PISTOIA. Dal cilindro di Gianni Boncompagni, che ha avuto il merito, con Renzo Arbore, di inventare la Radio (Alto gradimento è la scuola, eterna, delle modulazioni di frequenza) e quello, decisamente meno nobile, di essere uno dei responsabili della tivvù spazzatura, sono uscite tante starlette; Sabrina Impacciatore, ad esempio, che a teatro si è ritagliata il suo degno spazio. Ma anche Claudia Gerini, che il teatro farebbe meglio a frequentarlo da spettatrice. E invece, dopo tanti film di successo (al botteghino), quasi sempre al fianco di Carlo Verdone (la domanda nasce spontanea), ieri sera, al Teatro Manzoni di Pistoia, l’attrice romana si è voluta cimentare, con un meraviglioso corpo di strumentisti, i Solis String Quartet (Luigi Di Maio, Vincenzo Di Donna, Gerardo Morrone e Antonio Di Francia, viole, violini, violoncello, chitarra, in ordine sparso) in un pericolosissimo omaggio (solo da un punto di vista emotivo, caratteriale, culturale; strumentalmente la serata è stata esemplare) a Franco Califano, artista stratosferico che noi della (fallita) generazione dei puri abbiamo sempre maldestramente etichettato come uomo di destra, alla stregua di Lucio Battisti, costretti ad aspettare le loro morti per riuscire a goderne, tardi e con innumerevoli rimpianti, lo stratosferico patrimonio culturale. Ma al di là delle imperdonabili responsabilità ideologiche di noi gruppettari, sulle quali dovremmo interrogarci seriamente e capire perché ci si sia fatti pilotare così indegnamente sui gusti, le tendenze, glorificando nullità e crocifiggendo talenti, torniamo all'esibizione di Claudia Gerini. Che da romana purosangue, nei confronti della poetica irriverente, blasfema, popolare, borgatara, si potrebbe addirittura ipotizzare, pasoliniana, per certi aspetti, qualche vantaggio avrebbe dovuto e potuto sfruttarlo. E invece, con questi leggii che sono la mortificazione di alcune rappresentazioni, Claudia Gerini e la sua Qualche estate fa, non è mai riuscita a caricare le canzoni che ha interpretato con il giusto e dovuto pathos. Al paroliere di Tripoli, figlio delle campagne fasciste in terra d’Africa, occorre, indispensabilmente, riconoscere e tributare un’anarchia intellettuale che lo ha tenuto puntualmente lontano e fuori da ogni solida piattaforma commerciale, salvo poi venir glorificato dall’esibizione che alcuni suoi interpreti han dato delle sue canzoni, senza dimenticare quel modo di vivere del Jean Paul Belmondo denoantri che gli valse accuse calunniose, arresti e una vita trascorsa a inseguire la pulizia della fedina penale, pur senza dimenticare l'assidua compagnia di un esercito di donne fascinosissime e lo svago di fiumi di cocaina. Ieri sera, invece che assistere alla riesumazione della dignità artistica e giudiziaria del Califfo (un poeta maledetto, un artista infermale) si è avuta, in più di una circostanza, l’impressione che si celebrasse la carriera di un cantante qualsiasi, che ha avuto il merito di scrivere poesie meravigliose affidate alla voce di colleghi meno invischiati con la malavita di lui. Nulla di più. Nella scaletta, han trovato spazio Un tempo piccolo, Un’estate fa, Io non piango, Minuetto, La nevicata del ‘56, La musica è finita, Io m’embriaco, La mia libertà e, gran finale, prima di un immancabile bis, Tutto il resto è noia, canzoni catapultate nell’olimpo leggendario della musica popolare italiana grazie alle interpretazioni di voci debitamente celebrate che raccontano vite improbabili e border line di donne ricordate e finite solo nelle sue canzoni, ma in alcuna antologia femminile. Del suo dolore, del suo controcorrentismo, ostinato e incorruttibile, delle sue amicizie pericolose, scomode, ma fedeli, del suo incrollabile machismo (che oggi verrebbe bollato e censurato), della macchina di fango azionata a orologeria che ha voluto condannarlo (e non fu il solo; in quella maxi/invenzione giudiziaria cadde anche Enzo Tortora, salvo tarde assoluzioni con ancor più irritanti relative scuse) ai margini della società, prima ancora che della cultura, non si è mai sentito un friccico. Pensavamo che il richiamo a teatro di una notorietà cinematografica scatenasse la solita, plausibilissima, equazione del tutto esaurito. E invece, nonostante le nomine ai vari premi destinate ad attori e attrici sulla cresta dell’onda, Claudia Gerini non ha messo in moto la macchina del tutto esaurito. Quelli che c’erano, però, han gradito. E molto.