PISTOIA. Stavolta, l’accredito, non occorre. A Serravalle Rock non c’è biglietto; l’ingresso è gratuito. Un motivo in più, per l’organizzazione, sarebbe ottimizzare l’occasione, ma nel piazzale attiguo al giardino del concerto, due, tre stand, con birra monomarca e poche altre cianfrusaglie commestibili. Va bene lo stesso, abbiamo già cenato frugalmente a casa Bugiani, che oltre a saper fare bene un sacco di cose, cucinare lo fa divinamente. Le condizioni climatiche, come al solito, sono ideali; a Serravalle pistoiese, anche se nella vallata balla la vecchia, a una cert’ora ci vuole la maglia. Ai piedi del palco un nugolo di fotografi, più o meno professionali; l’occasione è ghiotta, perché l’inesistenza della sicurezza consente a chiunque di avvicinarsi oltre ogni ragionevole discrezione agli artisti. Controllando bene, inoltre, constatiamo che siano più i fotografi o aspiranti tali, che il resto degli spettatori lì solo per il puro gusto di ascoltare della musica. Che strano; la teoria che le cose belle e preziose debbano avere un prezzo e che più è salato e più il prodotto meriti, resta un tabù difficile da sfatatre. Bloodstone, l’album costruito in piena pandemia a Bruxelles e che sta portando in giro per la tournée, ce l’ha regalato proprio lui, Thomas Frank Hopper, che abbiamo avvicinato subito dopo l’esibizione, per complimentarci e per assicurargli che il giorno seguente (ora) gli avremmo inviato la recensione. Il cappello è fatto: veniamo al concerto: bello, semplice, sporco, ricco, impreziosito dalla profondità della sua voce, ficcante, lunga, senza compromessi. Il Blues con il quale papà Hopper ha fatto crescere, in SudAfrica, a suon di B. B. King, Muddy Waters e Jeff Healey (tutti visti a Pistoia, nei Festival Blues dal 1980 in poi; non lo scordiamo, è il caso) il suo piccolo predestinato, vena ogni nota, nonostante Thomas sostenga che il suo cuore palpiti rock and roll, Verissimo: Ben Harper e Lenny Kravitz, figli naturali e legittimi dei Led Zeppelin e dei Doors, sono e rappresentano la nuova frontiera del rockblues, ma anche per loro – e non sappiamo se siano stati i rispettivi padri, a inondarli di passione -, vale la stessa regola, quella di aver ascoltato, fino alla nausea, B. B. King e Muddy Waters! Sul palco pistoiese di Serravalle Rock, come su quello trevigiano di Monastier e quello padovano di Correzzola, dove si è esibito nei due giorni precedenti, TFH (iniziamo a fomentare la sua bravura; le sigle fanno sempre effetto) non si è portato dietro tutta la band della sua nuova incisione (Jacob Miller al basso e Nicolas Scalliet alla batteria), ma solo la chitarra peruviana di Diego Higueras, con il quale ha allegramente e professionalmente duettato tutta la sera. Girare il mondo in largo e in lungo gli ha anche suggerito, oltre che farsi artisticamente contaminare a qualsiasi latitudine, di scartare il meno possibile. Ecco perché Thomas Verbruggen (stavolta ne trascriviamo correttamente i dati anagrafici, senza pseudonimi, né acrostici), alcune sue lapsteeel le ha ricavate riutilizzando surf e skate suonandole, come altrimenti non sarebbe possibile, appoggiandosele sulle gambe, è forse il migliore, toccante e più onorevole tributo che possa fare a Jeff Healey, il chitarrista canadese non vedente morto ormai da quindici anni; la musica è tutto quello che ci portiamo dentro fino al momento in cui partoriamo un brano e da quel momento in poi, quel motivo, sarà genitore di altre sensazioni, nuova musica, fino a diventare, nel brevissimo, o eterno, spazio di tempo, altra memoria. Prima di metterci alla scrivania a scrivere, ci siamo ascoltati, con attenzione, il dono (graditissimo) fattoci la sera precedente (anche il suo biglietto da visita e un simpatico adesivo circolare che fumetta la sua band) e siamo arrivati alla conclusione, a nostro avviso il miglior complimento che si possa fare a un musicista, che dal vivo sia meglio che in sala di registrazione. L’augurio, una volta che qualcuno tradurrà e leggerà a Thomas il nostro racconto, è che a destinazione giungano, intatte e inalterate, le nostre emozioni, perché ci dispiacerebbe parecchio se non sapesse fino in fondo quanto ci sia piaciuto, il suo concerto.

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