di Elisabetta Salvatori
FORTE DEI MARMI (LU). 5 aprile, Domenica delle Palme. Di scrivere un pensiero su questi giorni di pandemia, mi è stato chiesto una ventina di giorni fa e fino a oggi non avevo trovato un attimo di tempo; eppure sono a casa dalla mattina alla sera! Prima che tutto si fermasse, stavo facendo le prove per uno spettacolo e avevo da poco cominciato a lavorare su un testo. Con tutto il tempo che mi sono improvvisamente trovata avrei potuto affinare lo spettacolo e portare avanti il testo; invece, ho smesso di dedicarmici. Ho iniziato una cosa nuova, una storia vera, la vita di una donna che mi avevano chiesto di raccontare e che avevo detto di no. Questi giorni li passo a scrivere di questa donna e a sistemare la casa e il giardino, che sono ancora in disordine; ma ora, va già molto meglio di prima. Non è la prima volta che faccio così: in altri tempi sospesi, in cui ho avuto paura e ho dovuto attendere, mi sono comportata nello stesso modo. Quando mia madre è stata operata al cuore e ha passato un’estate in ospedale; poi finalmente è tornata a casa. E quando in ospedale c'è entrato Carlo Monni e dopo una ventina di giorni ci ha lasciati.
PISTOIA. Chi lo professava e profettizzava, ha avuto improvvisamente ragione; per salvarci, da questa pandemia, ma anche da tutte quelle che verranno a cascata, non solo quelle aeree, figlie di pipistrelli mangiati crudi o manipolazioni di laboratorio, occorre, indispensabilmente, decrescere. Non c’è altra soluzione: o iniziamo, tutti, a fare qualche passo indietro, o in avanti non riuscirà ad andare più nessuno. Chi, negli anni ’70, sfilando in corteo per le vie delle grandi metropoli, inneggiava, tra l’altro, lavorare meno, lavorare tutti, potrà rivendicare la paternità di certe premonizioni. Ma non è di diritti, anche d’autore, che vorremmo parlarvi, ma di doveri. Dobbiamo ripartire le ricchezze in modo equo e solidale e concentrare e destinare le risorse e i guadagni nel mondo della ricerca, dell’istruzione e della cultura. Altrimenti, non se ne esce, perché superata questa folle bolla pandemica, altre sono già in agguato, aspettando, sadicamente, il nostro prossimo sbaglio (c’è solo l’imbarazzo della scelta; ne facciamo in quantità industriale), per aggredirci, tramortirci, vincerci.
di Rebecca Scorcelletti
PISTOIA. Chissà fra quanto tempo potrò rileggere il diario di questi giorni e considerarlo memoria di un passato, passato. Chissà fra quanto potremo dire ti ricordi che si faceva in quei giorni, ricordi? Pensavamo che nulla sarebbe stato più come prima e ci credevamo, visto che tutto era potuto cambiare così improvvisamente e totalmente! Chi lo avrebbe mai detto di poter vuotare le strade dalla gente, gli uffici dalla frenesia, le scuole dai ragazzi, i treni dai pendolari, i telegiornali dai politici. Avremmo mai creduto di non sentire più il rumore del traffico, o quello delle tazzine nei bar, di indossare cappello, guanti e mascherina? A minacciare scenari simili sarebbe stato il solito catastrofista – complottista/terrapiattista in uno delle migliaia di video a disposizione sui social, e invece sta succedendo davvero, e gli eventi ci incalzano, scanditi dai bollettini, aggiornati di ora in ora. Le notizie scorrono e ricorrono nel sistema vascolare della Noosfera su fibra, rappresentazione concreta che solo l’era dell’Intelligenza Artificiale poteva dare della visione di Theillard De Chardin, una delle più grandi menti del XX secolo ad essersi occupate del passato e del futuro dell’uomo.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Ha fatto letteralmente pulsare il cuore, il centro stesso che rende ogni volta la musica qualcosa di vitale, di essenziale, Ty Le Blanc, ieri sera, venerdì 28 febbraio, sul palco del Santomato Live. La meravigliosa orchestra di Nick Becattini (Keki Andrei all’ Hammond, Anacleto Orlandi al basso, le coriste Elisa Gherardi e Donatella Pellegrini, Paolo Scali al sax ed Enrico Cecconi alla batteria; la foto è di Giuliana Monti) è stata in effetti un vero cuore, il giusto sound per un contributo, più che per un tributo, alla musica della grande Aretha Franklin. Lasciando perdere l'ostinata intenzione di descrivere un concerto, si può solo dire che suonare, e cantare con energia e passione, è dare un contributo alla musica, e non fare un semplice tributo. Ty Le Blanc, artista internazionale di grande calibro, (In Italia la sua esperienza sul palcoscenico comprende esibizioni al Pistoia Blues Festival, al Venice Jazz Festival, al Trasimeno Blues e al Festival di Avezzano, tralasciando molti altri teatri e clubs) e vero portento vocale, ha fatto in effetti qualcosa di più che farci ascoltare, sognando quasi di essere ad un concerto della grande Aretha.
PISTOIA. La frangia sugli occhi, che lo tiene a riparo dal sole, dalla luce, dal prossimo. Non ha paura, comunque, Lorenzo Del Pero (foto Lorenzo Gori), non ne ha mai avuta, ma ha capito e deciso che il suo cosmo si incastri con estrema difficoltà con i meccanismi che regolano quelli di tutti gli altri e allora ha preferito, da tempo, delegare le trattative ufficiali alla musica e alle parole che le disegna sopra, formando degli arazzi dai colori sgargianti, in cui domina, puntualmente, il nero. Del suo nuovo lavoro (inviatoci in anteprima, da buoni privilegiati quali sappiamo di essere) ve ne abbiamo già benevolmente parlato: un ottimo concentrato di vecchie istigazioni e nuovi malesseri, ballate d’altri tempi che tornano puntualmente di moda, un esperanto di musica e testi di autori ascoltati, ammirati, divorati, vomitati, riletti. Ieri però, Dell’Amore animale, dell’Amore dell’Uomo, dell’Amore di un Dio (Vrec Music Label /Audioglobe distribuzione) è stato ufficialmente presentato. Al Funaro, a Pistoia, davanti alla sua gente, molta, che lo conosce e lo apprezza, sapendo che per vederlo felice occorre sentirlo suonare, altrimenti, per vederlo sorridere, bisogna cercarlo chissaddove, con pochissime possibilità di trovarlo, tra l’altro.
LE CONTAMINAZIONI sono massicce, sontuose, pregnanti. Ma non invasive; non nuocciono alla potenza e all’originalità dell’autore e del suo nuovo lavoro. Anzi. Lasciarsi influenzare dalla poesia di Bob Dylan, da quella di Fabrizio De André, dalla musica fiabesca dei Jethro Tull è, artisticamente, un pregio, un privilegio, che Lorenzo Del Pero è riuscito a catapultare, con tutta la sua dignità e con tutto il suo dolore, nella sua nuova registrazione: Dell’Amore animale, dell’Amore dell’Uomo, dell’Amore di un Dio. Dentro, nelle tredici tracce che compongono l’intera manodopera cantautoriale, interamente manufatta dall’autore stesso e che vanta la produzione esecutiva della New Generation e quella artistica di Matteo Gaggioli, ci sono le catastrofi e le tragedie, gli abbandoni e i tradimenti, i ricordi e i rimpianti, sibilati a quel dio che da qualche parte dovrà pur sentirle, le sue grida e che non potrà che offrirgli una speranza. L’ascolto e il suono sono minimali, intimistici, essenziali. Non ci sono riff; la melodia mnemonica latita; i fronzoli sono restati debitamente chiusi nei cassetti di ben altre e mai sfruttate occasioni. Il contributo sonoro offerto dalla batteria di Alessandro Pieri, dal basso di Francesco Pirolo, dalle tastiere e dalla fisarmonica di Matteo Gaggioli, dal violoncello di Alice Chari e dall’arpa di Irene Betti sono un dettaglio acustico tanto indispensabile, quanto omissivo, appena accennato, che non si permette mai di prendersi la scena.
LUCCA. Avevamo lasciato la XVesima edizione del Lucca Jazz Donna a Capannori, al Teatro Artè, sul pianoforte suonato, divinamente, a quattro mani, quelle di Cettina Donato e Stefania Sillani. Nelle stesse identiche condizioni, ma a Lucca, al Real Collegio, l’abbiamo ritrovata, sempre sul medesimo strumento, Menicagli, sulle note, classiche, sporcate quanto volete da contaminazioni, ma maledettamente classiche, di Irene Scardia. Il palinsesto, rispetto all’idea inziale, ha avuto un piccolo arrocco, per la serata in programma ieri, 17 ottobre, di questa lunghissima e pregevole manifestazione. La pianista leccese, compositrice, arrangiatrice, manager, ideatrice di una etichetta discografica e se ne avete qualcuna da aggiungere, fate pure, tanto succederà sicuramente, sarebbe dovuta essere l’epilogo della serata. Coincidenze, invece, han voluto che fosse proprio lei, da sola, con il suo strumento e soprattutto con la sua vita, piena di sogni, amori, paure, arresti e ripartenze e poi, a una certa, anche bilanci, a dare l’inizio alle danze. Si è raccontata un po’, suonando, informando la platea, latitante di giovani aspiranti musicisti e giovani aspiranti a tutto, da dove è partita e dove, tra innumerevoli piacevoli peripezie, sta cercando di andare.
CAPANNORI (LU). Anche il secondo set meritava tutta la nostra attenzione e loro, sul palco, Silvia Manco al piano e alla voce, con Francesco Puglisi al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria, i nostri applausi. Ma appena terminato il concerto di Cettina Donato e Stefania Tallini ci siamo sentiti in dovere di alzarci dalla prima fila del Teatro Arté di Capannori, lungo la spianata che porta a Lucca, uno dei siti ufficiali di questa XV edizione del Lucca Jazz Donna, per andare nel camerino, un backstage attiguo alla sala, per guardarle negli occhi, stringerle la mano e ringraziarle. Avevano, nel frattempo, avuto il tempo di cambiarsi (Cettina da un elegantissimo tubo da cerimonia verde acqua, stridente pendant con la chioma rossa e Stefania da giacca e pantaloni neri di rappresentanza jazz, sotto una folta coltre bionda), ma senza uscire dall’animo con il quale, un’ora prima, erano salite sul palco. La musica, la musica studiata fino all’inverosimile, quella che le ha portate rispettivamente sulle cattedre di Bari e Benevento e poi suonata come dono e companatico, non ti lascia, non le lascia: sì, certo, deontologia estetica vuole abiti intonati, ma la colonna sonora dell’esistenza resta la stessa, al di là dell’abbigliamento, del contesto, dei presenti.
LUCCA. Amplifichiamo volentieri, con il nostro modestissimo megafono, la serata conclusiva di questa quarta edizione del Lucca Blues Festival consumatasi, come di consueto, al Foro Boario di Lucca. Perché è una manifestazione preziosa, nata dalla fantasia sonora di Giancarlo Marracci, direttore artistico, che si avvale di uno stuolo agguerrito e motivato di volontari che a loro volta fanno da traino, foraggiandone le iniziative, a quelli di Emergency, anche ieri presenti con il loro striscione attorno al tavolino ricco di informazioni, raccolta firme e gadget. Anche ieri sera, 22 settembre, è andata all’incirca così, con la band del disertore Mike Greene (nella foto), riparato in Europa per non essersi voluto aggregare a quella spedizione sadica e suicida che fu quella dei Marines in Vietnam, sul palco e un gruppo nutrito di amici, appassionati, immarciscibili dj, autorità cittadine e politiche, parenti dei volontari e qualche giovanissimo miracolosamente attratto dalla realtà ad applaudirla.
QUARRATA (PT). Prima dei due bis, concessi senza essere stati richiesti, Veronica Scopelliti, al secolo della musica in televisione, Noemi, ha deciso di chiudere il concerto di Quarrata, alle porte della piana di Pistoia che si congiunge con Prato, nell’ambito del settembre quarratino, con Domani è un altro giorno… di un’inimitabile Ornella Vanoni. E se partissimo dall’epilogo dell’esibizione, potremmo tessere le lodi di una giovane, insomma, nemmen tanto (37 anni), rilettrice di brani che sono, per poesia e musica, leggendari. Ma non solo, perché l’intera esibizione, seguita in piazza dall’intero paese in festa nonostante la serata fosse da clima autunnale, è stata impreziosita da parecchi omaggi musicali. Il primo, a Pino Daniele; poi, Steve Wonder, ad alcune regine del soul e la riproposizione di tutti i suoi successi, seguiti alla lettera dai suoi affezionatissimi, che sono quelli che l’hanno dovuta vedere inaspettatamente catapultata al successo poanificato e maturato negli studi televisivi dove a incoronarla sono stati personaggi legati al viziosissimo sistema commerciale che sfugge ai meriti, allo studio, all’abnegazione, quello che è capace di lanciare in orbita una cassiera e trasformarla, seduta stante, in una diva del soul.
EMPOLI (FI). Si capisce. Si supercapisce. Di questo Fulminacci (Filippo il nome di battesimo; il cognome è ancora avvolto nel mistero), se ne sentirà parlare. Presto. E inevitabilmente. Sì, perché è un predestinato, con quella faccia qualsiasi, con la barba da adolescente che non vuole crescere, senza orecchini, né piercing, con lo sguardo furbo, scaltro, ma che non incute alcuna preoccupazione, quella musica qualsiasi e quei testi lungi dal voler essere rivoluzionari, terribilmente logici, ritmati e rimati come chiunque vorrebbe e farebbe, che esaltano la vita reale, quella del mondo di mezzo, dove ci sono quelli, la stragrande maggioranza, dei quali nessuno parla mai, perché non c’è nulla da dire. Con almeno un’eccezione: Fulminacci. La sua voce, anche nel più intimo del diaframma, ricorda maledettamente quella di Daniele Silvestri, così come i testi, che richiamano alla memoria un altro illustre rappresentante della musica d’autore pop italiana, Lorenzo Cherubini. È esploso al concertone del 1° maggio, ‘sto regazzino, a Roma, città che l’ha buttato nella mischia, dopo averlo partorito, poco più di venti anni fa e nonostante in quel calderone ci vengano messi a cuocere un sacco di improvvisati, Fulminacci, er pischello de periferia, ma di una periferia deontologicamente identificabile e non drammatica e borderline, ha subito messo in chiaro le cose: io, ci sono, ma solo se mi fate fare come mi pare, perché di fare quello che volete voi e il vostro pubblico, non ne ho voglia.
SERRAVALLE (PT). Lo zoccolo duro dei puristi pistoiesi, quello che si ostina a disertare il Festival Blues accusandolo di non conservare più la matrice originaria musicale della manifestazione, ieri sera, 28 agosto, all’ultima serata della 18esima rassegna Serravalle Jazz non c’era. Per fortuna (eravamo in molti, si sarebbe stati peggio). Sì, perché non si è proprio parlato esclusivamente di jazz. Ma siamo stati benissimo, comunque, e parecchio. Prima del doppio concerto di chiusura affidato all’ArteCetra Quartet, prima e ai Vocal Blues Trains dopo, la Rocca di Castruccio, dove da circa venti anni si svolge la manifestazione ideata da Maurizio Tuci che ha goduto, via via, di alcuni importanti appoggi non solo morali (l’Associazione teatrale pistoiese su tutti) e di un crescente interesse mediatico anche da coloro che di musica non ne hanno mai capito nulla, ha messo in mostra tre doppie serate di notevole spessore, con il Quartetto di Rosa Emilia Dias, in apertura, seguita, da Barga Jazz Orchestra, domenica, per poi consumarsi, lunedì e martedì, rispettivamente, con Stefano Cocco Cantini Trio, prima e Danilo Rea dopo (al quale è stato assegnato giustamente il premio Renato Sellani) e il duo Benesperi/Frasi e Etnia Immaginaria.
LUCCA. In un giardino così, come quello del Real Collegio, a Lucca, tra ricordi secolari di monasteri, eretici e via via nuove ricollocazioni storiche, una serata da incorniciare nell’immaginario collettivo della gradevolezza la si potrebbe trascorrere anche in assoluto e religioso silenzio, restando seduti, anche sul prato, a pensare. Casomai in compagnia di persone che, visto il cordone che delimita alcuni loggiati e capitelli, non hanno bisogno di essere bonariamente redarguite per capire che in attesa di ristrutturazione che pare debba capitare a presto, è opportuno che non ci si segga proprio lì sotto. I dettagli, però, seppur dettagli non siano, li lasciamo al buon senso e vi raccontiamo per quale motivo, ieri sera, fossimo lì, nel Chiostro di Santa Caterina. Non esserci, sarebbe stato sacrilego, perché la voce di Ilaria Giannecchini, profeta in patria e il sound dei suoi tre strumentisti (per qualche ragione contingente, anche loro, seppur alla lontana, indigeni), meritano ben più di un’attenzione. All’insegna dello swing e della musica d’autore brasiliana, assemblata, quest’ultima, per non scendere in capziosi dettagli, nella bossanova.
di Raffaele Marseglia
CALCINAIA (PI). Duecento persone si sono riunite ieri sera al ristorante Cavatappi Spirito Jazz per un altro evento imperdibile. Dopo Jimmy Cobb, in scena lo scorso 18 luglio, altri due musicisti di fama internazionale sono stati ospiti a Calcinaia: Peter Erskine e Eddie Gomez. Pilastri della musica jazz e fusion, elencare le loro collaborazioni è un’impresa: scomodiamo giusto un nome, quello degli Steps Ahead e della loro ritmica travolgente, di cui proprio Erskine e Gomez sono stati artefici. Hanno inserito nella scaletta della serata anche un loro brano jazz reggae, Oops. In trio con Dado Moroni, titolato pianista del panorama jazz italiano, sono in questi giorni in tour per l’Europa. Dopo vari festival importanti — come Umbria Jazz — è stato un privilegio per gli ospiti del Cavatappi poterli apprezzare così da vicino, immersi in un’atmosfera intima e accogliente e deliziati da un’ottima cucina.
di Raffaele Marseglia
LUCCA. Si è concluso il Lucca Summer Festival, una delle maggiori manifestazioni di musica a livello nazionale con una kermesse di grandissimo calibro. A chiudere l’edizione di quest’anno un artista che non ha bisogno di grandi presentazioni: Sting. Complice una splendida giornata di sole, Lucca si è riempita fin dal primo pomeriggio di immagini dell’englishman più famoso del mondo stampate su tshirt che sfilavano per le strade del centro. Molti i turisti che hanno colto l'occasione per visitare le varie attrazioni artistiche e per godere a pieno l’atmosfera di Lucca nei giorni del festival. Se Sting si sente un perfetto straniero a New York, lo stesso non si può dire della — ormai sua — Toscana: Buonasera a tutti! Sono molto felice di essere qui a Lucca. Poche parole accompagnate da un sorriso, poi subito spazio alla musica. Il concerto inizia con una Roxanne acustica, chitarra e voce, nella versione bossanova che Sting aveva pensato e scritto in principio.
di Raffaele Ferro
PORRETTA (BO). Atmosfera favolosa, nella serata di chiusura, di questa 32sima edizione del Porretta Soul Festival, perché siamo subito avvolti e quasi stravolti dalla doccia di ryhthm and blues della band Sweetheart che apre lo show. Vengono dall'altra parte del mondo, letteralmente, annuncia Rich Hutton; sì, dall'altra parte del mondo, perché sono australiane. Tutte donne, ragazze fortissime, bellissime e anche di grande talento. Sono una ventina, tutte in nero, sexy soul, simpatia e grinta, rara cosa da trovare in dose così massiccia. Sezione fiati, organo, piano elettrico, basso, batteria, due chitarre, coriste, voci soliste. Davvero incredibile la potenza e il groove di queste teen agers, tutte in età compresa tra i 13 e i 25 anni. E, di fatto, con groove solido, suonano per Billy Chill'Ranking, che proiettatosi sul palco intona Papà got a brand new bag, e che chiamato il giro degli assoli se ne esce con una capriola in aria incredibile.
PORRETTA (BO). Stasera, domenica 21 luglio, si chiude anche questa 32esima edizione. Che si trasferirà, automaticamente, dalla cronaca e dalle recensioni contemporanee alla storia, immaginifica e collettiva, del Porretta Soul Festival. Che, meraviglioso paradosso, è ormai e finalmente uno status che sembra autoalimentarsi. Sì, perché l’impressione è che le decine e decine di artisti che popolano e impreziosiscono, di anno in anno, il palco del Rufus Thomas Park, si presentino, di loro sponte, in città; lo fanno per suonare, per stare insieme, per rinnovare il principio, umano, fisico e morale, della convivenza. Certo, a suon di musica, Soul e dintorni (questa edizione parecchi dintorni, per fortuna), ma il principio è che con il trascorrere delle edizioni al Porretta Soul Festival la musica assuma le sembianze di una colonna sonora, sulla quale possono essere mandate in onda altre immagini. Bambine che giocano a un, due, tre: stella! lì, sul parco in pendenza vertiginosa, proprio mentre Derrik Martin, il funambolico, esplosivo, calamitico, impeccabile drummista della Anthony Paule Orchestra si cimenta in uno dei suoi giochi di prestigio ritmici, saltabeccando dalla sua postazione in procinto, tra tom e rullanti, di mangiarsi, in un solo boccone, ma con un sorriso irresistibile, buona porte del pubblico.
di Raffaele Ferro
PORRETTA (BO). Si sente parlare lingue diverse a Porretta, città storica del Soul in Italia. Alla sua trentaduesima edizione pare davvero trovarsi in una metropoli statunitense, o in un ancora inesplorato angolo di fantasia filmica. Passato il Solomon Burke bridge, sopra al fiume Reno, già si sente qualcosa di incantevole: Soul Music, vibrazioni positive: J. Bimeni band - nome che sentiremo ancora - dice Rick Hutton, immancabile e unico presentatore del Festival -: ed è proprio vero. La grinta e la passione da orchestra navigata, se pur giovane, di questo ensemble, si è meritata gli applausi e l’onere di aprire la serata. A seguire, ancora la new generation, e sul palco parte Sax Gordon con la Luca Giordano Band. R. & B. di qualità, freschezza, e una sezione di ottoni magistrale. Sweet soul music, ballate struggenti anni ‘50, suono impeccabile, da brividi, se non da lacrime. Ma la gente si diverte, applaude, ancora al continuos play di una scaletta senza interruzioni, davvero eccellente. E Rick sale sul palco e presenta la più grande voce del soul attuale, finalmente Leon Beal. Immenso: milk and honey si dice nei gospel, latte e miele, per una voce dal paradiso. Su Hole in the Wall, si commuove e parla del grande onore e dell'emozione nel cantare lì, nel Rufus Thomas Park.
PISTOIA. Ultimo appuntamento di Pistoia Teatro Festival e primo, coincidente, ma non coincidenziale - di fatto è un’anteprima -, di Serravalle Jazz. A spiegarlo, nella Fortezza Santa Barbara, a Pistoia - presa d’assalto da persone antiche come il swing, ma non dai giovanotti, impegnati a sabotare i concerti (di merda) a pagamento e a disertare a queste meravigliose gemme musicali offerte gratuitamente -, è Maurizio Tuci, direttore artistico di questa bella storia che proprio quest’anno diventa maggiorenne, anche se poi, perché si parta da Nico Gori e dalla sua orchestra lo fa spiegare direttamente a lui, al professore in rosso, che arriva a Pistoia, a soli 44 anni (ancora da compiere), dopo aver girato in lungo e in largo il Mondo con l’eccellenza strumentale, una bacheca di successi da far impallidire chiunque, cattedre di Conservatori sparse in Italia a lui riservate e una semplicità che appartiene, quasi sempre per modestia, agli esordienti. Se lo può permettere, Full red jacket, perché non vive di musica, ma nella musica, tanto che uno dei numeri primi del pianoforte, Stefano Bollani, lo esige, puntualmente, al suo fianco.
di Damiano Restivo
PORRETTA (BO). Anche nel 2019, dal 18 al 21 Luglio, gli amanti di Jazz, Blues e soprattutto Soul vedono riconfermato uno tra gli appuntamenti musicali più prestigiosi della scena nazionale e internazionale: il Porretta Soul Festival. Sebbene i nomi coinvolti siano come sempre di assoluto rilievo, il direttore artistico Graziano Ulani ci tiene a specificare quanto i fan del soul partecipino al festival spesso senza nemmeno guardare chi sarà presente, ormai fidelizzati dai sempre alti standard qualitativi delle proposte di ogni anno; la formula vincente, sempre secondo Ulani, sta nelle sue radicate radici di tradizione old-school, senza impedirsi di buttare un occhio alle nuove generazioni di talenti nel mondo. A testimonianza della premessa, questa 32esima edizione viene proprio aperta dalle Sweethearts of Australia, un complesso tutto al femminile di una ventina di ragazze tra fiati, ritmica, coriste, tastiere, chitarre, bassi e soliste; le cantanti si susseguono una dopo l’altra in un continuo rispolvero di grandi classici che mette in mostra l’alto livello di ciascuna, in particolar modo quelle della sezione dei fiati.
PISTOIA. La Piazza, quella del Duomo, risponde presente, in modo massiccio, partecipativo, compatto. Per la chiusura del sipario sulla 40esima edizione del Festival Blues, la Tafuro Dinasty gioca il jolly, assoldando per l’epilogo, dopo quattro piacevolissime serate, ma dai contenuti strumentali e politici ondivaghi, un personaggio dal sold out assicurato, con tanto di certificazione politica corretta incorporata, il californiano Ben Harper. Asciutto, in forma, nonostante i 53 anni inizino a rivendicare i primi acciacchi, per lo più mnemonici, con tutto il sound che lo contraddistingue e che è la summa di tutto il poprockblues giunto fino ai suoi giorni. Succede spesso, durante l’interpretazione delle sue canzoni, che si scorga, nella sua musicalità, un mix di tutto quello che è successo prima che diventasse famoso: dai Beatles, ai Led Zeppellin, con un inchino, crocieristico, a Jimi Hendrix, cavalcando l’onda, anche se da californiano non proprio autenticissimo (papà cherokee, mamma ebrea, di origine lituane), di tutto il rockblues.
POGGIO A CAIANO (PO). Gli occhiali scuri, che fanno molto fashion, o comunque rocker d’annata, sono soltanto un’inevitabile esigenza ottica, perché le luci dei riflettori lo annebbiano. La voce però, al di là di ogni ragionevole riverbero, è quella che non ammette repliche, che concilia all’eleganza, al gusto, alla cortesia, come se il 31 maggio 1953, quando è nato, la mamma e il papà gli avessero instillato, nel sangue, un po’ di Ray Charles, una dose di Steve Wonder, un pizzico di José Felicano, qualche spezia di Al Jarreau, un’unghia di George Benson, una grattatina sparsa un po’ su tutto il corpo di bossanova, raccomandandogli, inoltre, da subito, come se il mix neonatale non fosse già sufficiente a farne un talento, di ascoltare, crescendo, il collega Pino Daniele. Senza sforzo alcuno, Fabio Concato, che ieri sera ha ulteriormente ingentilito la Villa Medicea di Poggio a Caiano nel secondo appuntamento del Festival delle Colline, non ha mai dimenticato le raccomandazioni impartitegli e oggi, a quarantacinque anni dai suoi esordi, è esattamente lo stesso, come se non fosse cambiato niente, da allora.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Si parla sempre del tempo. Quello metereologico, è ovvio. Intercalando o allentando gli imbarazzi, tanto per dire qualcosa. E allora diciamolo pure che oggi è stata una giornata clamorosamente calda, e soprattutto umida. La breve pioggia della notte non ha fatto altro che rendere, oggi, 9 luglio, l’aria quasi irrespirabile, in una sorta di sauna finlandese totale. Ma stasera no e in piazza del Duomo si respira. Che bella sensazione, il venticello amico che liscia le braccia e carezza il viso. È stato giorno fino a poco fa e adesso che il concerto inizia, finalmente la musica, e, per ripetersi, col buio anche l'aria fresca. Antonello Venditti si è fatto attendere, nei giorni e nelle ore, come un vero protagonista di una parte importante della storia e della musica italiana. La canzone di autore, quella rimasta impressa e inevitabilmente eterna, abbracciata stretta dallo stile, dal modo di cantare. Guzzanti, imitando così bene Venditti, lo rese mito, quasi sacro, ricreandolo così, come solo i veri imitatori sanno fare, più prezioso.
PISTOIA. Più telefonini ci sono, usati a telecamera, e meno il concerto vale. Ma quando i telefonini sono accesi e rivolti verso il palco, la piazza, piazza del Duomo compresa, è tutto fuorché desolatamente vuota, anche se sul palco non si sta consumando un evento, ma si stanno snocciolando musiche da spot pubblicitari, quelle che basta sentirle una volta per non dimenticarle più. E allora, viva Nel Gallagher, come i Thirty seconds to Mars, del resto, che sono i gruppi che fanno torcere il naso ai puristi, ma che consentono alla Tafuro dinasty di ospitare mostri sacri come Robben Ford, rimetterci, e compensare le perdite, lamentate con i concerti dei cittadini onorari, con gli spettacoli di quei personaggi che con il Blues non hanno nulla a che vedere.
PISTOIA. Abbiamo cercato, ieri sera, 7 luglio, tra le seggioline di piazza del Duomo quelli che da anni, ormai, rompono i coglioni con la storia che il Festival Blues, di Blues, ne ha più poco. Non ne abbiamo trovato uno, però. Pazienza, sarà per un’altra volta, anche se scovarla, un’altra volta del genere, non sarà facilissimo. Sì perché mettere insieme, in una sera, nel terzo millennio, Robben Ford e Eric Gales non è così semplice, preceduti, tra l’altro, per immergersi in un’atmosfera a noi sin troppo cara, dalle clinics del Festival, con un giovanissimo Enea del quale non se ne potrà non sentire parlare, domani, dai tre gruppi vincitori delle Selezioni (i veneziani Double Shuffle Blues band; i vesuviani Thelegati e lo spezzino Eli Marchini) e da un elegantissimo, nel suono e nella maturità, nelle visioni e nello slang, Michele Beneforti, svezzato alla musica da Nick Becattini e divenuto grande da quando, in qualità di vincitore delle borsa di studio, ha avuto l’opportunità di andare a suonare dove il Blues e la musica tutta è stata trasportata e raffinata: gli Stati Uniti.
PISTOIA. Poco dopo le 23, quando è calato il sipario sul roboante, fantasmagorico e coloratissimo concerto dei Thirty seconds to Mars, unico gruppo sul palco di piazza del Duomo per questa seconda verdissima (guardando l’età media delle migliaia di spettatori) serata della 40esima edizione del Festival Blues, abbiamo provato a chiedere a qualche nostro coetaneo cosa ne pensasse dell’appena finita esibizione. Bravi: io non sapevo nemmeno che esistessero! Questo, in sintesi, il sunto dei commenti di quelli che stanno tra i 50 e i 60. Noi non siamo così massicciamente sprovveduti, ma non pensavamo lontanamente che i fratelli Leto avessero, nell’anonimissima Pistoia, un seguito tanto robusto. Ci siamo sbagliati, come succede troppo spesso ormai da qualche anno ogni volta che proviamo a confrontarci con i nostri figli. La verità è che, di loro, ne sappiamo poco. O nulla; loro, in compenso, di noi, san tutto e proprio per questo non hanno la minima intenzione di emularci. Anche con la musica.
PISTOIA. Cinquanta minuti, scarsi. Ha lasciato il palco sulle note dell’ultima esibizione, accennando a malapena un inchino al pubblico che, nel frattempo, aveva iniziato a riempire la piazza, richiamato alla visione gratuita dai Black Stone Cherry. La quarantesima volta del Pistoia Blues è iniziata ieri, 5 luglio, con la giornata inaugurale dell’evento offerto a costo zero a una città, Pistoia, che merita decisamente meno, molto meno di quello che, chissà perché, ha ancora l’opportunità di ospitare. Ma del genere umano, fortunatamente, ce ne fottiamo ormai da parecchio tempo: ci godiamo la nostra fortuna, grati al cielo, di poter assistere, accreditati, a tutte le manifestazioni culturali con tanto di ulteriore privilegio di poterne raccontare le emozioni. E Ana Popovic (foto Letizia Mugri), dalle 21,30 alle 22,19, ne ha distribuite a ripetizione. Lo ha fatto con quell'espressione del viso che parrebbe autorizzare chiunque a pensare altro, con un abitino attillatissimo sopra le ginocchia color caffellatte, una vistosa e impegnativa collana, un braccialetto a forma di serpente che le serra la parte superiore del braccio sinistro e tacco 12, che calza in qualsiasi occasione ufficiale (dalla naturalezza con la quale ci deambula, siamo convinti che con quei sandali, Ana, ci esca anche solo per andare a fare la spesa, comunque).
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Un viaggio nel rock chissà quante volte l’abbiamo vissuto. Nelle cassette, nei jukebox e oggi giorno, skippando di brano in brano, su Youtube o Spotify. Provando anche saltare a piè pari i facili ricordi, il ruscello fatato e limpido, quello della fascinazione nell'ascoltare dischi il sabato pomeriggio, tra una vasca e l’altra in centro, a Pistoia, fra via della Madonna via degli orafi e il Globo, da chi in centro c'era nato e ci abitava. Eravamo ragazzi noi, senza web e senza cellulari e allora si leggevano tutti i crediti scritti sulle copertine degli Lp, in trance, in assorta e religiosa trance. In silenzio, in salotto, ascoltando musica. Cose d'altri tempi. Proprio in questa zona, tra via degli orafi e il Globo, ieri sera, la valanga di musica, e la grande energia e lo spirito rock, di Rick Hutton e la sua band (le foto sono di Alessandro Ferro), è dilagata. Commuovere è anche arte e commuoversi, e muoversi, è rendere grazie all’arte della musica, alla musica suonata con il cuore. Una serata revival, perfettamente scandita, dai Sixtyes ai seventies, fino agli anni ottanta e poi, che dire, dai Doors ai Beatles, dai Rolling Stones agli AC/DC, Led zeppelin, Bob Dylan, Pink Floyd (un saluto diretto all'universo tramite il ricordo lisergico di Rick al pazzo diamante STD Barrett) e poi Prince, e poi gli U2, e, forse, il momento più sentito, I’m on fire, del Boss.
PRATO. Un concerto antico, dal sapore nostalgico, sussurrato con quella voce da rockblues decadente che gli è propria da sempre e reso trionfale da quei quattro meravigliosi archi, i Solis String Quartet (Vincenzo Di Donna, Luigi De Maio e Gerardo Morrone, ai violini e Antonio Di Francia al violoncello), quelli che non hanno fatto sentire al pubblico delle Biblioteche Lazzerini di Prato, in uno dei tanti appuntamenti che impreziosiranno la scaletta di Prato Estate, la minima nostalgia per l’assenza, che sarebbe potuta risultare anche cronica, sul palco, di una batteria, un basso e un pianoforte. Ma il new cours di Enzo Gragnaniello, cantautore napoletano cresciuto con la magica compagnia strumentale partenopea di Pino Daniele e tutti gli altri, è questo: rileggere i grandi successi internazionali (In viaggio coi poeti) nello slang a lui più consono (che è poi anche l’unico): il napoletano. La scelta degli autori è così varia e vasta che non è affatto facile – ma senza pensare a un suo volere enigmistico – capire il filo conduttore musicale, o morale, o strumentale – qualora ce ne fosse uno – che lega tra loro le canzoni interpretate.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Strisce di nuvole su un cielo pastello; inizia il concerto. Organetto e chitarra; arancio rosso la luce sul palco. Purezza di pronuncia, anche nel suono della chitarra. Roba da Carmelo Bene, la purezza del suono, che qui non solo è phonè, (nella phonè impeccabile del cantare di Maurizio Geri), ma come detto, gli strumenti, la cadenza perfetta, in un tango iniziale di Riccardo Tesi e Banda Italiana. Un tango potente, un rimando vero al miscuglio antico delle musiche, ancora, e dei popoli. Bimbi che ballano, qui sul prato. Non c'è posto a sedere, tutto completo, tanta gente anche ieri sera alla Fortezza Santa Barbara. Inutile, o forse è cosa dovuta, dire che Riccardp Tesi e la sua banda gira il mondo ormai da anni: dal Giappone al Canada, al Sud America, alla Francia tutta; ogni piccola provincia li ha un teatro, e viene da chiedersi, chi verrà. Invece centinaia di posti gremiti, anche lì, nei teatri francesi, tutto esaurito. Scroscio di applausi, alla fine del primo brano.
PISTOIA. Ancora una selezione, l’ultima, almeno per quello che riguarda questa 40esima edizione del Festival Blues. Poi, se la giuria della finalissima, in programma venerdì prossimo, 5 luglio, deciderà di eleggerla come una delle tre band che avranno l’onore, ma anche l’onere, di salire sul palco di piazza del Duomo e aprire una delle serate in programma nel palinsesto, di questi Thelegati (la foto in alto è di Fabrizio Berti, fonte storica della manifestazione pistoiese; quella in basso, di Novella Palomba) se ne inizierà a parlare, e benissimo, non solo nella loro Campania, nell’hinterland napoletano, nella loro Cercola, dove sono nati e cresciuti e dove da circa sei anni si dividono sogni e qualcos’altro. Un nome difficile da pronunciare e ricordare (e infatti lo ripetono spesso, durante le loro esibizioni) quello della band, che potrebbe avere origini assai meno nobili e sofisticate rispetto a quanto ci sia sforzati noi cercando di dargli un senso. Ma Danilo Di Fiore (chitarra e voce), indiscusso bandleader della formazione, per censo e scostumatezza, proviamo a immaginare, Ciro D’Ambrosio (batteria), un paggio medievale con il pallino del ritmo) e Stefano Pelosi (basso e voce),
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Dopo l'afosa giornata, ieri sera, nella cornice meravigliosa della fortezza Santa Barbara, finalmente una folata di vento di buona musica, per un nuovo appuntamento della rassegna estiva dell’Atp Teatri di Confine. La musica italiana non è morta, tanto meno incastrata nelle trappole della trap o nel gap fasullo, generazionale, o di corrente gravitazionale. Anzi. L’orchestra multietnica aretina, sul palco, disposta fra quattro punti cardinali - dall’Albania, Argentina, Bangladesh, Colombia, Costa d’Avorio, Giappone, Libano, Palestina, Romania, Russia, Somalia, Svizzera e dalle più svariate regioni italiane -, ha fatto vibrare e ha cullato il pubblico. Alle spalle, il grande muro a sassi illuminato di blu, sfondo affascinante alla sequela di cantanti, fra un lazzo e una battuta, mai pesante o scontata dell’eccellente flautista e cantante Enrico Fink. Cosa non facile, risultare simpatici e a tu per tu col pubblico, quando si è su di un palco sopraelevato. Invece l’atmosfera di confidenza e di sapore paesano si è manifestata, sulle note di archi, tamburi fiati e il resto.
PISTOIA. Che l’uomo sia stato sul suolo lunare, cinquant’anni fa, è ancora da dimostrare e i dubbi di una balla/bolla mediatica cosmica continuano a essere molti. Di certo, nello stesso periodo, in quel lontano, ma vicinissimo, anzi, vivo, 1969, più precisamente il 15, 16, 17 e 18 agosto, nella cittadina di Bethel, nello stato di New York, nei seicento agri del caseificio di Max Yasgur, si consumò l’evento artistico più imponente della storia dell’uomo: Woodstock. A Santomato, che è ormai il palco invernale del Pistoia Blues, la commemorazione resurrezionale di quegl’indimenticabili quattro giorni di peace and love, ma soprattutto di quella stratosferica convention dei migliori musicisti all’epoca in circolazione, non poteva certo essere vissuta con un semplice tributo. E allora, all’appello pronunciato da Tony De Angelis, l’inventore di questa meravigliosa teca musicale, presente, hanno risposto in molti, ognuno con il proprio bagaglio, ognuno con i propri ricordi, quasi per tutti filtrati da video, immagini, reportage, racconti sbiaditi biascicati da memorie offuscate, capelli caduti, epe pronunciate, strascichi di sostanze altamente tossiche, ma ognuno con la propria voglia, impreziosita da studi e applicazioni, di ricordare e rielaborare.
FIRENZE. Alle 21,12, le luci, le voci e l’attesa, al Mandela Forum, scompaiono. Sul palco, preconfezionato alla Matrix, con qualche sconcertante immagine di una Terra che sembra sul punto di collassare, se non facciamo qualcosa davvero, o se almeno smettiamo di farle per finta, decidiamo noi, in nero, con paillettes, arriva Giorgia, ad onorare la tappa fiorentina del suo Pop Heart tour. I posti sono numerati, ma il braccio del palcoscenico che penetra la platea lascia intendere che appena si allontanerà dai suoi strumentisti, gli affezionati più incalliti la potranno toccare. E così succede, ogni volta che viene a raccontarsi da vicino: ci sono i suoi coetanei, spesso son i figli in braccio, sulle spalle, in attesa di una rassicurante benedizione. Anche per quelli che sono sugli anelli, contenti come bambini di vederla e sentirla cantare, ma pigri e per nulla disposti a catapultarsi nella ressa per testimoniarle stima, affetto e simpatia, lo spettacolo val bene comunque una messa. Si parte con Jovanotti, Le tasche piene di sassi e a Jovanotti si torna, con Tu mi porti su, prima di un congedo vocalmente impegnativo, I will always love you, scritta per Whitney Houston e poi rielaborata da parecchie lady, con le stesse inconsuete capacità vocali, Giorgia compresa, naturalmente.
VENTINOVE BRANI in scaletta, che sono quelli appartenenti a Pop Heart, l’ultima incisione in ordine di tempo e altri imprescindibili motivi che hanno catapultato, da subito, Giorgia nell’olimpo della canzone. Domani sera (alle 21), venerdì 10 maggio, la cantautrice romana sarà di scena a Firenze, al Mandela Forum, nuova tappa di una tournée che la vedrà impegnata in tante piazze italiane, da Genova a Palermo, da Udine a Bari e poi Napoli, Marostica, Lucca, al Summer Festival. Con lei, sul palco, una band preziosissima, con Sonny Thompson al basso, Mylious Johnson alla batteria, Jacopo Carlini al pianoforte, Fabio Visocchi alle tastiere e Anna Greta Giannotti alla chitarra, senza dimenticare Diana Winter e Andrea Faustini ai cori. Uno concerto/spettacolo che si preannuncia di rara intensità e bellezza, all’insegna della straordinaria duttilità del suo diaframma, incantevole gemma che si incastona con disarmante semplicità tra la sua insindacabile simpatia, l’inappuntabile serietà professionale e la già conclamata potenza leggendaria. Perché non sono certo i dischi di platino inanellati in questi venticinque anni di carriera, né le collaborazioni con musicisti di incalcolabile caratura a fare di Giorgia l'erede universale del vocalismo italiano più sontuoso. E nemmeno il suo camaleontismo tecnico, che la elegge tra le primule rosse tanto che si solfeggi il blues, quanto che si sghignazzi il rap. Tutto dipende da un'indubbia dote di innatismo alla quale Giorgia ha abbinato, nel tempo, studi folli e suggerimenti memorabili, quella che l'hanno eletta, orami da tempo, l'anello di congiunzione della canzone italiana con la world music.
di Michela Messy
LIVORNO. THreep - provvisorio nome del progetto - nasce dall’esperienza americana nella quale Linda Palazzolo (voce) e Paolo Pee Wee Durante (tastiere) hanno deciso di approfondire la musica neo Soul portandone con sè il sound, al loro rientro in Italia. Lo scorso 29 aprile si sono esibiti a Livorno, nella splendida Villa Fabbricotti, ospiti de il Chioschino e sono stati accompagnati da vecchi e navigati colleghi: Gabrio Baldacci (chitarra) Enrico Cecconi (batteria) Massimo Gemini (sax). In modo sinuoso e coinvolgente hanno eseguito canzoni di Erikah Badu, Jill Scott, Prince, Lauryn Hill, Beyoncé, Rh Factor. Linda ha una voce coinvolgente, accogliente, bella. Sono stati travolgenti l’ascolto e la sintonia fra ogni componente della band. Non c’è stata solo l’eccellenza a esibirsi; ci sono stati il divertimento e la preziosa voglia di offrire la propria arte con cura e passione.
PISTOIA. Professori così, a dare lezioni sull’uso della chitarra, non se ne trovano parecchi, in circolazione. E poi, invece che stare in una stanza con un discente che ti guarda, a volte inebetito, per prendere appunti e cercare di imparare, Paul Gilbert, il cugino che vive nell’altro emisfero di Eric slowhand Clapton, surehand, ha preferito organizzare la propria Masterclass sul palco del Santomato live, per un nuovo appuntamento post connubio con il Pistoia Blues Festival. E proprio per dare un segnale di aperta, profonda e costruttiva contaminazione tra quello che succede da trentanove anni in piazza del Duomo a Pistoia e da poche, pochissime stagioni, sul palco del Circolo invernale sulla via che scappa da Pistoia per andare a intrufolarsi nella Provincia pratese, il 53enne chitarrista statunitense dell’Illinois ha voluto con sé, per queste due ore di una lezione che non sarà certo annoverata tra le più noiose, due ottimi strumentisti della zona: Marco Polidori, al basso e Marco Confetti, alla batteria, che si sono divertiti, e non poco, a seguire i suoi supersonici virtuosismi, assecondandone, magistralmente, gli effetti.
PISTOIA. Il sodalizio, ora, è ufficiale: Santomato live è la succursale invernale del Pistoia Blues, che proprio mentre sembrava di essere sul punto di chiudere sipario e battenti, ha ritrovato verve, linfa ed energia e sembra proiettarsi nel decennio che verrà, come se i quarant’anni che porta orgogliosamente sulle spalle fossero solo un indispensabile rodaggio perfettamente eseguito. Uno degli aspetti di questa indiscutibile resurrezione è, come abbiamo detto all’inizio, questa flyzone artistica di Santomato, da anni una delle realtà, una delle poche rimaste in vita, a essere onesti, della musica dal vivo nella città del Blues. E ieri, a proposito di Blues, sul palco del salone di Santomato, alla presenza di numerosi appassionati, distribuiti strategicamente sulle seggioline blu, proprio come succede sovente in piazza del Duomo, direttamente dal Bronx, dove è nato una sessantina di anni or sono, è atterrato a Pistoia Popa Chubby, che in città, e proprio sul palco del Blues’In, c’era già stato, in tempi per nulla sospetti, quando questa città era giustamente annoverata, nonostante la miopia dei detrattori, come una delle patrie cosmiche della Musica.
CASTELFIORENTINO (FI). La bellezza della semplicità, la fragranza della professionalità, la leggerezza della simpatia, il linguaggio forbito e semplice della musica. Non gliene manca una, di qualità, a Gegè Telesforo. E le sforna a ripetizione, eliminando, uno alla volta, anche i più acerrimi e capziosi detrattori del suo sound, anche durante il breve lasso di tempo dell’interpretazione di una singola canzone, pensate. Anche ieri sera, a Castelfiorentino, è andata esattamente come vi abbiamo descritto. La cornice, la X edizione di Empoli Jazz, il pubblico lo ha già scremato per definizione; al resto, ci hanno pensato la piazza, bella, anche se un po’ algida e il Teatro, del Popolo, si legge, ma di un’evidente minuta eleganza che tiene lontano, chimicamente, gli assalitori più sguaiati. Della musica di uno degli intrattenitori più gradevoli che passi il convento non ve ne parliamo nemmeno, perché lo sapete tutti, anche quelli che la sera, il venerdì sera, nello specifico, non escono, preferendo restare a casa, a guardare la televisione, ascoltare la radio o fare l’amore. Chi trascorre il tempo confondendo il sentimento e il sesso, Telesforo lo conosce: la sua musica, come la sua voce, sono sensuali, eccitanti, invogliano a strusciarsi;
PRATO. Strano davvero come una cantante napoletana, alla soglia dei sessant’anni, con un diaframma sopraffino, infaticabile ricercatrice di equazioni poetico/musicali, interprete indiscussa del jazz più colto nella propria estensione popolare, con un curriculum da far impallidire parecchie sciantosette che sono state catapultate al successo starnazzando, convincendosi che questo potesse bastare, invece che studiare, che si cimenta, oltretutto, nel fondere e confondere lo slang della propria melodia natia con la poesia, altrettanto musicale, del Brasile, pecchi, in definitiva, tanto di cazzimma, quanto di saudade. Stiamo parlando di una delle cantrici più autorevoli che si possa vantare nel mondo, Maria Pia De Vito, una vera e propria istituzione del folk più forbito, affidabile messaggera italo/carioca, recentemente impegnata in uno studio, approfonditissimo, sulla traduzione in napoletano delle storie popolari brasiliane, plurirappresentate, e tra le quali spiccano quelle di Chico Buarque de Hollanda.
di Filippo Colosi
PISTOIA. Una serata diversa dal solito quella che ho potuto trascorrere assistendo a un live acustico di Federico Fiumani, storico leader e fondatore dei Diaframma, band fiorentina dell’avanguardia dark/punk/new wave nata a Firenze fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ’80 che potrebbe, con il gergo musicale d’oggi, collocarsi anche nell’alternative rock. Teatro dell’evento è stato il Bonnie and Clyde, circolo (affiliato ANCoS) aperto da meno di un anno, a Pistoia, nella centralissima via della Madonna, un ambiente alternativo a qualsiasi altro locale del centro cittadino rock nell’arredo e nelle scelte musicali degli eventi che organizza. Non è facile riassumere, nemmeno in breve, la lunga carriera di Federico Fiumani: compito che fa lui aprendo il concerto con Siberia, brano simbolo dei Diaframma proveniente dall’omonimo primo album realizzato in studio e pubblicato nel lontano dicembre 1984.
di Filippo Colosi
PISTOIA. A pochi giorni dall’inverno e già nella più natalizia atmosfera, Pistoia ha dato un’ottima occasione per scaldare cuori e soprattutto orecchie attraverso una ritmata due giorni di musica dal vivo: BLUES CityClub Pistoia 2018, una serie di piccoli concerti tutti rigorosamente blues e a ingresso gratuito svolti presso gli esercizi commerciali aderenti all’iniziativa. Prima di iniziare il mio reportage, ho studiato orari e coordinate per raggiungere ciascuna tappa dell’itinerario musicale sul pieghevole cartaceo realizzato dagli organizzatori dell’evento e portandolo con me, insieme alla mia reflex, ho iniziato con il far visita a Michele Biondi e Mimmo Mollica, ospitati nel pomeriggio in un negozio di abbigliamento in via Sant’Anastasio, trovandoli a esibirsi in una location piccola, ma suggestiva, fra attaccapanni e arredi particolari e, pur senza microfono e amplificatore, subito capaci di coinvolgere fra i presenti sia gli appassionati di blues che altri inconsapevoli clienti a caccia di acquisti natalizi rimasti non indifferenti alla poesia musicale dell’affiatato duo. Proseguendo, di tappa in tappa, fra altri negozi, bar, ristoranti e altre attività ancora ho potuto vedere musicisti esibirsi anche in ambientazioni solitamente non pensate per la musica dal vivo, ma inaspettatamente capaci di accogliere egregiamente suoni ed emozioni.
PISTOIA. Il quartetto partenopeo che l’accompagna sistematicamente, al Teatro Manzoni di Pistoia, l’altra sera, per il concerto natalizio organizzato dalla Fondazione della Caripit e destinato ai fedelissimi invitati (molti, visto il pienone), non c’era: Vincenzo Di Donna, Gerardo Morrone, Luigi De Maio e Antonio Di Franca (violini e violoncelli) sono restati altrove. Con Noa e le sue percussioni, sul palco, c’era soltanto il suo mentore concittadino, Gil Dor, diciassette anni più grande, che ne ha scoperto le invidiabili doti canore e che ormai è un punto fisso e inseparabile della produzione della cantante e un invitato speciale, Massimo Marcelli, che con i suoi flauti ha partecipato a qualche motivo del programma dell’artista israeliana e che sarà gradito special guest del prossimo album in uscita, presunta, nella prossima primavera. Un’incisione, quella di Noa, che è una sorta di omaggio a Johann Sebastian Bach scandita da una lunga conversazione con l’incommensurabile fuoriclasse tedesco di cui, Achinoam Nini (queste le sue generalità), ne ha offerti parecchi momenti, ricchi di parole di speranza.
di Barbara Ferrando
ALESSANDRIA. Sono passati da Alessandria, Tommaso Starace e il suo quartett (Ruben Bellavia, Davide Liberti e Dave O’Higgins). E dopo averli sentiti suonare, al Jazz club, mi sono sentita in dovere di sdebitarmi. Fotografarli non mi è bastato; ho deciso di intervistarli. E di raccontarvelo. Hai suonato in Italia e in Inghilterra, Tommaso. Qual è la differenza? Il pubblico inglese è molto silenzioso, quando ascolta; in un certo senso è più rispettoso. Poi, dipende dai club ovviamente. In Italia, prima dei concerti si mangia divinamente! Le paghe sono più o meno uguali da paese a paese. In Inghilterra molti jazz club sono gestiti da amici, da gruppi che gestiscono i cachet e la programmazione durante l’anno. C’è molta musica dal vivo, fa parte della cultura anglosassone. Trovi musica nei pubs, nei clubs. Ci sono molti meno festivals rispetto all’Italia. Perché hai scelto il sassofono? Mio padre ascoltava molto il jazz, quando ero ancora un ragazzo. A quel tempo facevo recitazione; mi piaceva molto Robert De Niro. Vidi un film di Clint Eastwood: Bird, con Forest Whitaker che faceva Charlie Parker e mi piacque moltissimo questo uomo sul palco che sudava e suonava con grande passione l’ottone, il sassofono. Mi piace molto il suono del sassofono. Dico sempre che se non esistesse il sassofono non farei musica, quindi. I dischi di mio padre e il film di Clint Eastwood mi hanno entusiasmato, mi hanno trascinato nel mondo del jazz.
di Barbara Ferrando
HO PRESO LEZIONI di di clarinetto quando ero molto giovane, avevo appena otto anni. E ho suonato per un po’. Poi, ho abbandonato. Suonavo in una banda della scuola, marce e cose del genere e poi ho preso il sassofono quando ero più grande. A sedici anni circa. Perché ha deciso di cambiare strumento? Beh, era più complicato perché suonavo in alcune bands quando avevo 14 anni, in blues bands, suonavo l’armonica, blues harp e abbiamo cominciato. Ho fatto alcune cose con dei ragazzi che suonavano jazz ed è diventato più jazz e io ho cominciato a pensare che sarebbe stato davvero bello avere un sassofono, così ho iniziato a pensare: forse potrei suonare il sassofono perché ho questo passato di clarinettista. E’ quasi la stessa diteggiatura e un approccio molto simile allo strumento. E ci può dire il nome di un musicista con il quale è stato particolarmente felice di suonare? Sono stato davvero molto fortunato. Quando ero molto giovane, ho avuto la possibilità di suonare con molte persone. Molte di loro erano i miei eroi, persone con cui sono cresciuto ascoltandole. È quasi impossibile dire; voglio dire: ho suonato con Benny Goodman, con Woody Herman, con altri grandi musicisti, come Roy Aldridge, Hank Jones, Vic Dickenson.
L’APPUNTAMENTO è all’Auditorium parco della musica, a Roma. È lì che Laura Lala presenterà, il prossimo 14 dicembre, il suo nuovo album, Coraggio. Meglio non perderla, la serata; primo, perché sarà doppia, visto e considerato che oltre alla cantautrice siciliana, sotto i riflettori ci sarà anche Eleonora Bianchini e il suo Surya. Non sappiamo se le due voci femminili abbiano deciso di esibirsi insieme per dare ulteriore forza al proprio lavoro, per molti versi simili e parallelo tra le altre cose, nella loro grande diversità, o perché questo rappresenti la parte terminale di un progetto pianificato. Secondo, ma soprattutto, perché in questa stagione affollata da avvenenti urlatrici da talent, le voci che arrivano dalle scuole di canto affidate a docenti di massimo prestigio continuano a rafforzare la spiritualità della musica, di cui ha sempre parlato John McLaughlin. Ma poi, a pensarci bene, degli eventuali stratagemmi delle due dame del diaframma, non ce ne frega assolutamente nulla.
di Filippo Colosi
PISTOIA. Per iniziare questa nuova recensione come se fosse una prelibata ricetta, servono non solo metaforicamente i giusti ingredienti: bella musica saputa suonare e cantare dal vivo w un posto nel centro storico di Pistoia dove mettere a loro agio pubblico e gruppi musicali. SoulFull: questo è il prelibato dessert musicale che ho potuto gustare al megikOZNE di via della torre, un progetto musicale fra le voci di Carlotta Cocchi e del chitarrista Tommi Agnello accompagnati in questa occasione dal basso di Carlo Romagnoli e le percussioni di Davide Malito Lenti, un piccolo ma necessario ripasso di storia della musica va fatto per meglio spiegare la bravura vista in loro: parliamo del Motown Sound, genere coniato nel periodo nel quale il meglio della produzione soul degli anni ‘60 e non solo (qualche piccolo esempio: The Supremes, Marvin Gaye, The Temptations, The Commodores, Martha and the Vandellas, Stevie Wonder, The Jackson 5) era sistematicamente riconosciuta nei vinili stampati dall’etichetta fondata a Detroit dall’oggi ottantanovenne Berry Gordy Jr. produttore, autore o coautore di centinaia di brani.
di Filippo Colosi
PISTOIA. Nelle scorse settimane, dopo aver assistito e qui scritto di emozioni country from Nashville Tennessee portate da Mike Cullison nell’alcova della Live music pistoiese, il pub megikOZNE di via della torre, eccomi stavolta partecipare a una delle date del tour del musicista e cantante americano, newyorkese per l’esattezza, Alix Anthony, egregiamente accompagnato in Italia da Jacopo Coretti alla batteria e Francesco Zucchi al basso. Evento presentato al pubblico pistoiese inconsuetamente di lunedì sera, ma che già prima di varcare la soglia del locale mi ha fatto credere di entrare in un affollato sabato sera come quando ormai è già troppo tardi per vedere lo show da vicino. Oltre ai tanti ad assistere in piedi, vedo un cerchio di seduti davanti al palco come in un microscopico anfiteatro e intenti a porgere occhi, orecchie e mani alla rodata scioltezza presente negli accordi funk, rock e blues esibiti da Alix Anthony, anche grazie alla lunga esperienza nel corso degli anni vissuta lavorando con icone musicali del calibro di James Brown, Larry Graham e Duran Duran.
di Barbara Ferrando
COLLEGNO (TO). L’appuntamento con il jazz era venerdì scorso, 9 novembre, alla Lavanderia a vapore di Collegno; una bella sala gremita di spettatori per il concerto di Daniele Ciuffreda Organ Trio, con contestuale presentazione del suo cd, Out on the ninth day. Il gig si apre con Steppin’ out, brano scritto, come tutti gli altri, del resto, da Daniele Ciuffreda, giovane chitarrista piemontese con un curriculum di tutto rispetto e molteplici collaborazioni al suo attivo. Ritroviamo qui la sua chitarra raffinatissima, il suo essere jazz con uno sguardo a certe atmosfere blues, un groove intenso che nasce dallo straordinario affiatamento con i suoi compagni di viaggio, Alberto Marsico (organo Hammond) e Daniele Pavignano (batteria). Quando arriviamo a Out on the ninth day, il track che dà il titolo all’album, Daniele ci dice con malcelata emozione che è dedicato al Maestro Alberto Marsico e annuncia l’ingresso in scena dello Special Guest, Fabrizio Bosso.
Leggi tutto: Il nono giorno, quello della Lavanderia a vapore
di Filippo Colosi
PISTOIA. Con piacere torno a scrivere sui sempre interessanti eventi organizzati nel piccolo tempio della musica dal vivo del centro storico di Pistoia, il pub Megik OZNE di via della torre. Come nelle altre date del suo viaggio musicale in Italia, l’americano Mike Cullison ha portato sul palco il meglio dal proprio repertorio country, blues e folk e, in questa occasione, accompagnato dal pratese Federico Baracchino, grintoso musicista professionista apprezzato in tutta la Toscana. Per descrivere suono, testi e voce di Mike Cullison è indispensabile parlare un po’ della sua vita, dagli esordi musicali e non solo. Mike, ragazzo originario dell’Oklahoma, alla fine degli anni ‘60 cresce ascoltando un eterogeneo mix di nomi come Beatles, Hank Williams, Bob Dylan, Merle Haggard, Billy Joe Shaver, accompagnando così a esperienze musicali sempre più personali ogni momento di tempo libero dal proprio lavoro, per oltre 30 anni, presso la compagnia telefonica Bel,
Leggi tutto: Vorremmo che non ci piacesse così tanto il whisky
PISTOIA. Due chiacchiere a parte, Irene Bisori, le merita davvero. E non certo perché i quattro strumentisti che l’hanno accompagnata, l’altra sera; pardon, tre professori e un fuoriclasse, comprese le altre cantanti e vocalisti che hanno reso Cantabile bellissima, la serata organizzata dall’Associazione CulturIdea alla Fondazione Tronci, a Pistoia, siano meno della cantante fiorentina. Ma se la matematica non è un’opinione, tra le voci che si sono succedute sul palco della saletta magnetica di Corso Gramsci, a Pistoia, siamo pronti a scommettere che quella di Irene Bisori, abile jazzgirl, ma anche lieta reincarnazione di quel che si può e deve salvare del ’68, dipinto del Bernini che solfeggia in ragamuffin, etera e possente, delicata e ferma, leggera e decisiva, di strada, ne farà tanta, ma tanta, eh.
di Barbara Ferrando
UN ALBUM di debutto flagrante. E un’ètà media di ventotto anni. Quello che colpisce in live e all’ascolto del loro cd è un’interplay da manuale veicolato da individualità fortissime; e l’originalità dell’approccio, ben oltre i confini spazio temporali della loro Milano. Shantih, la prima traccia, sono sei minuti di puro sogno. Fenix part 1 è irresistibile e ci conduce senza soluzione di continuità alla seconda parte, una ballata che sembra composta per enfatizzare il pianoforte di Lorenzo. Così come Like a comet tail traccia una linea retta di sax, dove si inserisce la distorsione di Marco. Mastrofocaio, meno abrasivo di Fenix, ha un groove di batteria geniale e un fraseggio che fa pensare a inclusioni mediorientali. Gli altri brani sono più introspettivi, mentre L’ansia di Michele, raffinatissimo e, a dispetto del titolo, leggero nell’accezione più positiva, chiude un percorso di straordinaria bellezza, che ci fa desiderare di ricominciare da 1. Ne parliamo con Marco Carboni, chitarrista, compositore di tutti i brani di questa pregiata registrazione e leader del gruppo.
di Filippo Colosi
PISTOIA. La movida del sabato sera pistoiese offre anche interessanti momenti di musica dal vivo. A pochi passi da piazza della Sala, in via della Torre, presso il Megik OZNE, proprio in questo primo weekend di ottobre, ho potuto assistere a una serata del duo country Honky Tonks, nuovo progetto musicale fra Margherita Cavaciocchi e Giacomo Ballerini che unisce le proprie voci rispettivamente a basso e chitarra elettrica. Un nome, Honky Tonks, le cui origini vanno ricercate nelle locande di quell’America d’inizio ‘900 rurale e bianca, ma anche proletaria, dove ristoro e intrattenimento trovavano casa comune davanti a musicisti cantastorie accompagnati da chitarra, violino, banjo e spesso anche da un pianoforte verticale scherzosamente chiamato honky tonk, di non sempre impeccabile resa sonora, talvolta abusato come mensola per bicchieri colmi di whiskey del Tennessee e bourbon del Kentucky, poi diventato ufficialmente nome di un sottogenere del country fra i più seguiti.
di Luca Latini
CAGLI (PU). C'è il pubblico delle grandi occasioni a Cagli per il concerto che inaugura il mini-tour autunnale di Toquinho in Italia. Molti appassionati di musica brasiliana, tanti musicisti attratti dal suo intatto virtuosismo chitarristico e anche tutti quelli che ricordano le fortunate collaborazioni di Toquihno con alcuni dei migliori artisti della musica d'autore italiana. Mentre calano le luci, salgono sul palco i tre straordinari musicisti che accompagnano Toquinho in tour già da diverso tempo. Sono Itaiguara Brandao, al basso e alla batteria e Mauricio Zottarelli, batteria e percussioni, due strumentisti di origine brasiliana garantita che da tempo fanno base a New York. E poi lei, l'ospite speciale, la splendida e talentuosa Greta Panettieri, una stella italiana che brilla da tempo nel firmamento internazionale del vocal jazz e non solo. Il trio apre il concerto con brani della tradizione carioca riletti in una piacevole chiave jazz, fresca e coinvolgente. Tra i brani quelli di Sergio Mendes e Ermeto Pascoal. Chiude l'introduzione un'intensa versione di Accendi una luna nel cielo, resa ancora più preziosa dalla voce della Panettieri, un brano composto da Toquinho con Vinicius de Moraes per Ornella Vanoni.
di Gianluca Risi
PISTOIA. La nona stagione del Santomato live inizia con un pezzo di storia della musica leggera italiana, ma difficlmente archiviabile: Gianni Belleno e Nico Di Palo of Nerw Trolls (questo il nome dell'attuale formazione) insieme a Claudio Cinquegrana alla chitarra, StefanoGentialle tastiere, Nando Corradini al basso e Umberto Dadà voce. Glo spettatori sembrano non aspettare altro, un richiamo che coinvolge un vasto e variegato pubblico, che si mette disciplinatamente in fila per poter entrare nella sala di via montalese e prendere posto in attesa dell'evento di apertura della nuova elettrizzante stagione di concerti live che sta per iniziare. Sul palco, prima dei miti Di Palo e Belleno, tocca alla Ranfa Band allietare gli astanti con brani propri e classici rock. Il calore tributato dal pubblico ai musicisti si trasforma in un vero e proprio abbraccio quando sul palco Nico Di Palo si esibisce nei suoi storici e famosi acuti: facce estasiate e contente quando arriva il momento di Visioni, Davanti agli occhi miei, Concerto grosso, rielaborazioni spregiudicate, ma più che lecite e consentite, tra sperimentazione, progressive rock e anche canzoni che almeno una volta abbiamo cantato tutti (e così fa l'intera audience in sala su Quella carezza della sera),con una serata che è stata una festa della musica, ben suonata, una serata che ha accontentato tutti, indistintamente, dai più giovani, incantati dal sound a loro sconosciuto, ai più attempati, sommersi tra ricordi e nostalgia. Simpatico, doveroso e ottimo segnale di vecchie e nuove contaminazioni, segnalare la folta schiera di musicisti confusi tra il pubblico dei semplici appassionati, che si è divertita a tenere il tempo e cantare in questa festa della musica italiana d'autore e d'annata, non dannata.
di Alessandro Giovannelli
PRATO. Il suono della materia. Materia solida, metallica. Il rumore della civiltà industriale risuona nell'era dell'immaterialità, dell'intangibile, del digitale. Macchine che girano, presse, ruote meccaniche, oggetti metallici, lamiere e bidoni, un arsenale che riporta la mente a un mondo che pare non esserci più. Al posto di quel mondo, il silenzio dell'etere; l'esperienza sensoriale che pare aver lasciato spazio a quella virtuale. Tutt'al più, di quella società industriale in forma di musica e rumore, che gli Einstürzende Neubauten (foto Silvano Martini) sanno sbattere magistralmente in faccia al proprio pubblico, si può fruirne come si farebbe in uno di quei musei nei quali ti offrono un'esperienza interattiva. E sabato sera, 1° settembre, a Prato, in Piazza del Duomo, facevano bella mostra di sé, come vestigia di due differenti ere, l'armamentario degli Einstürzende sul palco e, alla sinistra del pubblico, la basilica minore, la Cattedrale di Santo Stefano col suo pulpito esterno. Insomma: arte, antropologia; antico e contemporaneo; spirituale e secolare.
di Marco Giovannetti
EMPOLI (FI). Il senso di tutto è nei dettagli. Il quadro generale è davanti a tutti, le grandi linee e l’impatto visivo. Ma i dettagli danno spessore e corpo a una scena altrimenti bidimensionale, la caricano di significato e tridimensionalità. A grandi linee il concerto dei Ministri all’Empoli Beat Fest è stato un gran concerto. La band ci sa fare, conduce l’esibizione con la maestria di chi sono anni che si sbatte con passione e impegno e fa tesoro di ogni singola esperienza. Il dettaglio è che loro si divertono ancora: si guardano, si sorridono, si caricano a vicenda e si godono l’attimo (stare sul palco è ancora un momento catartico - dirà dopo il concerto un gentilissimo Davide Autelitano, voce principale e basso del gruppo), questo si percepisce e porta lo show in un’altra dimensione. Ma facciamo un attimo le presentazioni: i Ministri, nati a Milano, sono in giro da quindici anni; hanno sulle spalle sei album e un EP (più un singolo, Fumare, uscito in digitale e vinile un paio di mesi fa). Oltre al suddetto Davide, Federico Dragogna alla chitarra e voce e Michele Esposito alla batteria. Li aiutano in tour anche Marco Ulcigrai alla chitarra e Anthony Sasso alla chitarra e tastiera.
SULLA GUIDA per la stampa si legge che Evolution, il nuovo Ep di Michele Beneforti, prodotto negli Stati Uniti tra Boston e Los Angeles (aprile 2018), è un mix di vari generi: neosoul, electro pop e rock. Verissimo. Nelle cinque tracce (Highway, Over & Over, Brooklyn Light, Fantasy Word e Cocoa Eyes), facilmente immaginabili nella loro composizione/offerta per noi che lo abbiamo visto crescere e diventare grande, ma anche per chi lo ascolta per la prima volta - ci sono i video a supporto, prodotti con i guanti, come l'intera registrazione, del resto -, la promessa musicale pistoiese, divenuta realtà di là dall’Oceano, sfuma professionalmente la propria carica strumentale che gli è valsa un posto al sole al Berklee College di Boston, per dare spazio e vita a una dimensione musicale cosmica, nella quale si ascoltano e riconoscono nitidamente tutte le componenti strumentali, tutte le provenienze, ma senza che nessuna prenda il sopravvento e si impossessi del sound generale.
di Rebecca Scorcelletti
PRATO. Ventuno anni or sono, l’editore Baldini e Castoldi pubblicava Gnosi delle Fanfole, una raccolta di poesie di Fosco Maraini musicata dal cantautore veronese Massimo Altomare e da un giovanissimo Stefano Bollani. Allora, o forse era l’anno successivo, li ascoltai in Terrazza Mascagni a Livorno e rimasi affascinata dal lavoro musicale e interpretativo che aveva asservito parole senza senso a immagini sonore ed emotive più corrispondenti al comune bagaglio umano. Ricordando improvvisamente questo, ieri sera, 8 agosto, non ho potuto che sorridere. La Gnosi delle Fanfole passava per Prato, all’Officina Giovani di Piazza dei Macelli, con un immutato Massimo Altomare alla voce e chitarra, Antonio Masoni al pianoforte, Simone Marcucci alle chitarre, Lorenzo Lapiccirella al basso e Ettore Bonafè a batteria e vibrafono. L’officina riconvertita a spazio culturale non regge il confronto col tempietto della Terrazza Mascagni al tramonto (né con la Corte delle Sculture della Biblioteca Lazzerini, dove si sarebbe dovuto svolgere il concerto la sera precedente e inevitabilmente rinviato per un violento temporale pomeridiano), ma si sa, i suoni e gli odori sono la pozione magica che cadendo goccia goccia nel magma temporale ne sanno sprigionare improvvisi e vividi ricordi; all’ora dei morfegi e dei gorbetti, del resto, tutto è possibile!
CASTIGLIONCELLO (LI). Peccato che la regia dello spettacolo abbia voluto metterci del suo, sulle parole e la musica di Amy Winehouse, perché Teresa Rotondo, la cantante e la nutrita band al seguito (Armano Polito alle voci, Samuele Pirone al basso, Moreno Vivaldi alla batteria, Stefano Contesini alla tromba, Francesco Palazzolo al sax, Giovanni Giustiniano alla chitarra e Alex Bimbi alle tastiere), non ne avevano alcun bisogno. Come la musicista omaggiata, del resto. E soprattutto. Sì, perché Amy Winehouse era già una delle voci più importanti e interessanti del pianeta musicale prima che si perdesse nell’alcol e nei suoi inevitabili eccessi, ma fino a quando non ha cantato la propria dissoluzione e il proprio nichilismo, nessuno l’ha presa in considerazione: era soltanto una voce importante, che ricordava maledettamente alcune regine soul e jazz del mondo. È diventata una star solo quando il pubblico giovanile che l’ha osannata, senza che nessuno invitasse i nuovi fan ad ascoltare le sue versioni in carne e ossa e non solo in ossa, si è potuto riconoscere nelle sue trasgressioni e divinizzarla.
di Rebecca Scorcelletti
ISOLA D'ELBA. Sia dal mare, che in quel punto lambisce una successione di scoscese pietraie, che dalla litoranea fra Chiessi e Colle d'Orano, il posto è protetto, quasi nascosto. Siamo sulla elbana Costa del Sole; la strada si sgomitola fra la parete franosa e il mare a strapiombo: impensabile lasciare la macchina se non si è in una delle piazzole panoramiche. Ma in alcune sere di luglio e agosto, una lunga fila di veicoli in bilico sul ciglio inesistente segnala che siamo all'altezza di Campo Lo Feno. Questo luogo ospita una tenuta, una vigna, una casa e, prima che la pendenza precipiti in mare anche i sogni più visionari, un piccolo teatro costruito pietra su pietra dalle mani dei proprietari. In questo luogo, da ventidue anni, si fa musica al tramonto e il 29 luglio è la volta del duo composto da Jacopo Taddei al sax e Samuele Telari alla fisarmonica. Il concerto è un omaggio al Sudamerica e alle sue declinazioni nel jazz colto, con pagine di Iturralde, Piazzolla, Nazareth e i contemporaneissimi Girotto, Galliano, Paulsson e Dulbecco.
PORTO VENERE (SP). Ascoltarlo a Radio Monte Carlo intento a presentare il brano che lancerà sulla modulazione di frequenza 106.7 ai suoi fedelissimi (un esercito, devoto alla sua causa musicale) è un piacere. Ascoltarlo cantare i suoi brani, ascoltarlo e osservarlo sul palco intento a eseguire alcuni motivi degli altri, lo scozzese Malcom MacDonald Charlton (Nick The Nightfly lo è solo alla consolle monegasca; o no?), è ancor più piacevole. Del resto, Il Festival internazionale del jazz di Spezia, che ha sempre mantenuto un livello sontuoso in questo mezzo secolo di storia scritta, per la 50esima edizione (che si chiude stasera, a Lerici, nel parco della Villa Shelley con il concerto del trio di Bruce Barth), non poteva certo permettersi il lusso di una caduta di stile, in piazza San Pietro, poi, a Porto Venere, in una serata nella quale, oltre a una naturale cornice mozzafiato, ci si è messa anche la luna, con la sua eclissi di sangue, a rendere il paesaggio semplicemente onirico.
di Alessandro Giovannelli
PORRETTA (BO). Già entrando a Porretta si percepisce l'aria di festa che avvolge la piccola cittadina appenninica. Come un rito che ogni anno si rinnova, senza alcun segno di stanchezza. Dalla piazza principale si leva alto il fumo degli street food. A causa delle recenti disposizioni sulla sicurezza, anche qui, in questo angolo di mondo, che per tutti noi è il paradiso del soul e dunque un luogo incontaminato, un furgone nei pressi del ponte Solomon Burke ostruisce l'accesso ai veicoli in direzione dell'area dei concerti. Ma poco importa. Basta varcare la cancellata che dà l'accesso al Rufus Thomas Park e l'atmosfera è quella di sempre: musicisti che si mescolano amabilmente con il pubblico, famiglie intere, due o forse tre generazioni di appassionati, l'odore della carne sulla piastra e la gradinata già gremita a fare bella mostra di sé e a proteggere quel palcoscenico, piccolo quanto basta per dare l'idea che qui non siamo al cospetto di baracconi infernali con palchi spaziali ed effetti scenografici degni di Hollywood. Qui la scenografia è Porretta, la sua umanità, la sua misura, il suo calore. La seconda serata del Porretta Soul Festival 2018 si apre con una chicca assoluta, prima ancora di dare il caloroso e doveroso benvenuto ai padroni di casa, la Anthony Paule Soul Orchestra che ormai da quattro anni accompagna in qualità di house band tutti i musicisti che si alternano sul palco più soul d'Europa.
PORRETTA (BO). Coincidenze? Probabilmente sì, perché non possiamo immaginare tanta sottigliezza. Ma seppur possa e probabilmente debba ascriversi alla semplice casualità, non possiamo esentarci dal fare una piccola considerazione. Ventisei anni fa, il 19 luglio 1992, alcuni uomini di merda (si dice così, parlando dei mafiosi, giusto?), fecero saltare in aria Paolo Borsellino e la sua scorta, trafugando, con l’aiuto dei servizi deviati (che abbondano, in questo paese), subito dopo l’esplosione, la famosa agenda rossa nella quale il magistrato siciliano aveva preso importanti appunti, soprattutto in quei cinquantadue giorni da quando, con le stesse mostruose modalità, era saltato in aria il suo collega conterraneo Giovanni Falcone. Ieri sera, e cioè ventisei anni dopo quella pagina troppo scura per non pensare che qualcuno abbia spento di proposito la luce, a più di mille chilometri da Palermo, proprio una palermitana, Daria Biancardi (fotografata da Gianni Grandi, con il quale ci siamo immediatamente sdebitati, anche se con una modestissima, ma piena d’affetto, birra), con il suo diaframma portentoso, la sua anima bollente e un cuore troppo grande per far sì che le emozioni si incontrino tutte, ha ufficialmente aperto la 31esima edizione del Porretta Soul Festival.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Notte di luna calante. La luna, antica come il tempo, tagliata a falce a sinistra, sinistra e grande, come grande è stato, nella sua sinistra, rauca e gutturale voce, Mark Lanegan. Artista segnato da una vita giovanile di dipendenze e depressione, risulta essere, con la sua prima band, gli Screaming Trees, artista fondamentale per l'evoluzione del Grunge. Periodo e stile primi anni novanta che produsse gruppi mescolanti, influenze eclettiche, soprattutto l'hard rock, il punk rock e l'heavy metal. Per dirla tutta, sapori e rimandi dark e new wave sono stati l'atmosfera e l'impronta dello show di Lanegan. La sua band, compatta come potente valanga sonora, l'ha accompagnato, quasi immobile sul fronte palco, in nero, sguardo tagliente e lunga mosca al mento, calante, come la sua voce. È parso stanco, ma ha portato avanti lo show in maniera impeccabile, apprezzato dai suoi numerosi fans accorsi per l'occasione.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. La flemma del serio e saggio allenatore di una squadra di calcio; la precisa maestria di un intagliatore; la sicura attitudine alle dosi di un bravo chimico: maestro della chitarra e compositore di calibro indiscusso. Ecco cosa Hackett (al secolo Stephen Richard Hackett, detto Steve, nato a Londra, classe 1950, chitarrista, dal '71 al '77, della storica band inglese Genesis) sa fare. Ha cantato anche, ieri sera, solo per un paio di brani, cedendo poi il difficile compito di eseguire canzoni dei Genesis - le più vecchie e famose - a Nat Sylvan. Questo senza far rimpiangere troppo Peter Gabriel e Phil Collins, che sostituì Gabriel alla voce dal '75, quando già suonava la batteria con i Genesis dal '71 (prendendo posto sullo sgabello occupato dai predecessori Rob Tyrell, Chris Stewart, John Mayew). Ma questa è storia. Troppa storia.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Nella notte non fresca di ieri, ma nemmeno afosa, di un luglio gentile e tranquillo, il Blues Festival ha riunito nella stupenda piazza del Duomo a Pistoia molta gente.
Tranquilla e vogliosa di assistere e ascoltare la musica e la voce, soprattutto, di James Blunt. Nato a Tidworth, contea del Wiltshire, in Inghilterra, una cittadina a un'ora scarsa da Londra, gira il mondo ormai da anni in concerto: dall'Australia agli Usa, dall' Europa al Sud America (racconta durante il concerto) e arriva quest'anno anche a Pistoia. Parla fra un brano e l'altro con tono soffuso, roco, quasi ad ammiccare un dialogo intimo con il pubblico. Un trucco, una strategia intelligente per non sciupare la sua inconfondibile voce. Si , perchè non è facile riuscire ad essere fresco e impostato, e salvare la voce, gia all'età non piu giovanissima di quarantaquattro anni. Eseguire in maniera impeccabile canzoni che alla radio sembrerebbero regolate e corrette, come succede sempre più spesso, da macchine, auto-tune, trucchi della tecnologia.
PISTOIA. Un concerto, quello di Alanis Morissette, al quale tutti, organizzatori, Sicurezza, uffici stampa, agenti dell’ordine, cani della narcotici rimasti a giocare nei giardini della Questura e spettatori medi, si auguravano di assistere: quattromilacinquecento spettatori, che non sono un esercito imponente da esodo musicale, ma sono bastati e avanzati per far trascorrere male la nottata ai gufi, quelli che sognavano che con l’avvento di un’Amministrazione di destra, il Festival Blues, a Pistoia, in procinto di compiere quarant’anni, tramontasse: dovete continuare a rosicare, se il fegato vi regge! I furbi del Tribunale sono rimasti a casa a vedere la prima semifinale di calcio della Coppa del Mondo e poi, impigriti, sono transitati dal divano della sala al letto; quelli del Mps, no, ma le banche si sa, son quelle che sono.
di Raffaele Ferro
POGGIO A CAIANO (PO). Se avessi studiato musica, invece di latino e greco, sarebbe stato meglio. Invecchiato, ingrassato, al limite del riconoscibile, per chi se lo ricorda quando esplose, trentacinque anni fa, Sergio Caputo, con il suo Swing-Punk-Humor, serio, rigorosamente serio, fa ancora effetto. In un venerdì qualunque, a Poggio a Caiano (trentanovesima edizione del Festival delle Colline), la Villa Medicea, stupenda cornice e la… No, ricomincio perché… Il concerto, a giudicare dal palco, un trio, parrebbe fosse rock però… Ma… No. Perché… stasera non è serata da palati fini. Ma Caputo contagia, ci ha contagiato. Pensiamo, dalle prime note. Ha lasciato lo smalto di una voce impeccabile, certo. Vagheggia fra un brano e l’altro, o ci prende, si prende in giro? Meglio se avessi studiato musica invece di Latino e Greco, almeno mi sarei ricordato più facilmente i pezzi. Ancora una volta un tuffo nel passato, con il rimbalzo, il rebound sensoriale di secoli, anni-luce passati da quando Caputo faceva ballare, cantare e sognare alla radio, paradisi lontani, favole pop-surreali, indimenticabili canzoni di autore. Da Roma al mondo, nel vortice felliniano di una vita di musica.
di Raffaele Ferro
I am a simple man; i sing a simple song; i used to be a king, an immigration man. Tre titoli fusi in una frase, tre canzoni con cui il grande, il semplice, Nash ha affabulato la platea del Teatro Manzoni a Pistoia, professionalmente inserite in un repertorio artistico magistrale. Dopo l’esperimento della passata stagione con John Mayall, anche quest’anno il Pistoia Blues Festival ha deciso di aprire le danze della 39esima edizione nell’intimismo del Teatro della città, spolverando un concerto di rara bellezza al quale abbiamo avuto l’onore di assistere. Tre uomini sul palco; il suono semplicemente perfetto, per una scaletta intervallata da racconti, notizie, ricordi e gentilezza, tanta gentilezza. Nash dedica un cameo a Joni Mitchell e ci dice che lei sta bene, dopo l’incidente, il ricovero in ospedale: parla e cammina di nuovo. La favola che ci racconta di lui lasciato al di là della linea di confine fra Messico e Usa. Problemi di Visa - racconta come se la cosa non lo riguardasse – e i suoi tre compagni di mezzo secolo di musica e concerti, Neil Young, Bill Crosby e Steven Stills, che lo lasciano ridendo al di là della linea di confine, alla dogana.
PISTOIA. Senza la compagnia dell’attrice Eleonora Spezi, incontrata coincidenzialmente al concerto, la serata sarebbe stata sicuramente meno gradevole, soprattutto perché poco distante da noi, qualcuno ha scambiato il concerto di Nada con una passeggiata per le vie di Pistoia ai tempi del mercato. Peccato, perché invece di proibire la nicotina, alla Fortezza Santa Barbara, farebbero meglio a inibire l’ingresso agli stolti: il fumo si disperde nell’aere, il resto, no, ahinoi. Se ci concentriamo sull’esibizione invece, nonostante non sia certo la cantautrice livornese, a nostro presuntuoso avviso, un punto di riferimento musicale e artistico, allunghiamo volentieri l’applauso con la quale l’abbiamo salutata, perché è professionalmente interessante e, umoralmente, sufficientemente distratta da non prendersi sul serio, soprattutto quando cerca di dare alle proprie melodie quei connotati ginnici che dovrebbero sottintendere e decuplicare il trasporto e l’emotività.
PISTOIA. L’unico a non aver mai mollato la barca, pardon, il palco, è stato Alessandro Solenni, alle tastiere. Tutti gli altri invece, gli artisti che hanno partecipato alla quarta edizione di Rock around the world, tra un pezzo di un collega e il successivo, si sono dilettati nell’improvvisato back stage fuori dal locale per cibarsi di nettari prodigiosi e capire, tra le femmine accorse ad ascoltarli, quali fossero quelle che avevano un sogno nel cuore. E già scegliere quale foto mettere, tra le moltissime scattate dal reporter ufficiale del Santomato live, l’amico, fraterno, Gianluca Bonham Risi, induce una riflessione particolare, nella quale occorre addentrarsi per non stilare una formazione tra i musicisti intervenuti perché ognuno, nel loro piccolo/grande orto, merita una pagina specifica, a parte. Per cavalleria, che non guasta, nemmeno quando si discute d’arte che, come noto, è, asessuata, ci potremmo fermare a parlare delle due bassiste: Claudia Natali e Francesca Chiti, la Fruz, almeno capite di chi stiamo parlando, con il suo personal bodyguard, che lo è anche di professione per gli eventi pubblici, come quello di ieri sera, Silvano Martini, a garantire l’ordine, eventualmente messo a repentaglio e a custodirle il telefonino.
PISTOIA. La Napoli della musica era già stata traghettata, quando gli Almamegretta, allora senza la voce tormentata di Gennaro Della Volpe (Rais, poi Raiss, dunque, Raiz), si presentarono sulla scena musicale italiana. A disarcionare la colonna sonora partenopea, la tarantella, per sostituirla con i testi impegnati e una musica che avrebbe poi fatto storia, anzi, leggenda, ci avevano già pensato Napoli Centrale, i fratelli Bennato e soprattutto lui, Pino Daniele, che era riuscito, con un tocco di bacchetta, a catapultare il fascino della commedia vesuviana vestendola con il sound della world music. Era il 1988 quando la nuova band napoletana, che faceva i conti, inevitabili, con il dub, con il rock e con la necessità, geopolitica, di affrancarsi dai luoghi comuni che avevano da sempre dipinto la città del Vesuvio, si presentò al pubblico, rivendicando un posto non certo secondario all’attenzione nazionale. Si ritagliarono una nicchia importante e hanno saputo conservarla, nonostante le trasformazioni, dalle origini, siano state parecchie.
SANTOMATO (PT). La longevità, nel mondo dell’arte, si sa, non è un’eccezione, ma la regola. E non occorre disturbare la memoria per dimostrare come e quanti anzianotti, per non dire vecchietti, calchino ancora, con successo, e per nulla patetico, i palcoscenici, i set cinematografici, gli studi televisivi. Beh, potreste obiettare: a fare la vita dell’artista (a non fare un cazzo) è facile conservarsi a lungo e in salute. Vero, ma questo discorso può essere abbinato e applicato alla stragrande maggioranza dei personaggi dello show, meno che a lui: Giuseppe Scotto Di Carlo (11 ottobre 1949), da Monte di Procida, a due passi da Bacoli, nell’hinterland di Napoli, più noto, anzi, solo così conosciuto, come Pino Scotto. Un rockettaro puro, vero, che non ha mai sottoscritto un vincolo, un ricatto, nemmen tacito, un compromesso. Si è spaccato il culo trentacinque anni a lavorare in fabbrica e una volta giunto all’età della pensione, ha dato libero sfogo alla sua grande passione, che non ha mai smesso di coltivare, curare, impreziosire durante i giorni, lunghissimi, alla catena di montaggio: la musica.
PISTOIA. È stata la serata dell’armonica di Sugar Blue o quella della chitarra di Sergio Montaleni? Chi, dei due, accompagnava l’altro? E senza la perfezione ritmica della batteria, targata Ufip, di Cj Tucker, siamo sicuri che ieri sera, sul palco del Santomato live, ormai punto di riferimento obbligatorio dell’Italia centrale che produce musica dal vivo, le cose sarebbero scivolate via con la stessa mastodontica gradevolezza? Le interrogazioni del Parlamento acustico della via Montalese non sono finite qui, naturalmente, perché sarebbe delittuoso - e aprirebbe una falla processuale letale, che rimanderebbe il dibattimento a data indefinita - non citare gli altri due componenti il commando che ha stregato la notte pistoiese: Damiano Della Torre, alle tastiere e Ilaria Lantieri, al basso. Se l’abito non fa il monaco, ma lo veste parecchio, si potrebbe concludere che la serata è stata quella di Sugar Blue; con quei jeans ricamati in bianco sulle terga e l’epa che non si può cingere nemmeno con una cintura monastica, il fiore all’occhiello non poteva che essere lui.
FIRENZE. Da dove iniziamo: dall’incantevole medley del bis, con il quale ha voluto omaggiare alcuni personaggi minori e dimenticati della musica italiana, come Jimmy Fontana e Sergio Endrigo o dalla facilità con la quale si impossessa di ogni tonalità per riprodurla, letteralmente stravolta, ma integra e regalarla a chi ha la fortuna di ascoltarla. Troppo facile; anche quelli che hanno seguito il suo concerto con gli occhi fissi sul video del telefonino, potrebbero dire la loro. Iniziamo da lontano, invece, dove i distratti non possono arrivare e partiamo dalla disciplina dotta e colta che accompagna, fino a perseguitarla, la musica e la voce di Chiara Civello, al Teatro Puccini di Firenze, accompagnata in questa tournée da due musicisti dotati di controcoglioni: Seby Burgio alle tastiere e Federico Scettri alla batteria e alle chincaglierie elettroniche. La scusa, piacevolissima, è stata quella di raccontare qualche brano del suo nuovo album, Eclipse, ma a questa signora, antica, solare, bellissima, della melodia si possono concedere tutti i pretesti e tutti i lussi.
LIVORNO. La storia, anche se ha tutte le caratteristiche della leggenda, racconta che Simone e Roberto Luti e Rolando Cappanera si siano incontrati e conosciuti da bambini e che invece di sognare di fare, da grandi, i calciatori, gli astronauti, i medici o gli ingegneri si siano messi, immediatamente, a suonare: Roberto, la chitarra, il fratello Simone, il basso e Rolando, la batteria. Quel trio – e stavolta la leggenda non ha alcuna credenziale: è tutta storia, documentata – è ancora insieme, si chiama Tres e ieri sera, al Teatro delle Commedie, a Livorno, resuscitato a nuova vita e linfa artistica, ha dato vita ad una sessione ritmica di rara piacevolezza, un’ora e mezza abbondante di brani strumentali frutto del loro ingegno e dei loro infiniti ascolti del magma del rock, del blues, del rockblues e della worldmusic. Appena arrivati, memori di uno spettacolo teatrale che facemmo per la gioia di un gruppo di studenti del nord, abbiamo stentato a riconoscerlo, l’ambiente.
PISTOIA. Storto, vista l’età e le occasioni volutamente gettate al vento, dovrebbe restarci, Bobo Rondelli, per la gioia, incontaminata e pura, che gli tributano tutti i suoi fedelissimi ammiratori, come quelli che ieri, al Santomato live, hanno voluto ricordare con lui alcuni pezzi del suo e nostro indimenticato passato e condividerne dei nuovi, offerti ad una platea amorevolmente incarognita che ha riempito la sala dell’arena del Santomato per assaporare il Rondelli che verrà, quello di Anime storte. Prima del cantastorie, imitatore, onemanshow di Pontino, sul palco, per dare la giusta atmosfera e accrescere a dismisura l’adrenalina delle aspettative, è salita Margherita Cavaciocchi - Margot, per il successo che non tarderà a riservarle un posto di prestigio -, accompagnata nella sua esibizione da tre amici professionisti fidati: Davide Biagini alle tastiere (se avesse suonato altro, il padre, si sarebbe incazzato come una biscia), Leonardo Ricotti alla chitarra e Gennaro Scarpato a tutto ciò che crea tempo, fiducia, ritmo, groove, che la stanno accompagnando fino al limitare del red carpet della musica.
PISA. Dopo pochi attimi dall’inizio di Offline, ci siamo voltati intorno per vedere se gli altri spettatori del Teatro Verdi di Pisa fossero munti di quegli occhiali particolari che vengono offerti per gustare al meglio alcuni film tridimensionali. Non li aveva nessuno. E allora, abbiamo accavallato le gambe, abbiamo appoggiato la testa sul dorso della mano destra chiusa a pugno del braccio a sua volta in equilibrio sul bracciolo della poltrona e abbiamo deciso di lasciarci andare, provando – opera ardua, ma emotivamente redditizia – a percepire nitidamente le varie opere contemporanee – perché in essere - che si stavano consumando sul palcoscenico. La prima, diretta, la più semplice, anche in virtù di memorie che affondano le radici fino nel lontano 1981, anno della loro nascita, è stata quella di (ri)gustare alcuni motivi degli Africa Unite, rappresentati, per questa serata pisana, dai suoi due padri fondatori, Bunna e Madaski, decisamente invecchiati, ma con la stessa solita, anomala, chioma e grinta.
SANTOMATO (PT). Le cose belle non stancano. Mai. Pensate agli amplessi: c’è qualcuno che si sia mai sentito satollo? La bellezza non va in overdose, non supera mai la linea della ragionevolezza; non ha limiti. Con la bellezza non si esagera. Ieri sera, venerdì 29 settembre, sul palco del Santomato Live, per il battesimo della nuova stagione, l’ideatore-conduttore-agente, Tony De Angelis, ha allestito una reunion con i fiocchi: Rock around the world 2 (ci deve essere stata una prima, lo scorso anno, immaginiamo e ce la siamo persa), convocando a battezzare e ben augurare la stagione che inizierà tra poco una meravigliosa fronda di musicisti. Ognuno di loro merita, senza condizionali, un’accurata riflessione artistica, sonora, culturale, biografica; ognuno di loro si è fatto le ossa e il culo a studiare e a soffrire per arrivare dove è arrivato, anche in giro per il mondo, come turnista di star internazionali, o semplicemente suonando in improbabili scantinati solo per sbarcare il lunario. La musica è arte e come tale, sofferenza.
QUARRATA (PT). In quel salone, abitualmente, si riuniscono i vertici aziendali: si decidono finanziamenti, prestiti, tassi di interessi, agevolazioni, speculazioni. Ma le banche hanno il dovere, ogni tanto, di umanizzare il proprio capitale e allora, si aprono parentesi, nelle quali si mette a cuocere carne che non frutti liquidità, ma emozioni. La Bcc di Vignole e della Montagna pistoiese, ieri sera, 28 settembre, ha effettuato una di queste operazioni, subaffittando il palco abitualmente riservato agli investitori a due artisti: Rebecca Scorcelletti e Maurizio Geri, che fanno parte del nutrito panorama culturale indigeno che troppo spesso è costretto a fare da apripista e spazio a colleghi che hanno il solo vanto e primato di venire da lontano.
di Graziano Uliani
VERONA. Fine Luglio 2015. Sono nella hall di un hotel a Maspalomas (Gran Canaria) per il Maspalomas Costa Canaria Soul Festival, festival co-prodotto dal Porretta Soul Festival e sto conversando con Rick Hutton, storico V.J. di Videomusic e presentatore del Porretta Soul. Gli sto chiedendo da quanto tempo non vede Zucchero e squilla il cellulare. Con un tempismo incredibile, Laura Vergani, assistente di Zucchero, mi chiede se può passarmelo. “Che sorpresa”, dico a Zucchero. “Sono su un van – risponde - e sto andando da New Orleans a Nashville, ma faremo una sosta a Memphis. L’autista mi ha appena fatto vedere il depliant di un festival chiedendomi se lo conosco. E’ un pieghevole del Porretta Soul Festival. Sto per iniziare le registrazioni del nuovo album prodotto da Don Was, Brendan O’Brien e T Bone Burnett. Voglio fare un disco roots tornando alle radici della musica popolare americana. Un po' come Oro, Incenso e Birra”. Dopo quella telefonata l’ho rivisto sul palco dell’Arena di Verona giovedì 21 settembre. Per fare sei serate consecutive a suon di sold out, deve esserci qualcosa di speciale.
di Luigi Scardigli
PRATO. Peccato che i suoi buoni propositi li voglia anche spiegare. Se tacesse i proclami, sarebbe perfetto. Ma una stanza nel palazzo del rock and roll, qualora dovessero costruirlo, sarebbe sicuramente sua, già in fase di progettazione, con tanto di targhetta sulla porta: Piero Pelù. È un rocker, il cantautore fiorentino, e lo sa fare, alla perfezione, senza se e senza ma, anche se ora la chioma, che resta incredibilmente fluente, si è un po' imbiancata. È un rocker anche fuori dal palco, così rocker che oltre a sposare attivamente le cause della sofferenza globale, che sono poi quelle che ti suggeriscono l’arte, ci si immedesima forse con eccessiva strategia, con quel timbro di voce da straniero posticcio. È nato per cantare il rock, Piero Pelù e quelli che ieri sera, a Prato, in piazza del Duomo, hanno sfidato le incerte condizioni atmosferiche, rese malvage da un freddo improvviso, ne hanno avuto la giusta ennesima riconferma. Ennesima, sì, perché la prima fila, quella appoggiata alle transenne, quella che vuole esserci fino in fondo ai suoi concerti, fino a dentro, era popolata da una comitiva di ragazze e giovanotti della provincia di Varese, con tutti i talismani de el diablo al seguito, reggiseni compresi, accuratamente legati al ferro dell’invalicabilità degli spettatori e pronti per essere lanciati a Regina di cuori; né prima, né dopo.
di Luigi Scardigli
PRATO. Ognuno è artefice del proprio destino: ogni cantautore veicola il proprio pubblico. Quello di Dario Brunori è falsamente trasversale. Falsamente perché nonostante raccolga, a pieno merito, aggiungiamo immediatamente, due generazioni e mezzo di spettatori, fanno tutti parte, questi ultimi, della stessa identica estrazione sociale. Anche ieri sera, a Prato, in piazza del Duomo, per il primo appuntamento del Settembre pratese (primo per forza, ieri era il 31 agosto!), anche se l’organizzazione non ha potuto registrare sold out come capita puntualmente con il dottore commercialista calabrese (tra l’altro impossibile, in una piazza), la serata, minacciata ma esentata dalla pioggia, è stata come meglio l’artista cosentino non se la sarebbe potuta immaginare. Le sue canzoni, quelle contenute nei quattro album finora sfornati, con intervalli regolari di tempo che esaltano, fino a esasperare, il suo provvido metodismo, i bravi ragazzi e le brave ragazze di piazza del Duomo le sapevano tutte a memoria.
di Luigi Scardigli
SI HA CONTINUAMENTE l’impressione di averla già sentita. Altrove, però. La voce è rischiosissima, da pelle d’oca; il corpo sfugge alle telecamere, il viso distrae, meno quei pochi tatuaggi sul braccio destro; un po’ di più, quello piccolo, sul polso sinistro. Il web la segue con cura meticolosa; qualcuno ha scommesso su di lei, le sta curando l’immagine in modo eccellente. E ha fatto bene. Serena Brancale, così giovane, è già un portento. Il grande pubblico, quello che è disposto a bere praticamente tutto, anche la pipì, se filtrata dal tubo catodico, ha già avuto modo di vederla, a Sanremo, qualche anno fa. All’Ariston si presentò con Galleggiare, piccola dispensa delle sue straordinarie e poliedriche disponibilità vocali. Può tutto, Serena Brancale, giovanissima cantautrice pugliese, anche tacere: le suona il profilo, le cantano gli occhi, gode di movimenti ritmati che sono timbrici. Quando inizia a cantare, spiazza chi l’ascolta: non te l’aspetti. Perché scende negli abissi, in apnea, ma come se avesse da qualche parte le bombole d’ossigeno nascoste.
CORINALDO (AN). Si è seduta al piano, che ha imparato a suonare sfruttando quell’orecchio magico che le consente di sintonizzarsi all’istante con qualsiasi nota e ha iniziato a cantare. A farle da indispensabile corollario strumentale, Julian Siegel ai sax, Francesco Puglisi al contrabbasso e Adam Pache alla batteria, un quartetto altamente jazz che meglio non poteva riassumere e chiudere la 19esima edizione anconetana di Corinaldo, che ha avuto, prima del gran finale con la Schuur, tre incontri di altissimo spessore musicale, a cominciare dall’esordio, affidato al quartetto Sea Side che si immerge nei fiati del fiorentino Nico Gori, seguito, nei due giorni successivi, dalla batteria di Peter Erskine e la sua The Dr Um Band prima e dalla California Dream Band, poi.
di Raffaele Marseglia
MANTOVA. La città di Virgilio è in fermento: il background musicale è di altissimo spessore, impegnato in tanti fronti, e sta portando Sting in giro per il suo Tour Mondiale organizzato per la presentazione del nuovo disco 57th & 9th Tour uscito l'anno scorso. In tanti in giro per la cittadina per questo avvenimento e per la prima volta di Sting come ospite. Un gruppo del suo Fan Club arrivato da ogni parte d'Italia e fuori nazione (hanno un gruppo di Facebook chiamato Illegal Tales capitanato da Giovanni Pollastri e Lydia Di Corato) hanno marcato l'entrata con un susseguirsi di giornalisti per capire il perché di Sting nella loro vita e l'amore per la sua musica. Alle 18 hanno aperto i varchi con controlli molto rigidi e il flusso delle persone si è insediato nei vari settori di Piazza Sordello.
di Raffaele Marseglia
PORRETTA (BO). Ultima serata, domenica 23 luglio, per questa 30esima edizione, del Porretta Soul Festival, puntualmente all'insegna della Musica con la M maiuscola, quest'anno con una dedica particolare: a Rufus Thomas, uno dei tanti blackartisti ad aver lasciato un segno indelebile nel Comune appenninico. Con un solito e incontrollabile susseguirsi di artisti, cantanti, dotati di voci meravigliose, il solito, irripetibile e altrove irrintracciabile clima, gioiosamente assorto nell'ascolto e nel gusto di questa musica concentrata sulla sinuosità del ritmo, ma espressa dall'anima, quell'anima nera intesa dai suoi esecutori, un'estrazione del blues fortunatamente sempre presente. Festival molto genuino che rispecchia l'armonia che c'è nel passeggiare nel piccolo centro termale della cittadina, nella piazzetta; un susseguirsi di gruppi della zona, ma anche di terre lontane, con tante persone a gustare un pacchetto completo, composto dalla musica, il paesaggio, gli indigeni e la loro innata accoglienza e quel mercatino che tanto spaventa i valligiani pistoiesi.
PORRETTA (BO). Ogni Festival ha le sue edizioni indimenticabili: le prime, abitualmente. Sono quelle nelle quali gli organizzatori assoldano il meglio che offra il Convento e il pubblico, vergine di quelle emozioni, risponde entusiasta. Poi, con il trascorrere degli anni, si affievolisce la meraviglia, è vero, ma aumenta il compenso qualitativo e gli spettatori rispondo alla chiamata ai concerti con la stessa carica esternata dai novizi alle kermesse. Questo capita un po’ ovunque, meno che a Porretta. Lì, nel Parco Rufus Thomas, nei quattro giorni del Soul Festival, il pubblico c’è sempre stato, c’è (ieri sera, per la terza serata della 30esima edizione, si è registrato un assembramento al limite dell’ossigenazione), da sempre e siamo dell’idea di poterci sbilanciare sostenendo che ci sarà. A prescindere, come avrebbe detto Totò.
di Raffaele Marseglia
FIESOLE (FI). Altra serata musicale con artisti che non hanno bisogno di tante presentazioni e il loro leader, un chitarrista con un background speciale, in primis la sua collaborazione con Miles Davis. È di Mike Stern, che stiamo parlando, che al Teatro Romano di Fiesole, a Firenze, affiancato da band speciale: Randy Brecker, trombettista, fratello di Michael Brecker, sassofonista purtroppo scomparso 10 anni fa; Lenny White, batterista con tante collaborazioni e un progetto bellissimo durato poco, purtroppo, The Manhattan Project (Michel Petrucciani, Wayne Shorter, Stanley Clarke, Gil Foldstein, Pete Levin, fratello dell'altrettanto noto bassista Tony, Teymur Fell, grande bassista un accompagnamento con il sei corde che lo si può paragonare ad Anthony Jackson), ha dato un saggio, meraviglioso, della profondità e della bellezza della musica.
di Luigi Scardigli
MAROSTICA (VI). Si è quasi sempre esibito con gli occhi semichiusi. Dopo mezzo secolo, può anche permettersi il lusso di non aprirli mai, durante i concerti. La sua musica, in compenso, la musica di George Benson, continua a vedere quello che molti altri suoi colleghi stentano anche lontanamente a decifrare. Certo, l’energia e soprattutto le corde vocali non sono più quelle di qualche stagione trascorsa, ma ieri sera, 17 luglio, a Marostica, nell’opulenta provincia vicentina, in piazza Castello, ribattezzata piazza degli Scacchi, il 74enne inimitabile chitarrista statunitense si è preso un’altra, l’ennesima, licenza di divertire chi ha preferito non perdersi la sua esibizione (unica data italiana di questa tournée), costringendo la security a mollare i rigori di ordine pubblico fino a quel momento fatti rispettare con disinvoltura e consentire al popolo del Marostica Summer Festival, almeno nelle quattro canzoni che hanno chiuso la serata, di alzarsi dalle seggioline rosse e blu e ballare.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Anche trentasette anni fa, la prima volta del Festival Blues a Pistoia (allora si chiamava Blues’In), si chiuse il 15 luglio, proprio come questa 38esima edizione. La differenza cronologica (quelle artistiche sono impronunciabili; dunque, non le scriviamo) risiede nel fatto che allora, il 15 luglio, cadde di domenica; ieri invece, l’arrivederci alla prossima, è stato un sabato, il sabato del villaggio, il Villaggio del Blues, un Villaggio meraviglioso, nel quale noi abitiamo da sempre e dal quale non abbiamo alcuna intenzione, men che mai voglia, di traslocare. Senza questo Festival, però, questa città varrebbe meno, molto meno, e non ha tanto da regalare, nonostante l’insolita e impalpabile nomina a Capitale della Cultura di questo 2017. Allora difendiamola, questa manifestazione, con i denti, perché è veramente un anello che ci tiene legati, saldamente, all’Universo musicale, che ci (ri)congiunge con il Mondo, quello vero, senza confini, senza barriere, senza pregiudizi, quello del Blues.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. I gruppi di spalla, che abitualmente svolgono il compito di introdurre, acusticamente ed emotivamente, la serata, ci avevano un po’ spaventato. Sì perché, a essere onesti, di questo Tom Odell non ne avevamo nemmeno sentito parlare, oltre che suonare. Le teen agers disposte a tutto che si accalcavano sotto le transenne poi, non hanno fatto altro che aggiungere dubbi alla nostra prevenuta inquietudine. E ci eravamo sbagliati, di grosso, anche se a Tom Odell occorre dare ancora qualche anno per stabilire se potrà scrivere anche lui almeno una pagina di storia o accontentarsi di essere stato una gradevole meteora mediatica. Ieri sera però, nella penultima giornata di questo 38esimo Festival Blues di Pistoia, il giovane cantautore inglese, divenuto tale per la sua cocciuta ostinazione e per la complicità della mamma, maestra elementare, che non ha mai smesso di credere nelle doti artistiche del figlio,
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Per fortuna che i cani della narcotici non siano saliti sul palco e siano invece rimasti nell’angolo della piazza che guarda via Roma, altrimenti, il concerto dei Gogol Bordello, sarebbe stato rimandato a data da destinarsi. No, non stiamo supponendo l’assunzione di sostanze stupefacenti da parte della band dell’Est europeo trasferitasi negli Stati Uniti per esigenze morali, politiche e radioattive, ma solo che di gas, in corpo, i ragazzi della band ucraino-statunitense ne hanno da vendere e soprattutto sanno a chi offrirlo. Piazza del Duomo infatti, per una delle ultime serate di questo 38esimo Festival Blues di Pistoia, ha risposto con tutta l’energia ska/punk/rock/hippop che occorreva e all’arrivo di Eugene Hutz e della sua formazione gipsy punk si è fatta trovare pronta a pogare.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Non basta essere musicisti stradotati per stare sul palco con Stefano Bollani. Per accompagnarlo, il bossanovista pentito, l’arrangiatore incompreso e incomprensibile, l’uomo del jazz che lo suona in dialetto, il musicista del cubo di Rubik, il più dotto e scanzonato conoscitore di tutti i sound, il più incarognito detrattore del reggae, l’imparagonabile corteggiatore delle melodie, l’unico pianista al mondo che riesce, contemporaneamente, a suonare con tempi jazz, blues, pop, funky, rock e tarantella pura, senza dimenticare la classica, bisogna essere, oltre che strumentisti tassonomicamente preparati, anche e soprattutto dei lazzari felici, che non possono separare la professionalità dal divertimento. Ieri, a Pistoia, questa piccola introduzione si è puntualmente verificata, soprattutto perché per questa Napoli trip, l’uomo del Nord cresciuto a Firenze e musicista onorario in ogni angolo del Mondo, si è fatto accompagnare da tre suoi fedelissimi amici, che oltre a potersi permettere il lusso di capirne anticipatamente il sound, sono principalmente preparati a viverne l’allegria: Nico Gori ai clarinetti, Daniele Sepe ai sax e Bernardo Guerra alla batteria, anche senza charleston.
di Luigi Scardigli
FIESOLE (FI). Accettai, di buon grado, i consigli di mio cugino Luigi (Calabrò), quando, alfabetizzandomi alla musica colta, mi suggerì l’acquisto di due Lp: Blue Wired (Jeff Beck) e Spectrum (Billy Cobham). Del primo, il motivo indimenticabile, è Sophie; dell’altro, Red Baron. E ieri sera, a Fiesole, nell’anfiteatro del Teatro Romano, Stanley Jordan alla chitarra, Christian Gàlvez al basso e lui, Billy Cobham alla batteria, proprio con il Barone Rosso hanno chiuso il concerto. I due Lp li acquistai nel 1978, ricevendo anche i complimenti del venditore, che si congratulò, vista la mia giovane età, per la scelta non certo usuale. Spectrum era già uscito da cinque anni (quello di Jeff Beck da due), ma allora non ero ancora pronto per ricevere quell’indelebile battesimo strumentale, che per fortuna contraddistingue e condiziona ancora, intatta, la mia passione musicale. E dopo 39 anni, una vita trascorsa tra ascolti, concerti, Festival, recensioni, le coincidenze hanno fatto sì che quel motivo, che segnò indelebilmente il ritmo della mia adolescenza, venisse offerto a me, e alle centinaia di spettatori, come preziosissimo e insostituibile congedo.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Lo sa perfettamente, Alex Britti, cosa riservi, spesso, la vita, a quella moltitudine indefinita di suoi concittadini metropolitani, anche non necessariamente di Monteverde, il quartiere dove è nato. Infatti la racconta, anzi, continua a raccontarla, miscelando, con sapiente piacioneria, la dotta preparazione musicale, fortemente blues, ad un’antologia di testi che non richiedono, per l’ascolto e la memorizzazione della stragrande maggioranza di questi, concentrazioni particolari. Ieri sera, il cantautore romano, ha riempito la piazza (concerto gratis, cosa non da poco), prendendo per mano, uno per uno, i circa 4.000 spettatori e lanciandoli nell’orbita tridimensionale della sua ultima registrazione, In nome dell’amore, volume II e della scenografia sul palco, sul quale ha campeggiato un mega schermo illuminatissimo dove sono scorse le immagini suggestive di angoli di Roma catapultate in indefinite metropoli notturne. Non era la prima volta, ieri sera, all’interno della 38esima edizione del Pistoia Festival Blues, che Alex Britti si esibiva nella Capitale del Cultura 2017. Lo aveva già fatto nell’edizione del 1989, poco più che ventenne, facendo da apripista a Van Morrison e suonando, benissimo, il blues degli altri, in quegli anni che chi suonava il Blues, faceva la fila per poter salire sul palco di piazza del Duomo.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. La strategia delle immagini e dei riflessi mediatici ha imposto l’inversione delle esibizioni. Così, i Cult, che avrebbero dovuto chiudere, a suon di heavy, la nuova serata della 38esima edizione del Festival Blues di Pistoia, hanno dovuto surriscaldare, con ottimi risultati, doveroso aggiungere, gli animi del popolo di piazza del Duomo e concedere la chiusura ai giovani Editors, a nostro parere più indicati in orario da apericena, che non da notte fonda. Non sappiamo, tra i giovanotti surriscaldati e le signorine megatatuate che si sono stoicamente accalcati alle transenne sotto il palco, a quale dei due gruppi non avrebbe rinunciato, ieri sera. I tempi delle inchiestine sono tramontati da tempo, però non avremmo fatto male, per un successivo studio sociologico e musicale, scambiare due chiacchiere con gli avventori per sapere se per i Cult o per gli Editors che si sono preoccupati di acquistare il biglietto e organizzare il viaggio.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Nessuno, scommettiamo, tra i molti, troppi, che hanno deciso di disertare l’unica tappa italiana di Little Steven, ieri sera a Pistoia per uno degli appuntamenti che credevamo imperdibili di questa 38esima edizione del Festival Blues, erano al corrente che il fonico della band, Disciples of Soul, fosse in preda a furori iconoclasti e per questo abbia deciso di non coordinare i decibel d’amplificazione e soprattutto non equalizzarli. Però, al di là di questo macroscopico contrattempo tecnico, che ha soprattutto nuociuto alle trombe d’Eustachio dei presenti, fatto tremare i responsabili per rischio crolli e svilito il sound della formazione, risulta indecifrabile l’atteggiamento del pubblico, specialmente quello indigeno, che solitamente, da agosto a giugno, è prodigo di suggerimenti e obbiezioni artistiche (in parole povere, rompe i coglioni), per poi disertare, puntualmente, la piazza nelle serate del Festival.
di Alagia Scardigli
FIRENZE. Nell’ippodromo del Visarno, quest’estate, a Firenze, sono passati diversi artisti, tra cui, il 1° luglio, i Chemical Brothers, il duo elettronico nato dall’incontro tra dei ragazzi inglesi nella facoltà di storia. Nella serata di sabato scorso, però, i due hanno deciso di non premere semplicemente play sui loro pezzi storici (Galvanize, Out of control, Let forever be…), quelli per cui tutti li conosciamo, ma di intrattenerci con un loro dj set. Scelta coraggiosa, perché sarebbe stato più facile ottenere applausi con le tracce che tutti conosciamo a memoria. E se così avessero fatto, tutto il focus si sarebbe focalizzato su di loro. Quello che invece è successo sabato è stato un fenomeno che già avevo notato al concerto dei Prodigy, al Lucca Summer Festival, anni fa: l’attenzione, in questi casi, non è sull’artista sul palco, ma su noi stessi. Sarebbe sbagliato dire che è finita l’epoca in cui alla gente piace la musica suonata con gli strumenti, perché io domenica 25 giugno ero nello stesso ippodromo a vedere i System of a Down, e percepivo un enorme entusiasmo da parte del vastissimo pubblico per una band che suonava e cantava, e tutta l’attenzione era posta nei confronti degli artisti, uno ad uno e nel loro insieme contemporaneamente.
PISTOIA. Ai due incredibili virtuosi del violoncello, i 2Cellos, ieri sera, 29 giugno, il meteo ha concesso la tregua, naturale, che avrebbe dovuto regalare anche a Franco Battiato. Ma fulmini e saette, con il cantautore siciliano, non si sono risparmiati, concedendo invece tutta la più gradita distrazione agli ex slavi, che hanno incantato, con la loro musica, per un’ora e mezza, i tanti presenti in piazza Duomo, alla prima vera serata del Pistoia Blues Festival 2017, edizione n° 38. È un concerto/spettacolo quello del duo sloveno-croato, formato da Luka Sulic e Stjephan Hanser: si assiste a uno show in cui musica classica e rock si coniugano in modo originale, grazie anche all’accompagnamento dei magnifici orchestrali, I Solisti di Zagabria, e del potente batterista Dusan Kranjc. Il concerto prende il via con il brano della colonna sonora di Momenti di Gloria e, a seguire, un’intensa interpretazione dedicata alla musica di pellicole leggendarie: Il Padrino, Braveheart, Colazione da Tiffany, Rain Man e molti altri.
LUCCA. Nemmeno Renzo Cresti, direttore artistico della rassegna Anfiteatro Jazz, ha saputo catalogare, con tassonomia strumentale, il filone musicale dei Meez Pheet. A pensarci, e nemmeno tanto bene, però – anche se i cultori potranno liberamente arrovellarsi nel discernere sulle origini e sulle contaminazioni più pressanti -, sapere in che cassetto sonoro occorra depositare il sound dei Meez Pheet, per trovarlo senza problemi, cercandolo, non è poi così importante. Fandamentale, invece, per una corretta disamina recensoria, è soffermarsi sull’eleganza acustica, fisica ed estetica della cantante, Elisa Ghilardi. Una signora profondamente distinta, sobria, tanto nell’abbigliamento che nelle capigliatura, che si esibisce con profonda passione, lasciandosi coinvolgere, con discrezione, però, dal dovuto, insopprimibile, trasporto. Sarà l’assenza di tatuaggi, forse (condivisa con meravigliosa naturalezza con tutti e sei i colleghi del palco), a suggerirle un’enfasi deontologicamente corretta, o forse il diaframma, impostato per funkeggiare, con tutte le sfumature che ne conseguono, dal soul al rap.
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PRATO. A vederla, non si direbbe. Poi, però, appena intona i primi accordi, ci si accorge, con grande piacere, di avere a che fare con una voce che non fa sconti. A nessuno, a nessun genere. Si chiama Elisa Mini, è una pratese naturalizzata ovunque; ovunque si possa cantare a livelli superiori, perché per lei, problemi di vocalizzi, al di là di ogni ragionevole poliglottismo, non ce ne sono. Ieri sera, 11 maggio, era a Prato, all’Opificio, in compagnia di una delle sue band: si chiamano i Mini market music e il nome – l’ha confessato la vocalist durante l’esibizione – è opera, fantasiosissima, del chitarrista, Daniele Vettori, coordinato, nel sound, non nel battesimo della formazione, da Alessandro Cianferoni al basso e Marco Calì alla batteria.
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di Virginia Longo
LECCE. “Non sono qui per promuovere un disco o per pubblicizzare chissà cosa. Le radio poi non passano le mie canzoni e quindi non mi posso definire una cantante radiofonica. Di conseguenza voi siete proprio antimoda e io vi sono grata per essere ancora qui, a darmi ancora energia. Rischiavamo il colpo di sonno con un progetto simile e invece ci abbiamo creduto tutti”. Si rivolge così Carmen Consoli al pubblico leccese del teatro Politeama Greco, pubblico che in una mite e ventosa sera di fine marzo ha riempito i palchi e la platea del settecentesco teatro. Eco di sirene è stato battezzato il progetto che ha portato la Consoli da fine febbraio in tutti i teatri italiani, ed è qualcosa di magico, mitologico, che studia e analizza tante personalità femminili. La voce di Carmen è ancora potente, come potenti sono le sue liriche, i suoi versi. Dimostra ancora una volta di essere la Cantantessa e nessun artista sanremese, della scuderia di Xfactor o Amici si è avvicinato al fascino del suo modo di cantare, alla profondità dei suoi testi che parlano al cuore.
di Luigi Scardigli
POGGIBONSI (SI). Nell’immaginario collettivo, e dunque parecchio banale, il violino è uno strumento bianco, concertistico, cameristico. Vederlo di colore e sentirlo vibrare come se si trattasse d’altro, a parte due illustri precedenti, come Stefano Grappelli e Jean Luc Ponty, bianchi, vero, ma oceanici, lascia interdetti. Solo il tempo di sentirla all’opera, Regina Carter, perché il fascino, la poesia, la grazia, la profondità, la leggerezza, la melodia si impossessano immediatamente dell’ascolto e il resto diventa cosa antica, o ancora da fare. La reception del Teatro/Cinema Politeama di Poggibonsi, primo Comune del senese lungo la bisettrice che si immerge nella campagna appaltata dagli inglesi da Firenze, è variamente assortita. Molti, però, hanno i bicchieri di cartone pieni di pop corn. Strano, per un concerto.
di Luigi Scardigli
VICCHIO (FI). Il talento si realizza ovunque, se c’è. Oz Noy, ne ha da vendere, ma se fosse nato dall’altra metà di Gaza, forse, il destino gli avrebbe forse riservato altri orizzonti. Al di là di questo, però, il chitarrista israeliano è veramente un perfezionista del suono, soprattutto perché una volta approdato negli Stati Uniti, si è messo in scia di talenti, che ne hanno fortificato una base oggettivamente imponente. Ieri sera, al Teatro Giotto di Vicchio, sulla bisettrice della provincia di Firenze che lega il Sieve a Bilancino, per il concerto inaugurale della ventesima edizione del Giotto Jazz Festival, con il ragioniere inemotivo, sul palco, altri due mostri sacri: Keith Carlock alla batteria (il suo assolo di cinque interminabili minuti sulla rilettura fusion di una leggeda sionora del rock and roll è stato devastante) e uno dei cofondatori degli YellowJackets, il bassista (a cinque corde) Jimmy Haslip.
Leggi tutto: Tre professori inaugurano il Giotto Jazz Festival
FIRENZE. La musica ha davvero un linguaggio universale. Ieri sera, nella Sala Vanni di San Frediano, a Firenze, se ne è avuta un’ulteriore e autorevole conferma, con il concerto/spettacolo di Idan Raichel, che ha momentaneamente deciso di abbandonare per un po’ di tempo il gruppo creato a sua immagine e somiglianza, Idan Raichel Project, per raccontarsi da solo. Il tastierista e cantante israeliano (nato a Kfar Saba 40 anni fa), ma anche consollista, percussionista e, nella circostanza dell’epilogo della serata, chitarrista, ha infatti concentrato l’intera esibizione con un repertorio di testi ebraici che così, solo a scriverlo, paiono lontani anni luce dalla musica più convenzionale, ma anche dotta, che mastichiamo abitualmente.
Ellesse
PISTOIA. Il Diavolo c’è, non c’è dubbio: ha 84 anni, pare un sommelier sosia di Gino Bramieri e suona e canta come se il tempo, il suo tempo, almeno, si fosse fermato agli anni ’80, quando imperversava con i suoi Bluesbreakers, la formazione-palestra per il blues a cavallo tra gli esordi revival e quelli rock, dai Cream, in poi. A Pistoia, John Mayall, c’era già stato, prima di ieri sera al Teatro Manzoni, svariate volte, a qualche centinaio di metri più a est, in piazza del Duomo, per l’esattezza, partecipando a più edizioni del Blues’In. Non crediamo che le escursioni atmosferiche gli creino problemi: visto come dispensava autografi, nell’antisala del Teatro pistoiese prima del concerto, vendeva Cd, incassava banconote e distribuiva sguardi censori verso coloro che intendevano familiarizzare, tutto si sarebbe potuto profetizzare, meno che una débacle.
di Rebecca Scorcelletti
PISTOIA. Twoness, dualità, è il nome del progetto musicale andato in scena ieri sera, 16 febbraio, alla Fondazione Luigi Tronci di Pistoia e nell'ambito della rassegna Giovedjazz patrocinata dall'Associazione Culturidea. Mauro Grossi e Matteo Scarpettini gli artefici, i protagonisti, l'essenza di questa dualità che rappresenta e confessa, in modo particolarmente eloquente, il senso ultimo di ogni interplay: il dialogo che diventa espressione. In secondo piano i percorsi dei due musicisti, per quanto origine del linguaggio che l'un l'altro si porge, l'obiettivo del confronto emerge immediatamente dal raccoglimento e dall'intreccio di sguardi che non cercano intesa, ma combinazione di libertà e trovatala, sorridono.
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PISTOIA. Ha imparato a viaggiare, Michele Beneforti. Per lui non esistono posti che si conoscono rispetto ad altri sconosciuti: viaggiare vuol dire ascoltare, e Michele, ogni volta che si muove, anche lungo la linea, a lui familiare, da un paio di anni, Pistoia-Boston, sente sempre cose nuove. Che appena può, e ovunque si trovi, cerca di riassumere e riprodurre con la sua sei corde. Ieri sera, sul palco del Santomato Live, a Pistoia, cresciuto sotto l’ala del maestro Nick Becattini, il predestinato enfant prodige, in Italia per una brevissima vacanza dalla scuola statunitense, ha provato a spiegare cosa gli sia successo, in questo ultimo periodo. Lo ha fatto introducendo ogni canzone della scaletta: dalla rivisitazione di alcuni successi di colleghi affermati, a quelle autografe, che sono il risultato, ideale, dei viaggi, dei suoi viaggi; ascolto, meditazione e (ri)nascita.