PISTOIA. Fino a quando a prevalere, sul sound della formazione di Tucson, è stata la componente CALiforniana, il pubblico della Fortezza santa Barbara, in presenza massiccia ad aprire il sipario sulla 43esima edizione del Festival Blues, nonostante apprezzasse la musicalità del sestetto nordamericano, non si è voluto lasciar andare come concerti consigliano e registrano. Devono averlo capito anche Joey Burns e i suoi storici cinque colleghi, al di là di una scaletta preordinata, che per scaldare gli animi e i muscoli degli spettatori occorresse qualcos’altro; nulla di eccezionale, beninteso, ma qualcosa che fosse meno radiofonico e cinematografico e più direttamente legato alle sensazioni seduta stante. E allora, stop alle suonate folk, country, indie e d’autore e gas alla matrice del mEXICO, che non si può ascoltare restando seduti sulla propria seggiolina, ma è necessario, anzi, indispensabile, condividere con l’entusiasmo di quel genere musicale ballando senza ritegno alcuno. Gli ultimi venti minuti del concerto, infatti - oltre a far registrare un minimo di panico tra gli addetti alla sicurezza, subito dissolto dalla civiltà con la quale, il popolo danzante del Festival, ha voluto omaggiare i Calexico (nella foto dell’immarciscibile Fiorenzo Giovannelli) e i loro quasi trent’anni di carriera -, hanno messo sulla bilancia dei ne valeva la pena i maggiori decibel di gradimento. È iniziata così la nuova avventura della famiglia Tafuro, una dinastia tra le più longeve alla direzione artistica di un Festival così importante come quello di Pistoia. Qualche spettatore, frastornato dalle locandine, prima di addentrarsi nel giardino della Fortezza santa barbara, dove coesistono più veti di tutta Europa, ha chiesto, volendo sincerarsene, che fosse proprio lì, e non in piazza del Duomo, il concerto. E dopo due piccole esibizioni di una cantautrice e un terzetto, eccoli, in perfetta forma, snocciolare alcune delle canzoni che hanno lasciato maggiormente il segno rispetto ad altre, vagamente estratte dalle loro circa venti registrazioni in studio, quelle che li hanno poi consacrati e omaggiati con la targa di una delle formazioni indie rock più tentacolari. Con le categorie e le affiliazioni culturali non si va lontano quanto si vorrebbe; bisogna entrare nel cuore di chi ascolta, solleticare le piante dei piedi, produrre energia che necessita, insindacabilmente, di una reazione uguale e contraria ai benefici assunti. Occorre che gli spettatori restino incantati, vengano rapiti da un’entità anonima, non quella dei sequestri e godano nell’entrare in un’altra dimensione che non corrisponde a quella nella quale sono stati in attesa. I Calexico, nell’ultima mezz’ora scarsa del loro concerto, sono riusciti nell’impresa, non certo titanica, ma pur sempre considerevole, di imporre al loro pubblico una condivisione adrenalinica che ha prodotto gli effetti desiderati, tanto da chi stava sul palco, tanto da chi, sotto il palco, aspettava di ricevere quegl’impulsi. I primi tre quarti di concerto, dunque, non sono stati all’altezza? No, ci mancherebbe altro, ma prima dell’avvento messicano, gli spettatori non ha hanno sentito la benché minima esigenza di ringraziare calorosamente; si sono limitati ad applaudire al termine di ogni esibizione, seguendo, con modestia ginnica (un lieve oscillare delle teste), i rif della formazione statunitense/messicana, avvertendo, in più di un’occasione, arie che affratellavano i Calexico a una serie di altre esperienze musicali. Un po’ i Rem, un po’ C.S.N.Y, ma anche le meravigliose pellicole di Sergio Leone e le sue leggendarie colonne sonore. Bisognerebbe fare, subito, alcune considerazioni, ma preferiamo soprassedere e aspettare gli altri concerti, soprattutto perché se ci permettessimo di fare anche delle sole piccole, semplici e inoppugnabili obiezioni, il popolo dei detrattori (invecchiati, ma alcuni ancora vivi) si sentirebbe autorizzato a scagliare le prime pietre già dopo la prima serata.