PISTOIA. I congedi dalla Storia si chiamano Addii; quelli dalla Leggenda, Arrivederci. Ma loro, i Manhattan Transfer, lo sanno di essere entrati, da tempo, nel novero esclusivo dell’eternità? Probabilmente sì, o forse no, perché non saprebbero di che farsene, probabilmente, di stare lì, nell’Olimpo della Musica, a poltrire. Nel dubbio, qualcuno deve aver suggerito loro che il titolo della loro ennesima, meravigliosa, tournée, fosse giusto chiamarsi The Big Farewell Tour; viste le età di ognuno, la fine delle esibizioni è indiscutibilmente prossima a verificarsi, ma un po’ per scaramanzia, possiamo immaginare, ma soprattutto perché il Mondo, fino a quando ne avranno in corpo, li vorrà ascoltare, loro non si fermano. Certo, da una decina d’anni, Tim Hauser, il tassista che ha creato la formazione, non c’è più e Janis Siegel, ieri sera, a Pistoia, al Teatro Manzoni, dove i quattro astronauti hanno fatto scalo, dopo i primi tre pezzi, quelli nei quali gli addetti ai lavori sono autorizzati a scattare fotografie, ha sollevato gli occhi all’insù e al loro straordinario compagno di viaggio ha voluto dedicare la serata. Che è stata, inutile dirlo e scriverlo, probabilmente, anche per chi, come noi, non ha deciso di caricarla di indelebili emozioni lontane, stratosferica. Le nostre emozioni lontane hanno una data, comunque: luglio 1985, Stadio Renato Curi, di Perugia, in una delle prime edizioni di Umbria Jazz. Sul palco allestito davanti la porta della curva Ovest, Tim Hauser, Janis Siegel, Alan Paul e Laurel Massé cantarono, senza mai stare fermi, ma ballando, per un’ora e cinque minuti, ininterrottamente. Alle loro spalle, però, non c’era, come ieri sera e come succede per questa tournée alla quale, orgogliosamente, possiamo dire e scrivere di esserci stati, una band, una formazione musicale, o una vera e propria orchestra, come la Medit Orchestra, diretta da Angelo Valori (una chitarra acustica, un contrabbasso/basso, una batteria, un pianoforte e una trentina di giovani musicisti, tra fiati, violini e percussioni); in quei tempi, i Manhattan Transfer si esibivano a cappella, senza il supporto musicale. (Ri)cantavano tutto quello che prima, poco prima e durante la loro ascesa nell’Olimpo, altre figure leggendarie avevano già scritto: Ella Fitzgerald, Count Basie e buona parte del jazz anni ’40, tanto che il nome della formazione, proprio a quel periodo e ricalcando il titolo del libro dello scrittore statunitense John Dos Passos, Manhattan Transfer, appunto, voleva ispirarsi. In quegli anni si permisero addirittura di profanare un tempio: Birdland, dei Water Report, pezzo, epico, strumentale scritto da Joe Zawinul, che con loro divenne un santuario della worldmusic cantato in vocalese. Con quel brano, trentotto anni fa, chiusero l’esibizione perugina e con quel brano, anche ieri sera, Janis Siegel, Alan Paul, Cheryl Bentyne e Trist Curles, questo il nuovo e ultimo quartetto dei Manhattan Transfer, si sarebbero voluti congedare da un Teatro Manzoni pieno e traboccante di riconoscente entusiasmo. Ma all’appello dei gradimenti, dei ricordi, delle invenzioni, mancavano ancora Chanson d’Amour e Soul Food To Go, altro brano che appartiene all’immaginario collettivo brasiliano e cosmico, quel Sina, di Djavan, che in Italia, grazie alla voce, all’anima e al corpo ancora liberi da persecuzioni e orpelli chirurgoplastici di Loredana Berté, divenne Jazz. Un’ora e mezzo di solfeggi, sovrapposizioni fonetiche, mostruosi controcanti, con le voci baritonali maschili a controbilanciare i si bemolle femminili, con reciproche infiltrazioni contaminanti canore, buone a sollevare all’infinito un suono, prima di farlo morire, e resuscitare, nel brano successivo. Quel quartetto elegante, sontuoso, nobile in tutte le sue sfaccettature, così grande e inarrivabile che si può permettere il lusso, proprio per rimanere tra tutti i mortali che non smetteranno mai di applaudirli, di continuare a giocare, con i loro diaframma e con il pubblico, regalando momenti di irraggiungibile piacere, accompagnati dalla musica che li supporta e li solleva, dopo cinquant’anni di concerti, nella loro ultima indescrivibile passeggiata verso l’Infinito.

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