PISTOIA. La prossima settimana il palco di Piazza del Duomo, allestito come sempre (fatto salvo che in pandemia station) davanti al loggiato di Palazzo di Giano, verrà febbrilmente smontato per buona pace di moltissimi pistoiesi, che di questo Festival Blues, onestamente, non sanno che farsene. Anche ieri sera, all’inaugurazione dell’edizione numero 42 (non foss’altro per la longevità, è un primato da pelle d’oca), di indigeni ce n’erano veramente pochi. Peccato, perché al di là di ogni ragionevole obiezione sulla composizione della scaletta, l’ospite di prestigio della serata merita, oggettivamente, curiosità, interesse e, una volta terminata l’esibizione, ogni plauso. Personaggio sbilenco, Xavier Rudd (nella foto gentilmente offerta da Fiorenzo Giovannelli), anacronistico e decisamente anomalo. È un cultore della musica, dei suoni e soprattutto dei contesti che li originano. Vero, ha la fortuna di essere figlio e nipote di un’accozzaglia indefinita di etnie e epidermidi, ma senza farsene alcun vanto, ha provato, nella sua esperienza artistica, a ringraziare tutto e tutti quelli che lo hanno fatto diventare quel tenero, tenebroso e professionale aborigeno, che suona praticamente tutto, spesso anche contemporaneamente e lo fa come se fosse un atto di ringraziamento. Non ha assimilato un solo atomo di divismo e se vanta, restando, concentratissimo e senza alcuna propensione allo spettacolo, intento a dare il meglio di sé e dei suoi propositi musicali. È nel bel mezzo della propria esistenza, coccolato da Ben Harper e David Lindley, personaggi che gli hanno consentito di raffinare, ulteriormente, la sua carica sonora e la sua valenza strumentale, senza però indurlo a virare verso le chimere, effimere, tentacolari e spesso irriverenti, dello show business. Anche ieri sera, fedele alla linea e sufficientemente distante dalle bisettrici della sapienza degli spettacoli dal vivo, quelli che devono in qualche modo infiammare i cuori, Xavier Rudd ha spolverato tutto il suo repertorio, dividendosi, sul palco, tra il didgeridoo, la chitarra slide, lo stompbox, il djembe, l’armonica, la batteria e quella voce, tra un folk originario del sud dell’Australia e il reggae per fortuna mai tramontato. Ha modulato le sue grida in difesa delle minoranze, della Terra, privilegiando Pistoia come una delle sue sole date italiane che lo porteranno, quest’estate, in giro per l’Europa a presentare il suo ultimo lavoro, Jan Juc Moon, decimo, in ordine di tempo, per il 45enne australiano con influenze olandesi, scozzesi e, si vede tranquillamente senza scomodare l’albero genealogico, aborigene. Prima di lui, per la serata d’esordio di questa manifestazione (nata quando eravamo minorenni e che per entrare abbiamo dovuto necessariamente ricorrere all’arte dello scavalco), a dare il benvenuto al pubblico, i ragazzi italiani de Il muro del Canto, concentratissimi a presentare e diffondere il loro quinto album, Maestrale.