PISTOIA. In questo specifico periodo storico dove la memoria soffre, con chirurgica defezione, di lapsus e vuoti preoccupanti, è assolutamente necessario chiedere aiuto ai (pochi) saggi che hanno preceduto la contemporanea attualità. Uno di questi è, senza alcun dubbio, Fabrizio De André (che se fosse stato americano sarebbe stato immortalato), che non ha fortunatamente lasciato un fardello pesantissimo solo alla musica e alla musica d’autore, ma alla civiltà tutta. Qualcuno ancora non del tutto risucchiato e cloroformizzato c’è, visto che la Fortezza Santa Barbara, ieri, preziosa culla estiva dell’Atp, per questa rivisitazione storico/musicale dell’intellettuale genovese, ha registrato un confortante tutto esaurito. E non è successo solo per la sontuosa correttissima rilettura strumentale di alcuni suoi successi, ma perché De André, come Pier Paolo Pasolini, tanto per spiegare cosa si pensi della sua biografia, è un autore senza tempo alcuno e che, sistematicamente, occorre sovente mettersi a rileggere, riascoltare, rimeditare. Certo, il più e il meglio, ieri sera, l’hanno offerto Carlo Costa alla voce, Massimiliano Salani synth, minimoog e voce, Felicity Lucchesi tastiere, minimoog e voce, Emmanuele Modestino chitarra acustica, nylon, bouzouki e voce, Giacomo Dell’Immagine alla chitarra elettrica, chitarra acustica, berimbeau, guitarlele, Luca Santangeli al basso e voce, Eanda Lutaj al flauto, ocarina e voce e il giovanissimo, ma didatticamente impeccabile, Alessandro Matteucci alla batteria, ma restano, anche senza sonoro, le parole dei suoi testi scolpite nella memoria, come effetto rimembrante, ma poi come compagnia impegnativa, pesa, spesso sgradita, ma indispensabile, della vita di tutti i giorni. La serata, infatti, non è stata, perché non voleva essere, un solo evento musicale; alle spalle della fornita e sapiente band, su un mega schermo che si è preso tutto lo spazio disponibile del palco, durante le ballate sono scorse alcune immagini del lasso di tempo nel quale Fabrizio De André ha lasciato, a noi ascoltatori e artefici inerti, ma non inermi, tutte le sue poesie, iniziate a incidere nel 1966, quando 26enne si prese la scena con La guerra di Piero (che la band non ha eseguito), tanto per fare un esempio, fino alle soglie del 2.000, con La domenica delle salme, quando una malattia lo strappò alla vita e all’arte. Nel mezzo, in un’Italia corrotta, clericizzata, bigotta, violenta, massona, deviata, i suoi quattordici album registrati e una montagna, difficilissima da scalare, di sentenze, verdetti, necrologi, ammonimenti, epitaffi, previsioni, chiaroveggenze, i suoi meravigliosi successi. Punta di diamante di quella scuola genovese di cui Faber (ribattezzato così dall’amico Paolo Villaggio, altro sconsacrato del tempo, che è purtroppo finito, prima di morire, nel tritacarne del cinema spazzatura) è stato prima ballerina assoluta (non ce ne vogliano Tenco e Paoli), dal suo avvento sulla scena artistica sono cambiate molte cose con la musica, con i testi e con i suoi destinatari, il pubblico. Marinella, Via del Campo, Storia di un impiegato, Don Raffaè, questi alcuni brani eseguiti dalla formazione affidata al diaframma di Carlo Costa, sardo senza alcuna omissione idiomatica, seduto nello stesso identico modo del suo padre spirituale, con simili tonalità foniche, a volte, ma inevitabilmente sprovvisto della sua anima, con lo sfondo occupato dalle foto e da alcune immagini storiche dei grandi dittatori che stringono le mani ai loro complici, tutti assolti, ma tutti coinvolti. Con l’eccezione di una solida (perché non liquida) coppia di giovani posseduti dalle commoventi e fastidiose frenesie epidermico/erotiche, tutto il pubblico, che si aspettava l’interpretazione di alcune canzoni che appartengono all’immaginario collettivo globale, ha comunque intellettualmente ed emotivamente gradito, facendo un poderoso strappo alla regola; rincasare dopo la mezzanotte di un lunedì qualsiasi. Ah, già, ci preme scriverlo: ieri sera, a differenza di quella di alcune sere fa, poco lontano da lì, dove hanno subito il rigoroso veto dell'irlandese, di fotografi al seguito, che sarebbero stati graditissimi, nemmeno l'ombra, come ci pare doveroso segnalare come alla Fortezza, per la sfortuna di noi stupidi tabagisti, è osservato l'intransigente divieto di fumare. E noi, a spippare, andiamo pure sul ponte levatoio in legno esterno al quadrilatero ecologista, ma voi, l’erba del giardino, tagliatela, che diamine!

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