PISTOIA. I vecchi dissacratori dei Pistoia Blues hanno quasi tutti l’alzheimer. Come noto, però, la mamma degli imbecilli è sempre in stato interessante e dunque, non sapendo di cosa parlare perché non hanno mezzi per farlo, ma non solo di musica, eh, anche la new generation dei bastian contrario, che non incontriamo mai in piazza del Duomo, durante il Festival, ma anche in nessun altro posto dove si faccia musica, ma solo sulle piattaforme sociali, altro dato cancerogeno del terzo millennio, si scaglia contro la manifestazione pistoiese. Che per dovere di morale, non certo di cronaca, nelle ultime due serate è stata di modestissima levatura, più consona a un qualsiasi circolo Arci che a un palcoscenico che trasuda storia come quello del Blues’In. È chiaro ed evidente che dopo questa pandemia, il Festival vada nuovamente pensato e, qualora ce ne fosse la necessità, ridisegnato. Ma la cosa nemmeno ipotizzabile, dunque non ultima, proprio non contemplata, è quella di ventilarne la chiusura, la fine.
Che non sarebbe solo il tramonto di una manifestazione leggendaria in tutto il Mondo, ma l’oscurità di una città che dopo aver creduto di poter essere ai livelli di altre realtà pseudometropolitane dove la musica appartiene, strutturalmente, alla composizione basica dei suoi abitanti (l’intera Umbria, con il jazz e il Trasimeno, Firenze, Lucca, Piacenza, Udine e altre che non ricordiamo, ma che esistono da tempo, come la piccola Porretta, fazzoletto meraviglioso di una realtà culturale senza uguali), sta lentamente ripiombando nell’anonimato selvaggio degli anni ’80, con la differenza, rispetto a quel passato, che ora, ovunque, in un centro storico gonfio di microattrazioni alimentari, c’è un ristorante aperto. Invasa da questuanti di colore, con una generazione importata di albanesi e rumeni per nulla inseriti nei gangli sociali se non in quelli che hanno sostituito i pistoiesi figli di meridionali nei lavori più faticosi e umili, e negl’indecorosi caroselli delle scorribande notturne, la città si è inesorabilmente svuotata dei suoi luoghi comuni senza adottarne dei nuovi. Il vecchio popolo del Blues, del quale facciamo parte, si è glorificato, fino all’esaurimento, di essere lo spettatore ideale: colto, disincantato, lontano da ogni cliché identificativo, snobbando tutti gli altri, senza capire che la storia e il tempo ci stessero condannando all’isolamento, senza nostalgia alcuna. Il vero problema di Pistoia e di tante altre realtà provinciali è che occorra riprendersi le città, ripopolarle, farle rivivere, con i suoi dati caratteristici più significativi. Il Blues deve tornare quanto prima a Pistoia e riprendersi il fiore da tenere all’occhiello della città, esattamente come altre manifestazioni tipiche di altre realtà sono imprescindibili al posto nel quale si consumano. Ci vuole una città disposta a crederci; ci vogliono Amministrazioni disposte a metter nel bilancio cittadino le spese per la cultura, quella che solca nuovamente le viscere della città e ne caratterizza il profilo, gli odori, le abitudini. Anche senza assoldare, per il prossimo Festival, B.B. King, Muddy Waters, Steve Ray Vaughan, Pino Daniele, Roberto Ciotti, morti e non più riconvocabili, ma pescando nel torbido cosmico strumentale e scoprire, chissà in quale angolo della Terra, degli eredi degni di tenere alta la bandiera del Blues. E senza regalare a Manuel Agnelli e/o Wil Peyote l’immeritato onore e l'evidente anomalia di stare su quel palco.