PORRETTA (BO). Potremmo davvero riciclare le recensioni delle passate edizioni, cambiando nomi e foto, e raccontarvi, con precisione tassonomica, anche questa 36esima edizione del Porretta Soul Festival: non si correrebbe alcun rischio, ma veramente. Perché Porretta, in quei meravigliosi quattro giorni dell’evento musicale, è davvero sempre uguale a sé stessa. Non cambia mai nulla, mai; la solita sperticata accogliente cortesia di ogni indigeno, il clima, morigeratamente festoso, di tutto l’ambiente, il meraviglioso puzzle urbanistico che riporta tutto sul limitare del Parco Rufus Thomas e la musica, quell’onda letteralmente anomala che si ripete, con commovente tenerezza, ogni anno. Succede sempre puntualmente così perché il Porretta Soul Festival vanta un direttore artistico (Graziano Uliani), che è poi l’ideatore dell’evento, ma anche la macchina industriale che lo tiene in piedi, nonché il padrone di casa che accoglie gli artisti e il primo, vero, incontenibile appassionato spettatore dei concerti. E con lui tutta la corposa cerchia degli addetti ai lavori, dalla cassa che distribuisce biglietti, fascette cromate ai polsi e accrediti (ogni giornalista e fotografo vengono riconosciuti e salutati, con sorrisi autentici, per nome; una cosa meravigliosa), agli uomini della Sicurezza, quasi inutili vista la ludica civiltà che caratterizza la manifestazione. Sono perfettamente consapevoli dell’umore dell’evento, e complici, anche tutti gli artisti che salgono sul palcoscenico, che è una piattaforma senza soluzione di continuità del parterre occupato dai fedelissimi e dai fotografi. Succede puntualmente così perché Graziano Uliani, anziché lasciarsi tentare e contaminare da artisti e generi affiliati, continua imperterrito a battere la strada del Soul e nonostante i suoi padri spirituali si siano ormai disciolti nell’Universo del tempo senza tempo, senza mancare comunque di venire, almeno una volta, a deliziare il cielo sopra Porretta, è sempre febbrilmente alla ricerca di volti, voci e strumenti nuovi capaci di dare alla manifestazione la linea guida, il senso e la sua autenticità. Un’incrollabile fedeltà che non ha il sapore o il retrogusto di immotivata cocciutaggine e che viene premiata, ogni anno, da quel festoso nugolo eterogeneo di spettatori, da Giove Pluvio che garantisce tregua anche se nei paraggi venisse il finimondo e da una critica che non può che raccontare, genuflettendosi, il moltiplicarsi delle edizioni. Gli artisti sono artisti quando salgono sul palco, duettando e scherzando con il presentatore, Rick Hutton, che li conosce, perché conosce la loro musica, perché conosce la musica; ma sono spettatori appassionati prima e dopo le loro performance, perché quando non tocca a loro, non sono nei back stage (il giardino a lato del palco, con seggioline di plastica e qualche delizia commestibile) a prepararsi, ma si confondono con il pubblico per godere quell’atmosfera che si materializza e si rinnova solo lì, in quel borgo fiancheggiato, nel silenzio e nella complicità, dal fiume Reno, che scorre tra la piazza e la stazione ferroviaria, collegate tra loro da un ponte che è l’unico accesso alla città dal fronte nord est.

Ma i concerti? Certo, sono il motivo dell’esistenza della manifestazione, il loro significato, ma fanno parte, ininterrottamente, della linea umana e culturale che autorizza l’esistenza di una festa meravigliosa. Che inizia in tarda mattinata, tra colazioni e esibizioni dal vivo e si allunga fino alle ore più buie, ma stellatissime, della notte, tra strett food e hot dog, tra fiumi di birra e alcolici, con gli agenti delle forze dell’ordine che non sentono mai la necessità di stare sul chi vive. E ieri sera, dopo un esordio, il giovedì, con un fantastico set di Blues, è arrivata Miss Bee & The Bullfrogs (le foto sono di Fiorenzo Giovannelli, l’autore della copertina di questa 36esima edizione), con la madame del sax e della voce sorretta dalla chitarra di Eric Gayon, una delle tante reincarnazioni, sparse nel mondo, dello statunitense Derek Truks, prologo ideale al set conclusivo affidato al Memphis Music Hall Of fame Band, dove ognuno, nell’emiciclo del parco appenninico, si è sentito esattamente dove sarebbe voluto essere.

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