PISTOIA. Poco dopo le 21, quando la band di Ana Popovic ha liberato il palco per far sì che i Dirty Honey piazzassero i loro strumenti e asfaltassero la loro serata, abbiamo avuto una sensazione stranissima e ci siamo convinti che a notte fonda ci saremmo ritrovati tutti lì, in vicolo Bacchettoni, da Tito’s, per finire, insaziabili, la giornata, a suonare, ridere, bere e fumare. Macché, siamo solo vecchi, con l’aggravante di essere, soprattutto, inguaribili e inguariti nostalgici; ma dopo i set di Gennaro Porcelli e i suoi, nostri, amici e l’esibizione di quella elegantissima serba che invece di guardarsi allo specchio smanetta con serafica disinvoltura le mani sulla chitarra, ci siamo catapultati nel passato e abbiamo creduto che avessimo poco più di venti anni e che in piazza ci fossero quei maestosi caroselli Blues, quelli di quando, leggendo i nomi sui manifesti, stentavamo tutti a credere che potesse essere vero. Il mondo è andato altrove, come è sempre successo e sempre accadrà, nella stessa identica direzione di dove si sia diretto interrogando gli anziani sui tempi delle loro giovinezze, ma noi rispondiamo ai nostri battiti e questi sono stati battezzati dal Blues e il primo bacio, inutile ricordarlo e ribadirlo, non si scorda mai. Per questo ci concentreremo, per il diario della quarta serata della 42esima edizione del Festival Blues, sui primi trenta minuti di esibizione, quelli offerti dall’Hammond di Pippo Guarnera e del suo allievo Pee Wee Durante, con Renato Marcianò al basso e Enrico Cecconi alla batteria, sotto la regia del giovane, ma ormai vecchio, Gennaro Porcelli, l’anima blues di Edoardo Bennato, perfettamente bilanciata da quella rock del suo compagno di palco, Giuseppe Scarpato. C’è ancora il sole, a Pistoia, che di sbieco illumina e surriscalda il palco della Piazza. Sono le 19,30, del resto, di una domenica caldissima, estiva in tutti i suoi connotati e il popolo della notte, delle notti dei Festival, sta ancora sbocconcellando qualcosa o sta cercando parcheggio, fotografando il nome della via o della piazza dove ha lasciato l’auto in sosta, per non avere spiacevoli inconvenienti mnemonici, di emozioni, alcol e stanchezza, al ritorno. Gennaro e i suoi compagni di viaggio, che sono giunti, con Me, You and the Blues, al terzo capitolo di una saga che ci auguriamo infinita, sono già in pista e sono pronti, nell’avarissimo spazio di soli trenta minuti, a dare sfogo e saggio a tutta la loro conoscenza musicale, rimbalzando, con meravigliosa naturalezza, tra i flutti di tutto quello che il Blues, negli ultimi cinquant’anni, ha incancellabilmente scritto. Fino ai suoi più recenti interpreti, con un omaggio, particolare, a Rudy Rotta, compagno di avventura di tutti i membri della formazione, scomparso, sei anni fa, proprio nel mese del Blues. Mezz’ora, cronometrata, altrimenti tra esibizioni e cambio palco ci saremmo inoltrati in orari proibitivi, nella quale Gennaro, Pippo, Pee Wee, Renato e Enrico hanno spolverato un repertorio dal quale non riusciamo, per fortuna, in alcun modo a staccarci, vivendo, con un’intensità difficilmente spiegabile attraverso logici sillogismi, emozioni che vanno ben oltre le capacità, loro, di suonare e nostre, di ascoltare. È il calore, umano, sensoriale, culturale, storico e sociale che si propaga dalle note del Blues e arriva, con inimmaginabili velocità e candore, diritto al cuore, con un superpotere di irrorazione agli altri sensi e organi. Dopo Porcelli e la sua band, infatti, è arrivata Ana Popovic, la signora di Belgrado, una professionista incantevole, che da tempo gira l’Europa accompagnata da eccezionali strumentisti, dei quali ci preme sottolineare l’hammondista, Michele Papadia e i fiati di Claudio Giovagnoli, altri musicisti che fanno del groove umano, prima che sonoro, la loro qualità più spiccata; un Blues più elettrico, quello della serba, forse per motivazioni semplicemente geografiche: nascere a Napoli, per certi aspetti, è una fortuna impagabile. Poco prima delle 22, sono arrivati quelli che tutti aspettavano: i Dirty Honey, californiani nati cinque anni fa e che nel giro di un solo lustro si sono già assicurati fama internazionale e soprattutto, altrimenti non avrebbero concesso loro l’onore dell’epilogo, i Wolfmother, formazione australiana nata, poco meno di venti anni fa, e guidata da Andrew Stockdale, strumentalmente fotocopia dei colleghi che li hanno preceduti e per questo liquidati in poche righe. Eppoi, quando è stato il loro turno, noi eravamo già dietro piazza del Duomo, in attesa, impaziente, che i neri del Blues allungassero, in quell'inimitabile bugigattolo, la notte.

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