PISTOIA. Di che cosa stiamo parlando? Nell’ultimo mezzo secolo di storia musicale, i chitarristi, tutti, indistintamente, hanno fatto i conti con Steve Hackett (foto Fiorenzo Giovannelli); dai giganti, come Pat Metheny, fino all’ultimo cantastorie sfigato da sagre paesane. Ieri, quell’ex giovanotto che nel 1971 disse a Peter Gabriel come si sarebbe dovuta impostare l’anima dei Genesis (che così è rimasta anche dopo il 1977, quando Steve abbandonò il gruppo e fino al suo scioglimento, nel 1990), è salito nuovamente sul palco di Piazza del Duomo per onorare la città con la sua meticolosa, profonda, contaminata e contaminante anima strumentale. Un concerto epico, storico, e visto di che storia stiamo parlando, leggendario. Ad accompagnarlo, sul palco della seconda serata della 42esima edizione del Festival Blues, strumentisti, ovviamente, dotati di robusti plurimi attributi (con i controcoglioni, come si dice parlando con la gente del reparto): Jonas Reingold al basso, Craig Blundell alla batteria, Roger King alle tastiere, Rob Townsend ai fiati e Nad Sylvan alla voce. Spazio per ammiccamenti, lusinghe, braccia oscillanti, accendini accesi, non ce n’è stato, né poteva essercene. Quando sei al cospetto di un certo genere di musica non puoi permetterti il lusso di sentirti parte integrante di ciò che ascolti; ascoltare è l’unico dono che ti è concesso. E devi farne tesoro, senza distrarti, perché da un momento all’altro, cambia la tonalità e quello che sembrava voler essere un blues, diventa rock e così via, in un crescendo camaleontico di stili e tonalità, una miscellanea impura di assoluto rigore. Una sperimentazione continua, figlia di una rigida, severa educazione, quella imposta a tutti gli iscritti alla Charterhouse Scholl, il college aperto solo agli uomini dove si formò il primo nucleo storico dei Genesis, con Mike Rutheford e Peter Gabriel. E così è rimasto, Da allora e per ogni rivisitazione. Certo, Gabriel e soprattutto Phil Collins, da solisti, hanno fatto decisamente altro e anche in questi casi, seppur distante dal nocciolo dei Genesis, di assoluto valore. Ma Steve, l’imprinting giovanile, non si è mai sognato di volerlo dimenticare, o abbandonare e anche dopo ha continuato a suonare cercando sé stesso e la sua spiritualità. Ieri sera, in piazza del Duomo, l’ex frontman di uno dei gruppi più importanti del rock del diciannovesimo secolo, ha voluto resuscitare con la musica che lo ha reso leggendario, provando a sentire e a far sentire le medesime emozioni degli esordi, quelli che catapultarono lui e i suoi compagni della formazione sulle vette cosmiche della notorietà. Ieri sera, come allora, il concerto è stato una preziosa occasione culturale, strumentale, una lampante dimostrazione di studio, di ricerca spasmodica di armonia da palco, non da piazza. Nessuno batteva le mani cercando di ritmare il tempo; nessuno si è azzardato a voler emulare, con danze improbabili, l’inno che echeggiava dal palcoscenico. Steve Hackett (che da mezzo secolo non cambia capigliatura, né abbigliamento) non ha mollato, per un solo attimo, l'attenzione sulla mano destra roteante sul corpo della chitarra e sulla sinistra impegnata sui capotasti; le uniche circostanze in cui ha voltato altrove il suo sguardo abbandonando, per impercettibili frazioni di tempo, il proprio strumento, è stato quando si è rivolto ai suoi compagni di serata, con i quali ha diviso e condiviso questo Rivisited Genesis, sorvolando, religiosamente, da Foxtrot a Seling England by the Pound, passando per Nursery Crime e sacrificando, naturalmente, una montagna di altri successi, quelli che hanno consentito alla band di vendere oltre ventuno milioni di dischi solo negli Stati Uniti e per i quali, il concerto, sarebbe dovuto durare due giorni.

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