PRATO. Alla sua età, solo Mick Jagger - e il resto delle pietre rotolanti – riescono a stare due ore e mezzo sul palco senza prender fiato nemmeno un attimo. Certo, la voce, almeno ieri sera, a Prato, in piazza del Duomo, disposta in modo tale (anche con le seggioline azzurre in platea) che in più di una circostanza ci ha dato l’impressione di essere a Pistoia, nell’omonimo catino musicale, non è stata quella che buona parte degli spettatori ricorda perfettamente, ma alla soglia degli ottantanni (lo scorso 23 luglio ne ha compiuti settantasette), certe sere non tutto fila liscio e tra difficoltà acustiche e refoli di aria condizionata non debitamente modulata durante le trasferte, può succedere. Il sangue, il coraggio, l’energia e il sound, in compenso, sono quelli di allora, sono gli stessi che accompagnano il cantastorie di Bagnoli da una vita e che per fortuna, continuano a tenergli compagnia. Edoardo Bennato e la sua BeBand sono, senza ombra di dubbio e senza alcuna ragionevole opinabile possibilità detrattrice, una delle cose più importanti del panorama musicale italiano di ogni tempo; passato, presente e futuro. Una vita al servizio della musica, del rock e del blues, della poesia, delle denunce, quelle che a cadenze fisse salgono, nette e chiare, dal golfo partenopeo da parte di alcuni indigeni che della loro Napoli non possono e non vogliono farne a meno, ma che, se potessero, ogni tanto, qualcosa, di quell’emisfero unico e irripetibile, cambierebbero. Per far capire agli spettatori come sarebbe andata la serata, il menestrello nato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale si è presentato sul palco, alle 21,21, da solo, con una delle sue tante t-shirt ultra campanilistiche (ieri sul petto, aveva stampato Nisida), con la sua chitarra e la sua armonica, esibendo, in fila, Dubbi non ne ho, Sono solo canzonette e Il gatto e la volpe, tre motivi, delle decine e decine, che hanno impreziosito la sua storia discografica e culturale. Ma Bennato vuole anche dire la sua formazione, indispensabile alla causa alla pari del protagonista e allora, per La torre di Babele, sono entrati in scena i suoi adorabili e impareggiabili scugnizzi: Gennaro Porcelli e Giuseppe Scarpato alle chitarre, la prima blues, la seconda rock, Arduino Lopez al basso, Raffaele Lopez al piano e Roberto Perrone alla batteria. Da quel momento in poi, la storia delle preghiere, dei proclami e delle indignazioni di Edoardo si è fatta, anche e soprattutto, storia del rockblues italiano, con la graditissima aggiunta di Gennaro Scarpato, salito sul palco sulle note di Mangiafuoco e rimasto lì, per dare ulteriore lustro alla pregevole ritmica dell’intera formazione, fino alla fine del concerto, intorno alla mezzanotte, con pubblico e strumentisti grati e stupiti dall’energia del paladino delle Crociate di Pinocchio. Attorno alla favola di Collodi, anche in questa circostanza, infatti, si è sviluppata la trama del racconto, con la riedizione di Mastro Geppetto (del falegname e di Lucignolo, ha detto il cantautore tra una canzone e l’altra, mi sono accorto, nel tempo, di non aver detto abbastanza, quasi nulla) intervallata dalle indimenticabili Quando sarai grande, Cantautore, A Napoli 55 è ‘a musica, canzone dove Gennaro Porcelli prima e Giuseppe Scarpato poi si sono messi all’anima di giocare, entrambi, con le proprie profonde conoscenze musicali, dando vita a due meravigliosi singoli propedeutici assoli, evidenziando l’anima blues e quella rock di David Gilmour, uno dei profeti dei Pink Floyd, prologo a Capitano Uncino, il manifesto rock con il quale si è chiuso il concerto. Prima, nonostante Bennato abbia deciso di rinunciare a esecuzioni di certo impatto emotivo e nostalgico (ci vengono in mente Venderò, Salviamo il salvabile, Non farti cadere le braccia, Viva la mamma, Un giorno credi e molte, troppe, altre), il sogno, al pubblico, l’ha concesso con l’interpretazione de L’isola che non c’è, una di quelle poesie che hanno accompagnato, fino alla stretta letale dell’oblio, le illusioni di un’intera generazione, quella che ha inseguito invano le indicazioni, un manifesto di occasioni perdute che ha suggerito ai numerosi spettatori di immortale quel ricordo e quel momento con l'accensione delle luci, cimiteriali visti gli sviluppi storici, politici, civili e sociali, degli accendini e dei telefonini: seconda stella a destra, questo è il cammino e poi dritto, fino al mattino. Poi la strada, la trovi, da te: porta all’isola che non c’è

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