di Emiliano Degl'Innocenti
Ho ascoltato più volte nelle ultime tre settimane (ovvero dal giorno della sua uscita) Blue and Lonesome, il nuovo disco dei Rolling Stones, perché, malgrado al primo ascolto non mi abbiano dato particolari emozioni positive, meritano di essere sentiti a fondo. Il disco inizia con uno shuffle gradevole, Just Your Fool, che non ricorda, se non per la melodia, l'originale cantato da Ella Johnson, un brano tranquillo di jump blues anni '50. Vedo che oggi su Spotify ha superato i tre milioni di ascolti. In Commit A Crime si cerca forse di ricreare l'atmosfera della registrazione ipnotica di Howlin' Wolf, senza riuscirci e cadendo in una dilettantesca pesantezza, che tutte le volte che l'ascolto mi spingerebbe a cambiare canzone prima che finisca.
SERRAVALLE (PT). Peccato che li abbiano fatti esibire all’interno di una chiesa: è sacrilego; per i musicisti, naturalmente. Però ci auguriamo che presto capiti nuovamente l’occasione di poterli ascoltare altrove, perché il quartetto Sam Bossa (Pino Arborea, chitarra e voce, Filippo Poggi al basso, Massimiliano Balli alla batteria e Teresa Fallai alla voce), una divinità particolare, alla quale soprattutto gli atei sono devoti, merita ogni attenzione. A cominciare dal fatto che si tratta di professionisti, che non battono ciglio dai loro rispettivi spartiti e che al microfono c’è una donna semplicemente deliziosa, adorabile, con un diaframma di una possanza impressionante, un meccanismo che le consente di arrivare ovunque voglia senza fare il minimo sforzo, una leggerezza vocale sulle tonalità più difficili da vedere, figuriamoci da raggiungere.
PISTOIA. Siamo convinti che se Fabrizio Berti, presentatore ufficiale di molte manifestazioni del Pistoia Blues Festival, ieri sera, 21 dicembre, al Bolognini, non avesse annunciato che al posto dei The Voices of Georgia, costretti alla defezione per un improvviso malessere del tastierista, si sarebbero esibite le ragazze del Lousiana Gospel Psalmist, in pochi, tra quelli che hanno gremito la sala della succursale del Manzoni, se ne sarebbero accorti. E che nessuno, alla notizia, abbia battuto ciglio, dimostra, insindacabilmente, non certo lo spirito tollerante, nonché festaiolo, degli spettatori, ma la loro disarmante indifferenza: il 21 dicembre si va al concerto di Natale, come nelle case si compongono albero e presepe e alla mezzanotte si va a messa.
di Rebecca Scorcelletti
PISTOIA. Il Momento Giusto è il titolo di uno dei brani del disco Le Nuvole, il Tempo e l'Aurora che il chitarrista pistoiese Francesco Biadene ha presentato il 20 Ottobre alla Fondazione Luigi Tronci di Pistoia. Coadiuvata dall'Associazione Culturidea, la Fondazione ha di fatto inaugurato una serie di incontri musicali che si protrarranno fino al 15 dicembre proprio con la presentazione di questo progetto che Francesco Biadene ha potuto realizzare grazie al sostegno 100 band all'interno di Giovanisì Regione Toscana. Il disco è leggero come il sound dei suoi brani, decorato da un disegno di nuvole e dalla silhouette del cantante. Dieci brani dove il testo a tratti gira e si sparpaglia fra le note con gusto e poesia e le note hanno la giusta mescola di giri armonici alla tizio e caio e di originalità, spesa soprattutto nei tocchi di rifinitura.
di Rosalinda Renzini
PORRETTA (BO). "Hanno deciso di continuare con le mie canzoni. Sono convinto che le trattino bene, con rispetto, ma soprattutto con affetto, con la loro abilità di strumentisti. E si sono chiamati così come li chiamavo io, i Musici. Forse con la stessa ironia". Francesco Guccini è appena sceso dal palco del Rufus Thomas che deve salire su un altro, quello allestito per l’occasione della rivisitazione di alcuni dei suoi brani. Ma lui non suona e non suonerà più e lo conferma ancora una volta. Nell’intervista, improbabile, alla quale è sottoposto, preferisce raccontare della sua infanzia, quella trascorsa al Mulino, “dove si viveva sotto un tetto, vero, ma in condizioni atmosferiche proibitive, in un clima polare”. Parla di un mondo cambiato troppo velocemente, almeno per i suoi gusti antichi e per questo, le sue poesie, che raccontano piccole storie ignobili, non ha più voglia di interpretarle, forse. Ma a questo ci pensano i suoi Musici prediletti: Vince Tempera al piano, Pierluigi Mingotti al basso, Ivano Zanotti alla batteria (giunto in ritardo sul palco: una storia di donne, pare) e gli storici Antonio Marangolo al sax e soprattutto lui, Juan Carlos Biondini alla chitarra e alla voce, Flaco, meglio dirlo, lo pseudonimo, altrimenti, qualcuno, non capisce.
di Luigi Scardigli
PRATO. Esperimento coraggioso, quello intrapreso da Paolo Ponzecchi. Sì, perché stavolta, l’omaggio del lunedì dei concerti della Verdi, alla Corte delle Sculture della Bibioteca Lazzerini, a Prato, è ad un personaggio leggendario, del quale, nel Mondo, nessuno è stato mai colto in flagranza di fischiettarne un motivo. Jimi Hendrix è un vero e proprio culto per tutti i chitarristi, ma anche per chiunque si accosti alla musica entrando nel mondo delle note passando dalla porta o dalla finestra di qualsiasi altro strumento. Non a caso, ieri sera, a ripercorrere qualche tappa della breve, ma intensa e inimitabile vita del mancino di Seattle, si sono dati appuntamento cinque strumentisti (e nemmeno una sei corde) e una voce, candida, profonda, timida, invadente, di un’irlandese che sembra essere ancora più nordica di quanto lo sia. Tutti e sei devoti a Jimi Hendrix, come buona parte del pubblico, che come al solito ha puntualmente gremito il parterre in pietra, compreso Michele Papadia, con il quale abbiamo avuto la fortuna e l’onore di seguire il concerto.
di Luigi Scardigli
PRATO. E’ nato prima il cinema, del sonoro, si sa, ma la musica esisteva già. Poi, un giorno, apparve Ennio Morricone e la musica e i films, dal suo avvento, sono diventati un’altra cosa. Sì, certo, alcune pellicole non avrebbero avuto bisogno di altro per segnare indelebilmente il solco del cinema e le abitudini degli spettartori, ma diciamocelo francamente, alcune arie hanno trasformato dei capolavori in leggende. Pensate agli spaghetti western di Sergio Leone, agli Intoccabili, a C’era una volta in America, alla devozione, religiosa, che lo scanzonato Quentin Tarantino porta da sempre al musicista quasi novantenne, connubio questo che è valso, recentemente, un altro Oscar, quello targato The Hateful Eight. Al promoter Paolo Ponzecchi, coordinatore artistico dei Concerti della Verdi, a Prato, nella Corte delle Sculture della Biblioteca Lazzerini, in questa quinta edizione della sua felicissima iniziativa è venuta la brillante idea di omaggiare qualche mostro sacro. E dopo Pino Daniele e prima di Jimi Hendrix, ieri sera, 16 agosto, è stata la volta di Ennio Morricone. A ricreare l’atmosfera magica del sottofondo al grande schermo ci hanno pensato, con millimetrica e suggestiva precisione, il direttore orchestrale, pianista, tastierista e arrangiatore Massimiliano Calderai, il sax contralto, flautto e tutto ciò che suoni con il fiato Simone Santini, il contrabbasso di Filippo Pedol e la batteria di Alessandro Fabbri, tutti docenti della scuola comunale di musica Giuseppe Verdi di Prato, band alla quale si è aggiunta, per la circostanza, Delia Palmieri, voce, soprano, eleganza.
LA SERATA è stata piacevole, non foss’altro per la piacevolissima coincidenza che ha fatto sì che la sorte ci facesse sedere, attorno al banchetto, proprio davanti a lei. Era l’unica, della compagnia, che non conoscevamo ed era l’unica, probabilmente, che avremmo voluto conoscere. Da sempre. Ci siamo scambiate le mail, i profili; avremo occasione di rivederla. Chissà. In macchina, al ritorno, passata da poco la mezzanotte, abbiamo soltanto sperato di non imbattere in una pattuglia della stradale: non eravamo alticci, ma se ci avessero sottoposto all’alcoltest, avremmo avuto il nostro bel daffare a convincere gli agenti.
di Luigi Scardigli
PRATO. Siate ospitali, con lui, come lo siete da sempre; siamo sicuri, gli basterà un mese di full immersion nei bassi napoletani. Poi, una volta alfabetizzato al vostro slang, perché si possa sdebitare, organizzategli una serata musicale e capirete perché ne valeva la pena concedergli vitto e alloggio, anche gratis. Giacomo Ballerini è un bravo ragazzo, che porta con invidia i suoi 32 anni; ne dimostra meno, parecchi meno. Ha l’aria di essere ‘nu buone guaglione, umile, disposto ad ascoltare e imparare, però, se volete che tiri fuori il meglio di sé, dategli una chitarra e tacete: c’è del bello, in quelle dita che scorrono veloci sui capotasti; c’è del geniale in quella rieducazione del suono e c’è dell’avventata genuinità in quella capacità di rileggere anche un mostro sacro come Pino Daniele.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. I meno giovani se lo ricordano con Clive sugli schermi di Videomusic; quasi tutti, da trent’anni a questa parte, lo seguono come presentatore ufficiale del Porretta Soul Festival. A Pistoia, i meno distratti, ricordano che la Tafuro dinasty a lui affidò la presentazione di alcune edizioni del Blues’In. Rick Hutton, però, un englishman in Italia da oltre trent’anni che la nostra lingua la continua a parlarla piacevolmente malissimo, è anche e soprattutto un musicista e ieri sera, 6 agosto, tra gli stand gastronomici della Festa regionale del Pd, a Santomato, alle porte orientali di Pistoia, ha ripercorso, a ritroso, la storia del rock and roll, iniziando questo magnifico viaggio dalla Route 66, quella che porta da Chicago a Santa Monica, lungo quegli oltre cinquemila chilometri della highway dell’esodo americano verso il Pacifico, che fu anche lo spunto per il titolo del brano che Bobby Troup scrisse nel 1946 e che vent’anni dopo, cantata poi da tutti, divenne un quasi manifesto musicale epocale.
di Luigi Scardigli
PRATO. Una serata nel tempo, ma senza tempo; un sottofondo orchestrale, senza batteria, basso, tastiere o organi. Sul palco della Corte delle Sculture della Biblioteca Lazzerini, a Prato, in un giardino in pietra isolato dal resto della città, ma non sottratto all’effetto acustico canyon, la Gianni Zei Wedding band, con l’omonimo maestro fiorentino alla chitarra, Roberto Beneventi alla fisarmonica e Ruben Chaviano al violino, si è presa il lusso di richiamare a raccolta uno stuolo di vecchi amici e, riempito l’anfiteatro, ha deliziato gli ospiti con una serata sontuosa, fatta di un ripetrsi, piacevolissimo, di terzine. Il viaggio è partito da lontano, molto lontano, nel tempo, nello spazio e soprattutto nella cultura sgtrumentale: da Astor Piazzolla, per l’esattezza, per terminare la propria parabola con un doppio Check Corea e Stanley Clarck, più un omaggio, per l’inevitabile e gradito bis, tutto popsudamericano.
di Luigi Scardigli
LUCCA. La magia della location ha i suoi meriti, non c’è che dire: il giardino dell’Ostello di Lucca, sotto un segmento di mura che guarda verso nord, sono un foulard inglese nascosto che non credi possa essere distante poche decine di metri dell’avvincente ed elegante via Fillungo. Ma le parole in musica di Luca Benicchi, al di là del confort ideale nel quale abbiamo potute gustarle, l’altra sera, anche in una landa sperduta del Monferrato, probabilmente, avrebbero sortito i soliti piacevoli umori. Al fianco della sua voce modulata lungo le direttive delle sue tastiere c’erano, è vero, due musicisti particolarmente inclini alle contaminazioni e dunque propensi a rendere ancora più godibile la serata: Gennaro Scarpato alla batteria, alle percussioni, all’armonica e ad una serie di piccole cianfrusaglie che se da lui percosse diventano effetti speciali e Meme Lucarelli, un chitarrista anomalo, che tende ad impossessarsi gelosamente della propria sei corde con la quale ha un rapporto di confidenza paterno che gli consente di divertirsi a girellare lungo la tavolozza delle note alla ricerca di un suono antico, ma nuovo, corretto ma inascoltato.
di Luigi Scardigli
LUCCA. L’unica volta che ha cantato in inglese, lo ha fatto indossando una parrucca e usando, addirittura, uno pseudonimo: Sarnataro, Joe Sarnataro. Solo una parentesi, però. Prima, fino a quella stranissima apparizione al Blues’In di Pistoia e dopo, da allora in poi, è stato solo e soltanto Edoardo Bennato, un gigante del rock and roll. E non iniziate a snocciolare la catena del vostro santantonio ricordando, con il ghigno di chi crede di aver udito una castroneria, che ci siamo dimenticati Bruce, Lou e altri mostri sacri. Siamo perfettamente consapevoli di quello che abbiamo detto e lo confermiamo: Edoardo Bennato è un pezzo pregiato, quasi unico, del rock and roll, quello made in Italy, certo; anzi, quello made in Bagnoli, per essere precisi. La Lucca del Summer Festival, quella che inanella da tre lustri prelibatezze artistiche planetarie, questa edizione ha voluto chiuderla così, ieri sera, 27 luglio, quasi controcorrente, con un concerto gratuito e affidato ad un arzillo e longevo settantenne, che non è preceduto né seguito dal fascino del mistero, vero, ma che suona e canta meravigliosamente due ore filate e non si permette di dire nemmeno una banalità: non lo ha mai fatto con i testi delle sue poesie, passi importanti di controinformazione nazionale già sui testi antologici scolastici, non lo ha fatto ieri, quando ha raccontato e si è raccontato, bambino, davanti l’Italsider, ad inseguire tutti i sogni degli adolescenti.
di Alagia Scardigli
FIRENZE. Non chiamatelo trip hop, neanche loro vogliono questa definizione. Dopo stasera, dopo il concerto che i Massive Attack hanno tenuto il 24 luglio, all'Ippodromo Visarno, a Firenze, lo chiamerei intellectual hop. E’ musica elettronica, ma vi sbagliate se immaginate una discoteca affollata, gente sudata che cerca promiscuità, droga e oblio la mattina seguente. Questa è musica elegante, raffinata, distaccata, da veri dandy di questo nuovo millennio (nonostante certa gente tra il pubblico che sembrava esser finita lì per caso, forse perché sperava in un dj rastafariano). E non pensiate che, essendo musica elettronica, ma non a bomba, allora ci sia l’obbligo di fumarsi una canna e di fare i menefreghisti. Anzi, direi che, ad un concerto così impegnato politicamente è più utile portarsi dietro qualche libro di storia e di filosofia e prendere appunti mentre le immagini scorrono sul maxi-schermo, accompagnate, queste, da una musica che deve farvi riflettere, che deve far scattare in voi quel meccanismo che si era inceppato con la comune e popolare musica elettronica. Quindi: sedetevi e godetevi lo spettacolo, ma non perdete di vista il messaggio.
di Rebecca Scorcelletti
PORRETTA (BO). Soulandia esiste e ha i confini di un emiciclo, quello che ogni anno, a Porretta, si riempie e brulica di seguaci del soul. Il calore lo avvolge senza mai diventare afa, la pioggia lo sfiora senza bagnarlo e, immancabilmente, a ogni luglio - il prossimo saranno 30 -, vi si compie il miracolo della moltiplicazione. A Porretta gli alberi puntano più alti verso il cielo, in quelle sere, nella stessa direzione delle centinaia di dita alzate a sintonizzarsi e lo spazio sembra espandersi a ogni impulso che dalle casse toraciche dell'impianto rotola e vibra nelle nostre. La sensazione è quella di un rito collettivo, e se non fosse per l'abbraccio familiare e universale del piccolo anfiteatro, verrebbe da domandarsi se si è davvero degni di parteciparvi.
di Luigi Scardigli
PORRETTA (BO). Soul? Beh sì, certo, ma quanto blues, per non parlare di funky, parecchio funky! A Porretta, i puristi che circolano come gufi agli altri Festival a caccia di improprie denominazioni ad origine controllata, non ce ne sono, del resto. Non ci vanno a casa Uliani perché sanno benissimo che lì, comizi ortodossi e sugli apparentamenti sonori, non se ne tengono: indispensabile, al Parco Rufus Thomas, saper suonare e saperla dare, la musica, come han fatto, ad esempio, ieri, sabato 23 luglio, la maliziosissima Toni Green (la conoscono bene a Porretta, nessuno si scandalizza più dei suoi abiti succinti o trasparenti), quel pagliaccio di Bobby Rush, o il giocoliere Vasti Jackson e quella band, supporto di tutti, che non ha battuto ciglio, dalle 20 all’una, senza soluzione di continuità, con il bandleader Anthony Paul a fare gli onori di casa, organo, fiati e coriste ad impreziosirla e quel pazzo di Derrick Martin, alla batteria, a far sentire che ritmi si tengono, da quelle parti. Anche la scommessa/promessa con il diavolo della pioggia della Tasmania è stata rispettata.
di Luigi Scardigli
PORRETTA (BO). Energia da vendere, al Parco Rufus Thomas di Porretta, per la seconda giornata della 29esima edizione del Soul Festival. Ma non solo sul palco. Tra il pubblico, specie quello che popola l’ala più vicina all’ingresso, c’è un folto capannello di ragazze che hanno reputato opportuno (e non se ne poteva davvero fare a meno) seguire l’esibizione delle vocaliste in scaletta con una carica adrenalinica degna della migliore allegria. L’impresa, del resto, sarebbe consistita nel riuscire ad assistere al concerto delle femmine in sequenza con un distacco britannico, al di là degli ultimi verdetti referendari. Soprattutto quando è stato il turno, quattro canzoni e un inevitabile one more time incitato dall’agile Rick Hutton, di Falisa Janaye, una tanica di benzina allo stato puro posta nei paraggi di un braciere. Anche fotografarla, è stato eroico: si è fermata solo al termine delle singole esibizioni, ringraziando il pubblico e il suo dio per averle regalato un diaframma e un’energia stratosferici.
di Luigi Scardigli
PORRETTA (BO). Non si può e soprattutto non ci si deve stancare di dirlo: Porretta Soul Festival resta un angolo incredibile, dove la musica, sistematicamente di sontuosa qualità, si coniuga, puntualmente, con un ambiente che non ha uguali in tutti gli altri Festival che si consumano sulla faccia della Terra. Pensavamo che fosse così, all’inizio, quando Graziano Uliani si mise in testa quell’idea meravigliosa che è diventata una realtà importante non solo per quell’angolo di terra sospeso tra la fine della provincia toscana e l’inizio di quella emiliana. Invece, il Festival Soul, così è restato, come se il tempo, le sue lancette e la voglia di stare insieme con un sottofondo meraviglioso volessero dimostrare, in una sola eccezione, che la regola si possa infrangere. Ieri, 21 luglio, la 29esima edizione ha aperto ufficialmente le danze, sui sorrisi del pubblico, che conosce benissimo la magia di quel posto, il parco Rufus Thomas, quel giardino ad anfiteatro che si schiaccia, vertiginosamente sul palco, diviso dal pubblico da una sottile linea rossa, che nessuno, nonostante la totale assenza di un servizio d’ordine nerboruto, si sogna, prima di permettersi, di oltrepassare. Arriviamo a serata abbondantemente iniziata, ma la fortuna riservata a chi adora esserci ci riserva una sorpresa meravigliosa, un trio stratosferico: Mecco Guidi all’Hammond, Lele Veronesi alla batteria e Gloria Turrini alla voce.
di Virginia Longo
LUCCA. Piazza Napoleone a Lucca è uno di quei luoghi dell’anima che difficilmente si dimenticano, un po’ come piazza Castello a Ferrara, i giardini dei Boboli di Firenze e corso Vannucci a Perugia durante l’Umbria Jazz. Per chi ama appassionatamente il connubio musica ed estate, il Lucca Summer Festival rappresenta uno di quegli appuntamenti imperdibili, che riscaldano il cuore e fanno sudare allegramente magliette e vestitini. Ieri sera, 20 luglio, piazza Napoleone ha accolto sotto le stelle i Simply Red, che solo per la loro data lucchese si sono fatti accompagnare da una cantante eccezionale come Anastacia. Reduci da una lunga tournée in cui hanno presentato la loro ultima fatica, Big Love, hanno sfruttato l’occasione per rispolverare i loro evergreen. D’altronde festeggiano ben trent’anni di carriera. Ad Anastacia è toccato il compito di scaldare la piazza, gremita già dalle sette di sera, mentre le vie del borgo si animavano tra i vari wine bar e gelaterie. Ma gli affezionati fan di Anastacia e di Mick Hucknall e soci erano attaccati alle transenne o intenti a prendere posto nelle poltrone.
di Luigi Scardigli
PRATO. Vecchie sonorità, antichi risentimenti e un omaggio doveroso, imprescindibile, al collega-amico Pino Daniele. Napoli Centrale oggi, la prima band italiana di world music, dopo 41 anni di attività, è ancora quella di allora. La dimostrazione l’ha data ieri sera, 20 luglio, a Prato, nel giardino delle Lazzerini, inserito nella cornice del Festival delle Colline. Ma non tanto perché a suonare ce n’erano ben tre della formazione inziale, quella che sconvolse l’imperante sound melodico nella metà degli anni ’70: James Senese, il padre spirituale, che suona (il sax) pensando a John Coltrane e Miles Davis, canta come Fred Buscaglione e parla come Edoardo De Filippo, Gigi De Rienzo al basso, impassibile come il mostro sacro Jaco Pastorius, che tutti, bene o male, tentano di emulare e Ernesto Vitolo alla testiere, un Joe Zawinul decisamente meno surriscaldato, ma comunque parecchio efficace alla causa d’O Sanghe, l’ultima incisione, in ordine di tempo, della band napoletanissima. Alla batteria non c’è Agostino Marangolo, testimonial Ufip e professore di tanti batteristi, qui, nella zona, ma altri due vecchi amici di quella combriccola nonsolomusicale che ha deciso di non lasciarsi sedurre e abbindolare da nulla e nessuno, per restare, fedele, a se stessa: Freddy Malfi e Franco Del Prete, due drummisti che possono adattarsi a qualsiasi cerimonia, ma che a quelle della loro terra preferiscono non mancare. Mai.
Leggi tutto: Napoli Centrale, crocevia di dolore, speranze e sound
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Epilogo intimista, in piena controtendenza con l’aria che ha tirato per tutta la manifestazione, quello di ieri sera, 16 luglio, in piazza del Duomo, dove è calato il sipario sulla 37esima edizione del Festival Blues di Pistoia, un'altra rassegna che premia, ancora una volta, la duttilità, ancora un po' troppo titubante, di Giovanni Tafuro, il suo art director. Sul palco, da solo fino alla terza e ultima proposta del bis, Damien Rice, con la sua chitarra rabberciata e un loop efficacissimo, che gli ha consentito, sovente, di poter chiudere i brani in un crescendo orchestrale un po’ angosciante e asfissiante, ma di grande effetto. La piazza, con le seggioline blu, ma disposte ovunque, non solo nell’area solita per timori di modesta prevendita, accetta il religioso silenzio imposto dall’artista irlandese e decide di seguire il concerto in assoluto silenzio.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. La prima delle cinque W del giornalismo, quello che si insegnava nelle redazioni e tutti dovevano imparare, per irreggimentarsi, è quella del minuto di silenzio richiesto, a nome del Sindaco di Pistoia, Samuele Bertinelli, a Fabrizio Berti, presentatore occasionale del Festival di Pistoia. La folla, non oceanica, ma consistente, di piazza del Duomo, riunitasi per vivere la penultima serata della 37esima edizione della manifestazione, sta aspettando David Coverdale, l’ex voce dei Deep Purple, prima dell’avvento di Ritchie Blackmore. Ma il sangue e l’orrore di Nizza, almeno dietro esplicita richiesta, tornano prepotentemente alla memoria e per un minuto almeno, sotto un cielo ambiguo, tutto tace. Prima della storica band inglese, in procinto di festeggiare i 40 anni di attività, alcuni gruppi di corredo: gli ultimi, prima del fiore all’occhiello, gli svedesi Hardcore superstar, che non la mandano certo a dire dietro quanto a sfacciataggine, atteggiamenti hard e tatuaggi.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. La piazza, quella del Duomo, a Pistoia, è piena: va in scena la quarta serata della 37esima edizione del Festival. Sono quasi in settemila, a saltellare, telefonini alla mano, in barba ai noiosi detrattori del Festival Blues, agli immancabili sofisti (questi si trovano ovunque, anche ai tornei di tresette) e agli intenditori, che vorrebbero puntualmente assistere allo spettacolo dell’artista che è morto o che si esibisce altrove. Chi c’è sul palco? Un’intelligentissima urlatrice, la figlia segreta di Grace Jones, l’ex modella di Brixton, Skin e la sua band inglese, gli Skunk Anansie, che per non saper né leggere, né scrivere, si attrezzano con un’amplificazione furiosa: se qualcosa non va, non se ne accorgerà nessuno. Infatti, nessuno si accorge che la seconda giurata extra comunitaria di X Factor, nonché ex collaboratrice di Raffaele Godano dei Marlene Kuntz nella Canzone che scrivo per te, senza dimenticarla come ex moglie della sua produttrice Christiana Wyly, conosce una sola nota, anche se la usa benissimo.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Il problema è stato il filo del microfono, che lo ha seguito, indispensabilmente, in entrambe le incursioni, in un bis che nessuno, in piazza del Duomo, a Pistoia, avrebbe mai potuto immaginare tanto movimentato, Security compresa, che ha asciugato un altro bucato. Ma procediamo con ordine, nelle fotografie. Con un’ora di anticipo sul tabellino di marcia, sul mega palco del Festival di Pistoia, edizione n° 37, sale Joshua Michael Tillman, ribattezzato, almeno nella serata toscana, Father John Misty. La tematica sonora e culturale di questa giornata di intermezzo è l’IndieRock, affidato alle interpretazioni di due rappresentanti statunitensi: impressionante il fascino esercitato dal mancato pastore anglicano che, seppur appena 35enne, ne è già un autorevole testimonial. Che si piace moltissimo e non lo vuole assolutamente nascondere, con un’enfasi personalistica che a volte trascende anche dalle esigenze dello spettacolo e finisce per essere una riproduzione del canto del cigno.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Perché, noi, alla loro età, non abbiamo fatto lo stesso? Non siamo stati ore e ore a bivaccare sotto il sole cocente delle estati per essere tra i primi a entrare e gustarci, il più possibile vicino al palco, i nostri beniamini di turno? Che non erano i Bastille, d’accordo, ma gruppi che poi hanno fatto la storia – e non solo della musica -, quella che probabilmente non faranno questi ragazzotti inglesi! Ma a loro, alle duemila adolescenti - meno volgari e più pulite delle nostre coetanee - che hanno scarsamente popolato piazza del Duomo per la quarta serata della 37esima edizione del Festival Blues, le risposte che aspettavano, sono arrivate tutte, proprio come desideravano che fossero formulate. La vera anomalia, constatata soprattutto dall’organizzazione, è che tutti, per questa unica data italiana, si aspettavano che la rockprogressiveband attirasse più spettatori. E invece, le sorelle minori delle spettatrici di Mika non sono riuscite a competere con le maggiori, perché in piazza del Duomo, con i Bastille, le seggioline blu - effetto soldout - avrebbero fatto la loro porca figura.
di Luigi Scardigli
PISTOIA. Iniziamo dalla piazza ingiustificatamente semideserta o dalla straordinaria performance degli artisti? Non fa differenza: ci sarà merda per gli uni e rose per gli altri. Perché a questo Festival Blues, ora che non si può più accusare di essere ricettacolo di droga, bivacco di immarcescibili freakttoni, alcova estiva di disturbatori della quiete pubblica, i più accaniti detrattori, che non vengono al Blues, ma che non vediamo mai a teatro, in libreria, al cinema e che sostanzialmente non ridono mai, si erano attaccati, ultima spes, alla questione musicale, accusando Tafuro e la sua direzione artistica di essersi dimenticati del Blues. Ieri sera, però, terza serata della 37esima edizione del Festival di Pistoia, si sono dovuti attaccare loro, al tram, quello chiamato desiderio, perché se fossero venuti, di Blues, ne avrebbero sentito in abbondanza, e di bella posta!
di Luigi Scardigli
PISTOIA. A tutti, indistintamente. A questa città, parecchio strana: pronta a puntare il dito per sollevare obiezioni e critiche, a volte sacrosante, ma che si fa trovare puntualmente impreparata e che soffoca sotto l’infondatezza delle proprie accuse, che finiscono per ritorcersi con i signori che le lanciano solo per il gusto di criticare. Del resto, nella stagione delle piattaforme sociali, che hanno patentato dislessici e cretini, c’è poco da meravigliarsi. Ma sabato 9 luglio, in piazza del Duomo a Pistoia, per la serata GRATUITA della 37esima edizione del Festival Blues, la topclass dei pistoiesi ha nuovamente disertato l’applauso ai suoi beniamini, che sono quelli che altrove raccolgono consensi, contratti, serate indimenticabili. Hanno preferito non mancare di timbrare il cartellino sulla Sala, quella attigua a piazza del Duomo, perché si sa, perdere una serata nel fazzoletto della movida equivale ad essere tagliati fuori e dentro, nel giro, non ci si ritorna più.