PISTOIA. Ha ragione Lisa (Cantini): né prima, né dopo. Era esattamente questo il momento che l’Atp e il Funaro si trasfusionassero. Entrambi avevano bisogno l’un dell’altro: il secondo, della certezza e della solidità strutturale del primo; il primo, della linfa energetica e vitale del secondo. Solo così, ora, dopo la Pergola di Firenze e il Met di Prato, anche Pistoia, con la nuova Atp, entra, a pieno diritto, nell’area metropolitana artistica (di quella di superficie non ne parliamo, per carità). Questo opportuno, sacrosanto e ideale sodalizio, prima, avrebbe forse avuto tratti forzati e forzosi, quasi incestuosi; dopo, sarebbero stati intempestivi, come se si fosse dovuto correre ai ripari per non perdere treni e Fus. Solo così si capisce e si apprezza nella sua interezza La Via del Funaro, che ha il sapore di quella della Seta, soprattutto all’indomani della sua inaugurazione, con il concerto di Dimitri Grechi Espinoza, Gabrio Baldacci e Andrea Melani, al Funaro, in un’assemblea spontanea di intellettuali che hanno potuto assistere e godere (tanto) di Mali Blues, prodotto da un altro importante sodalizio, quello di Toscana Produzione Musica e Atp, della serie: mangiata una ciliegia, le altre, vengon da loro. Ma al di là di ogni doverosa considerazione culturale, sociale e strategica, ci corre l’obbligo, che assolviamo piacevolmente, di raccontarvi i novanta minuti scarsi dell’esibizione. Un crogiuolo di esperienze, contaminazioni, esperienze, tutte gravitanti attorno al fulcro del jazz, che vuol dire, letteralmente, non fare a meno di avvalersi della ritmica africana, delle sonorità della worldmusic e di tutto quello che da queste due premesse nasce e si sviluppa nel tempo musicale, il blues e il rock. Il concerto di ieri sera è stato, in buona sostanza, un omaggio, strapersonalizzato, seppur trino, a tutto il magma sonoro che i tre musicisti hanno incamerato e rielaborato come formazione, certo, ma anche e soprattutto rivisitando le loro singole esperienze. Che non possono certo non avere, nel contatto con la cultura tuareg e berbera (l'influsso di Bombino: ve lo ricordate a una delle tante edizioni del Festival Blues?), il centro nevralgico di questo studio, che è quello che ha prodotto, soprattutto nella fisiognomica del sax sovietico/labronico, una meravigliosa pastura internazionale, continentale. Il primo applauso, ieri sera, il pubblico del Funaro, lo ha potuto tributare solo dopo circa trenta minuti di esibizione, quando i tre strumentisti hanno finalmente interrotto il suono e raccolto il primo consenso. Fino ad allora, la ricerca della ritmica, del groove, delle sonorità confacenti alla serata dei tre specifici linguaggi hanno (ri)cercato attraverso un copione scritto, sì, ma che pareva all’incanto, il giusto alfabeto, che fosse quello grazie al quale gli spettatori potessero poi, nella loro intimità d’ascolto, comporre le frasi del loro dizionario e renderle traducibili anche da quelli apparentemente stranieri. Un concerto avvolgente, che a volte ha dato l’impressione di ispirarsi al Mercato Nero dei Weather Report, altre a La fine dei Doors, ma senza mai identificarsi pienamente in quello che pareva stesse per immergersi. Un’esibizione curatissima, nonostante i tre artefici, virtualmente, ognuno concentrato con il proprio strumento e le sue innumerevoli divagazioni sonore, pareva fossero attratti da lidi tra loro incompatibili, diretti altrove, in parole povere, ognuno con la propria mappa, senza dare spunti e riferimenti toponomastici al compagno di viaggio. Dimitri, in qualità di direttore d'orchestra, che sceglieva di lasciarsi guidare quando dalla chitarra, computerizzata e masterizzata, di Gabrio, quando dalla batteria di Andrea, dai tempi profondamente jazz. Sabato prossimo, 21 ottobre, la stessa identica triade sarà di nuovo in scena in una delle tante residenze dell’Atp, al Teatro Mascagni di Popiglio, per l’esattezza, su uno di quei versanti della Montagna pistoiese sui quali, almeno per ora, Maometto ha deciso di non andare.

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