QUARRATA (PT). È una Napoli che non esiste più, o che dovrebbe essere cancellata, per essere studiata, naturalmente, o che viene tenuta artificialmente in vita dall’ultima coda dell’invincibile camorrismo, che nemmeno Nino D’Angelo e Gigi D’Alessio, intonano più, quella cantata da Enzo Gragnaniello, artista neomelodico, ma arabeggiante, che ieri sera ha aperto, nel Prato dei Ciclamini della Villa Medicea La Magia, la terza edizione del Quarrata World Music Festival. La nota, deliziosa, l’han data i tre strumentisti che hanno accompagnato l’artista napoletano sul palco: la mandolina di Piero Gallo, il basso e il violoncello di Erasmo Petringa e la batteria e percussioni di Marco Caligiuri. Un concerto iniziato dieci minuti prima delle 22 e che ha visto snocciolare buona parte delle ultime canzoni scritte e arrangiate da Enzo Gragnaniello del suo album, L’ammore è ‘na rivluzione, con un piccolo intermezzo strumentale affidato al suono mediorientale di Piero Gallo e i tre doverosi tributi alle canzoni scritte per Mia Martini (una storia di degrado femminile), Mia Martini e Roberto Murolo (Cu’mmé), e Ornella Vanoni (Alberi). Una carriera costellata da prestigiosi riconoscimenti, quella del musicista/poeta Gragnaniello; quattro Targhe Tenco (1986, 1990, 1999 e 2019), sempre come miglior album in dialetto e altri attestati artistici, distribuiti lungo la sua carriera fino alle porte del terzo decennio del terzo millennio. Un portento napoletano, nato, cresciuto e artisticamente formatosi nei Quartieri Spagnoli, in un appartamento studio di registrazione dove partorisce tutte le sue creature musicali. Che non si è mai voluto e potuto sdoganare, però, finendo per essere un maestoso e magnifico esemplare esemplarmente e singolarmente partenopeo. Un concerto, quello alla Magia, che ha sottolineato il marchio, di indubbia, ma controversa fedeltà, che Enzo Gragnaniello ha dato a tutta la sua produzione; un concerto, quello della Magia, che il settantenne napoletano ha liquidato con l’esecuzione di una quindicina di brani senza accompagnarne uno con qualche vicissitudine quotidiana che facilitasse il pubblico in quel viaggio di immedesimazione che è il piatto forte di alcune esibizioni. Un cantore che non racconta, non spiega, non ricorda è un cantore che si può permettere quel lusso solo se il contenuto, musicale e affabulatorio, delle sue canzoni non abbia bisogno di alcun dettaglio per arrivare, diritto, al cuore degli spettatori. Gli spettatori infatti, non proprio numerosissimi, nonostante si sia e si fosse a cinquecento chilometri da via Toledo, erano, quasi tutti, napoletani trapiantati in Toscana, quasi tutti affetti, come la stragrande maggioranza degli emigrati, da quell’inguaribile e comprensibilissima nostalgia, quella che ti fa venire in mente gli odori e i colori della tua terra dalla quale hai deciso di allontanarti senza però avere la minima intenzione di farci ritorno. Negli scarsi novanta minuti di esibizione poi, Enzo Gragnaniello, voltandosi indietro, come ha fatto con Murolo e la Martini, avrebbe potuto omaggiare – e sarebbe stato particolarmente gradito – il suo più famoso compagno di classe delle scuole elementari Oberdan, Pino Daniele, musicista oggettivamente e insindacabilmente universale il quale non solo Napoli, ma tutto il Mondo, continuerà, instancabilmente, a ringraziare.

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