PRATO. Dal Chiostro, semplicemente meraviglioso, di San Domenico, al Cencios, che trasuda ricordi, nostalgia e promesse, qualcuna mantenuta, sempre a Prato, ci saranno, sì e no, qualche centinaio di metri. Sul finire degli anni ’80, Irene Grandi era una delle reginette indiscusse della scena musicale fiorentina; era contesa da tutti i proprietari dei più famosi sottoscala che andavano da Firenze a Pistoia: il Cencios, appunto, ma anche il Maddalena, Tito’s e le varie rassegne rocchettare che in quegli anni spopolavano, come il Valdelsa rock and roll, dove, in qualità di giurati, l’abbiamo conosciuta. Era il 1989, tempi di sogni realizzabili. Lei e il suo gruppo, i Goppions (Jeppe Catalano alla batteria, Francesco Bottai alla chitarra, Giovanni Dall’Orto al basso), ma era anche una delle quattro de Le matte in trasferta, (Simona Bencini, poi voce dei Dirotta su Cuba, le contendeva lo scettro), erano specializzati nelle cover: i tre giovanotti sapevano suonare e a tutto il resto, ci pensava lei. Del resto, diaframma perfettamente sintonizzato, notevole carica adrenalinica e, siamo onesti, quel pizzico di malizia che non guastava, non guasta e non guasterà mai. Ieri sera, saltando a piè pari tutto quello che è successo nel mezzo (praticamente tutto: è diventata una star, ha vinto una quantità industriale di premi, collaborando con Jovanotti, Pino Daniele, Vasco Rossi, duettando con Stefano Bollani, Bobo Rondelli, cantando in spagnolo, in tedesco, in lingue arcaiche, passando, più volte, da Sanremo, anche dal Cinema),

si è presentata al suo vecchio pubblico, con figli al seguito, a cui piace proprio come ai loro genitori, e a parte qualche suo manufatto con successo, cantato con il coro naturale di tutti i presenti, ha preferito tornare alle origini, Io in Blues, e ricordarsi e ricordare come lei e la sua stagione siano figlie, naturali e inequivocabili, del blues, del rockblues. Ospite gradita di Prato Estate, ha esordito con Sade, per poi omaggiare, sempre tenendo diritta la prua verso la blackmusic, in ordine sparso, Lucio Battisti, Mina, Pino Daniele. Ieri sera, ad assecondare le sue gradite e opportune stravaganze canore, ginniche e sceniche, tre giovanotti di tutto rispetto: Max Frignani alla chitarra e alla voce, Piero Spitilli al basso e Fabrizio Morganti alla batteria; e un maestro, Pippo Guarnera all’organo Hammond. Un piccolo rovescio temporalesco, dopo appena due brani, ha fatto temere il peggio; di acqua ne abbiamo tutti un gran bisogno, ma proprio ieri sera, insomma, Giove Pluvio poteva anche aspettare. Solo il tempo di scappare sotto i portici, meravigliarsi, bestemmiare sommessamente nel terrore che agli strumenti potesse succedere qualcosa di sgradevole, per poi riguadagnare ognuno la propria postazione. Il cielo si è sgombrato da solo delle poche nubi birichine; Irene Grandi invece si è nuovamente immersa nei suoi ricordi, snocciolando, con adorabile leggerezza, un piccolo Bignami musicale degli anni ’90, quando gli applausi, la notorietà, la fama, si guadagnavano suonando quasi tutte le sere ovunque ce ne fosse la possibilità, anche in scantinati maleodoranti con uno spazio vitale più consono a dei sequestrati, che a dei cantanti, con un giudice cinico, sadico e inappellabile: il pubblico, che ti faceva capire se, mettendocela tutta, ce l’avresti potuta fare. Su di lei, con i colleghi e gli appassionati, all’epoca dei suoi incontenibili esordi, avevamo scommesso; è vero, non avevamo lontanamente immaginato che sarebbe stata la prima donna a duettare con Pino Daniele, né che sarebbe diventata un punto di riferimento per il vocalismo al femminile, ma a conti fatti, possiamo tranquillamente festeggiare, perché abbiamo vinto. Lei e noi.

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