PISTOIA.

Chi si aspettava un altro incontenibile show dell’illusionista Arturo Brachetti, il mago dei due mondi, c’è rimasto un po’ male, forse. Pochi minuti, beninteso, perché anche se si è capito che in questa circostanza, al Teatro Manzoni (si replica stasera: meglio non perderlo) il trasformista si sarebbe limitato a fare il regista (coadiuvato da Luciano Cannito), il direttore del Circo, o meglio, l’ambiguo presentatore (Emcee) e non a lasciare il pubblico a bocca aperta con le sue magie, tutto il cast di Cabaret (di John Kander, Fred Ebb, Joe Masteroff) ha fatto ampiamente il proprio dovere, senza dare vita al minimo virtuale rammarico di ogni singolo spettatore. Una serata di Teatro nella quale è lo Spettacolo a prendersi tutto e tutti, mortificando, con sacrale rispetto, ogni altra forma attoriale e lasciando all’ingolfatissimo palcoscenico preso in ostaggio da persone, rumori, colori, luci, volteggi, piroette e musica dal vivo, soppalcata (Gian Marco Careddu, batteria; Roberto Rocchetti, pianoforte; Paolo Rocca, fiati e Ermanno Dodaro, contrabbasso), tutti gli spicchi degli applausi. Certo, la storia è tassonomicamente rispettata; siamo a Berlino, nel 1930 e il Nazismo inizia a prender corpo, forma, supremazia, nichilismo. Di raccontarvi il resto, due storie d’amore entrambe mortificate dalla follia hitleriana e dall’inutile cocciutissima personalità artistica di una qualsiasi intrattenitrice (straordinaria Diana Del Bufalo, nei panni di Sally), non crediamo valga la pena; di tesservi le lodi, sperticate, di tutti quelli che animano il musical, sì, con doveroso piacere. A cominciare proprio dal regista, quel secco impressionante che nonostante abbia superato da tempo i sessanta, continua a molleggiarsi come un ventenne, riuscendo a defilarsi dall’occhio di bue - per poi tornarci alla fine, come uno dei tanti ecce homo mandati a morire nell’orrore che è meglio non dimenticare - per far posto ai suoi coprotagonisti, che avvertono l’onore e l’onere di dare vita a un vorticoso intrecciarsi di balli e canti, con musiche, costumi e scenografia (Rinaldo Rinaldi, Maria Filippi e Giovanni Maria Lori) degne delle migliori occasioni in due storie d’amore senza tempo. Entrano ed escono, dalla scena roteante che trasforma il palco dalla camera migliore del modesto albergo di Berlino, che ospita artisti e mignotte, al night più lussurioso, fino a diventare la più importante frutteria della città tedesca, tutti i personaggi: Cristian Catto (Clifford Bradshaw), Christine Grimandi (Fräulein Schneider), Fabio Bussotti (Herr Schultz), Giulia Ercolessi (Fräulein Kost) e Niccolò Minonzio (Ernst Ludwig), supportati, nel piacevolissimo carosello, che è poi una meravigliosa maratona che ha lambito la mezzanotte, dal resto della compagnia, soprattutto danzante, (Francesco Cenderelli, Simone Centonze, Elisabetta Dugatto, Felice Lungo, Ivana Mannone, Stefano Monferrini, Gaia Salvati e Susanna Scroglieri) che sono tutti quelli che hanno ricevuto gli spettatori in sala in abiti succinti da bordelli europei degli anni ’20 e che hanno interagito con i protagonisti per l’intera rappresentazione, dando vita a esemplari corpi di ballo, nei quali tutte le signorine, nel bel mezzo del can can, si sono puntualmente toccate la punta del naso con il ginocchio della gamba sollevata al cielo. Eppoi, ci preme sottolineare la bellezza delle interpretazioni canore senza supporti informatici, la straordinaria confusione scenica che si è presa gioco di ogni forma di equilibrio fisico, la perfezione dei ritmi, l’afflato scenico su un palco che se fosse stato lungo e largo il doppio non sarebbe comunque bastato e la tenera, doverosa, indispensabile testimonianza a difesa di razze, credo, colori e orientamenti, in un periodo che ha tutta l’aria di essere perfidamente pericoloso.

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