BOLOGNA. A due passi da New York, nonostante non ci si sia mai andati. Ma la storia, musicale, della Grande Mela, racconta che nel cuore della City, sovente, leggende viventi che sembrano sempre passare lì per caso, delizino i clienti di un ristorante, dove si mangia molto bene in un ambiente particolarmente caldo e accogliente, con un loro concerto. A due passi da New York, scrivevamo, perché ieri sera, a Bologna, al Bravo Caffè, l’impressione ricevuta è stata proprio quella: trovarsi altrove. Sì, perché per arrivare a parcheggiare la macchina poco distante dal locale e immergersi nella movida bolognese, che pullula di giovani, tanti accenti, parecchie razze, molte etnie e entrare in questo jazzclubristorante e trovarsi, dietro la porta d’ingresso, Russel Ferrante, Bob Mintzer, Will Kennedy e Dane Alderson, che sono l’ultima versione degli YellowJackets, seduti attorno a un tavolino a sbocconcellare qualcosa prima di esibirsi, non pensavamo potesse succedere. E invece. È bastato andare a Bologna. E vederli. Sentirli. Stentare a crederci. Dane Alderson, il più giovane dell’attempata compagnia, non è lì con loro, da sette anni, a caso. Ci sarà un motivo per cui il tastierista Russel Ferrante, cofondatore, nel lontano 1977, con una delle chitarre più belle in circolazione, quella manipolata da Robben Ford, del gruppo, abbia deciso e scelto che dopo Jimmy Haslip e Felix Pastorius, al basso elettrico, fosse il caso che ci stesse lui? Anche Will Kennedy, che in questa parabola musicale luminosissima si è intervallato con Ricky Lawson, Marcus Baylor e Peter Erskine, non ha bisogno di dare spiegazioni perché si trovi su quello sgabello al cospetto della batteria.
All’appello manca il quarto professore della formazione, Bob Mintzer, uomo e strumento (a fiato) che ha dato vita, dopo aver goduto della traccia solcata da Marc Russo, della piccola/grande rivoluzione degli YellowJackets, adottata, per case di forza maggiore non sopprimibili, dall’inderogabile abbandono di Robben Ford. Per rispetto, sacrale, nei confronti del loro compagno/padre spirituale che preferì iniziare ad asfaltarsi la sua interminabile autostrada sonora senza più la compagnia dei suoi amici di giovinezza, gli YJ decisero che in quella band, chitarre, non ce ne sarebbero più state. E così fu, ma senza penalizzare la sonorità della formazione. Anzi. L’assenza della sei corde indusse i reduci del gruppo a spostare, considerevolmente, l’accento musicale e la band iniziò, facendosi riconoscere immediatamente, a erigersi nell’olimpo della worldmusic, come una nuova, indispensabile variante della fusion. Ci siamo dilungati nella longeva cronistoria della formazione perché dalle 22,10, e fino alla mezzanotte, gli YellowJackets, facendosi largo tra i clienti/spettatori del Bravo Caffè, hanno guadagnato il palco e hanno dispensato una meravigliosa lezione, fatta di sontuosi accorgimenti sonori, un’impressionante amalgama strumentale e un imbarazzante rispetto per il pubblico, una passione che li elesse, senza mai più volerli in alcun modo detronizzare, come uno dei gruppi più importanti della storia della musica contemporanea. Certo, quasi tutti gli astanti del locale bolognese, noi compresi, naturalmente, avremmo gradito restare storditi ed emozionati dal revival dei brani appartenenti a quella stagione, semplicemente indimenticabile, che segnò l’orma, incancellabile, del loro groove. I quattro professori invece, onde evitare di cadere nella gradevolissima trappola delle struggenti nostalgie, hanno preferito, fatto salvo un bis generazionale, deliziare il pubblico con le loro più recenti sonorità, che si sono ulteriormente spostate. Altrove. Come Bologna.