PISTOIA. Non basta conoscere semplicemente la musica. Né, come ieri sera, poterne valutare tutte le sfumature jazz, per apprezzarlo fino in fondo. Ma pur capendo decisamente meno di tutto quello che han voluto dire e detto, il concerto alla Fortezza Santa Barbara del cartellone estivo pistoiese Spazi Aperti affidato alle tastiere panamensi di Danilo Pérez, al basso e contrabbasso dell’italo americano di Brooklyn John Patitucci e al newyorkese Adam Cruz alla batteria è stato un incredibile, sontuoso, dotto e caldissimo saggio musicale, offerto, nella sua inavvicinabile magnificenza, tra l’altro, da tre professori che prima, durante e dopo l’esibizione si sono fermati a scambiare, amorevolmente e senza alcun dovere scenico e palcoscenico, due chiacchiere con chiunque ne avesse voglia. È la grandezza straripante di chi possiede le chiavi di violino per aprire, praticamente, ogni strumento, dal ristorante/pizzeria dove si sono rifocillati prima di esibirsi, fino agli autografi distribuiti, dopo il secondo e ultimo bis (anche loro, come fece Caetano Veloso tanti anni fa in piazza del Duomo, affidando l’epilogo del concerto alla rilettura di Estate, di Jimmy Fontana, cantante, visto i nobilissimi tributi, che non sapemmo apprezzare a dovere, forse), al pubblico che desiderava complimentarsi con loro, ringraziarli per la magnifica offerta musicale e condividere, con loro, la gioia di far parte, seppur come semplici spettatori, del loro progetto. Una lezione e trino di jazz, nel segno dei loro rispettivi trascorsi artistici e variegati background, quelli che negli ultimi trentacinque anni di musica li hanno avvicinati e fatti diventare collaboratori assidui e insostituibili di alcuni monumenti strumentali mondiali. Al fianco di Chick Corea, Wayne Shorter, Pat Metheny, Stan Getz, Herbie Hancock e una lista innumerevole di altre divinità che rappresentano, ognuno al proprio strumento, gli Harlem Globe Trotters della musica, il trio Pérez è quanto di bello, profondissimo e tenero si possa lontanamente immaginare. Con i soliti interminabili prologhi, fraseggi balbuzienti dei quali non si riesce a percepire, immediatamente, la grandezza e lo spessore dell’intera partitura, che improvvisamente planano e si uniscono, in un solo meraviglioso tripudio, nell’estasi della musica più dotta e colta, quella che non arriva direttamente ai sensi, favorendone l’ondeggio, la danza o il classico movimento ritmato del corpo, ma con quell’attimo non di ritardo, ma di comprensione, che non ti permette, onde evitare di andare fuori tempo, di unirti, integralmente, al suono, obbligandoti ad ascoltarlo come se ogni rigo fosse il primo e/o l’ultimo del brano. Vestiti con capi acquistati da H&M, probabilmente, senza un tatuaggio, lontano anni luce da qualsiasi vezzo modaiolo, di questi come di altri tempi, Pérez, Patitucci e Cruz hanno dato vita a un’esibizione nella quale si sono immersi, immediatamente, con tutto il corpo, tra i flutti, sconfinati, delle loro oceaniche conoscenze, senza però dare mai l’impressione che chi era lì per sforzarsi di arrivare dove loro avrebbero desiderato giungessero, non fosse poi in grado di farlo. Seguendo, pedissequamente, gli spartiti, che nonostante se ne cibino da tempo memorabile, non hanno mai abbandonato con lo sguardo per un attimo, per il rispetto che portano ai loro sforzi e ai rigori, indiscutibili, della musica, anche del free jazz, che parrebbe lasciare carta bianca ai suoi interpreti. Con la leggerezza e la consapevolezza dell’onniscienza sistematicamente minata dalla paura, figlia di un’esperienza che potrebbe addirittura consentire voli bendati, di sbagliare, perché la musica – e loro tre lo san bene – non perdona. Un’ora e mezzo di scale impossibili, richiami ai primordi del jazzrock, quello importato dai Weather Report e dai loro maestri: Joe Zawinul, Jaco Patorius e Alex Acuna. Per piacevole dovere di cronaca segnaliamo che l’erba del giardino interno della Fortezza è stata finalmente tagliata. Grazie.

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