Banjo, i Roommates e Joe Bastianich, un gradevole trittico di rockcountry che ha preceduto l’esibizione degli orfani di Allen Woody e che anche in questa ennesima circostanza, a più di vent’anni dalla morte del loro padre spirituale, hanno tenuto fede ai suoi credo e impreziosito la componente squisitamente musicale della sua band. Tutto questo mentre a Roma, il giovanotto dei Maneskin, reduce con i suoi compagni di ex strada, lanciava, al cospetto di 70.000 spettatori, il suo fuck Putin. Non vogliamo certo prendere le difese di Putin, ci mancherebbe altro, nonostante fosse osannato da buona parte di questo paese, fino all’altro ieri, così come non ci permettiamo di stare dalla parte di uno dei più lontani avamposti statunitensi, gli ucraini. Sorridiamo, tragicamente, solo all’idea che a Damian* vengano concessi lussi che vanno ben oltre le sue, a dir nostro, modeste referenze musicali e tutte da dimostrare competenze di politica estera.