PISTOIA. È stato sufficiente rendere a piazza del Duomo l’abito di gala, che è quello che gli compete, del resto, restituendo alla città uno di quei sapori che abbiamo imparato a riconoscere, da subito, in questi oltre quarant’anni del Festival, perché la modestia delle settantadue ore precedenti venisse assorbita, dimenticata e derubricata come un fastidioso, seppur evitabile, micro incidente di percorso. E sono bastati i Simple Minds, pensate, che seppur con una ventina di album registrati e sessanta milioni di copie vendute, non sono e non saranno mai la crema della word music, ma uno dei tanti, tantissimi gruppi che hanno popolato le stagioni auree della new wave, così definita per catalogare quei gruppi che presero, cautelativamente, le distanze dal punk, assorbendo strumentazioni e atmosfere disco, grunge e rock. Una formazione professionale, che conosce i giochi del palcoscenico, i suoi ritmi, le sue elasticità e anche se non mirabolante, ha immediatamente offerto alla serata un imprinting europeo; si ha avuto subito l’impressione, poco dopo le 21,30, di assistere a qualcosa che sarebbe restato incastonato, per sempre, probabilmente, tra le mattonelle medievali della Piazza. Lo si è capito dalla ripartizione umana della band, che conserva, invecchiati ma ancora perfettamente lucidi ed esemplarmente in tiro, i suoi due più nobili sopravvissuti: la voce di Jim Kerr e la chitarra di Charlie Burchill, cheanche se orfani dei molti colleghi che negli anni inimitabili si sono succeduti sui palcoscenici del mondo al loro fianco, hanno saputo equamente rimpiazzarli, con due femmine fulmicotoniche: una alle tastiere, Berenice Scott e l’altra alla batteria, una vera e propria leonessa che in molti ha suscitato la voglia di provare ad ammaestrarla, la trentaseienne britannica Cherisse Osei, una forza della natura, del ritmo e della bellezza.
Ged Grimes al basso, che non ha minimamente deluso le aspettative di una serata essenzialmente perfetta, ha chiuso la rosa dei musicisti. Ma non è stata, ribadiamo, l’esemplarità del concerto a dare alla serata quell’odore vintage di cui la piazza necessita durante i giorni del Festival. L’atmosfera dell’evento si è iniziata a inalare nel tardo pomeriggio, quando le vie adiacenti al cuore dell’evento hanno iniziato a popolarsi di gente, bella gente, elegante, senza essere chic, comodi, ma senza mortificare l’aspetto dei circa sessant’anni trascorsi sognando anche con i Simple Minds e senza dimenticarli. Sono arrivati soprattutto dal nord, gli spettatori, ieri sera, anche in virtù del prezzo del biglietto, perfettamente monitorato, da anni, dalla Direzione artistica del Pistoia Blues, ma pur sempre consistente. Le seggioline blu? Le han chieste proprio loro, i componenti della band inglese, che poco dopo un’ora di esibizione, alle 22,40, per l’esattezza, hanno capito che l’adrenalinica energia che le prime file stavano irrorando alla piazza meritasse il premio del contatto senza correre alcun rischio, né di sicurezza, che pandemica: alzatevi e avvicinatevi. Così è stato e dopo qualche nota, alle 22,52, per l’esattezza, il primo grande premio, Don’t You (Forget About Me), che è perfettamente entrato nella congiunzione astrale della serata dopo l’omaggio a Nelson Mandela (per il quale si spesero parecchio nel periodo più luminoso della loro parabola) e altri brani che lasciavano presagire, per tonalità, aspettative e groove, il momento del contatto. Al di là delle evidenti referenze artistiche, strumentali, vocali e politiche di Jim Kerr, che incarna e riassume, in un processo metempsicotico le anime di David Bowie, Lou Reed e Peter Gabriel, al padre fondatore di queste Menti Semplici va anche e soprattutto riconosciuto e premiato lo sforzo di essersi rivolto al numeroso pubblico in un italiano perfettamente comprensibile, che è un elemento, deontologicamente impagabile, di ringraziare chi ha speso un bel po' per ascoltarti. Dalle 23,01 in poi (i numeri hanno un’importanza strategica; per noi quasi asfissiante), dalla fine del primo premio live in poi, il concerto, ulteriormente scandito da Sacrifice e Alive And Kicking, è stato un omaggio a quel meraviglioso, fortunato e ricchissimo ventennio, nel quale gli inglesi, forse presagendo del tutto inconsapevolmente la brexit, hanno fornito al mondo musicale un’enorme quantità di uomini, mezzi e idee tali da poterne rivendicare, quarant’anni dopo, i diritti d’autore. E tirarsene fuori.