di Simona Priami
FIRENZE. Il meraviglioso Palazzo Strozzi presenta le opere di Helen Frankenthaler, una delle principali artiste del Novecento americano. Si tratta di opere realizzate tra il 1953 e il 2002, trenta tele e varie sculture che mettono in evidenza il suo estro svincolato dalle regole e la sua continua ricerca di libertà nella creazione artistica; ogni sala è dedicata a un decennio della sua produzione. Le opere sono in ordine cronologico, le sue innovazioni sono presentate accanto a dipinti e opere di artisti suoi contemporanei, per metterne in evidenza la produttiva cooperazione; Helen ha conosciuto e interagito con i principali artisti dell’epoca; fondamentali per la sua crescita infatti sono stati i confronti con Jackson Pollok, Mark Rothko e David Smith, mentre i suoi punti di riferimento, i maestri da cui prende spunto sono stati: Cezanne, Matisse, Kandinsky e Picasso. La sua eclettica e fervida immaginazione, la sua continua ricerca di sperimentazione la porteranno a un astrattismo personalissimo, grazie anche all’invenzione della tecnica del Soak Stain, inibizione a macchia, qui presente in modo particolare nell’ Open Wall, tecnica che permetteva, attraverso i colori diluiti e versati nella tela, già impregnata di acqua, una maggiore espressività, Tale tecnica veniva sperimentata, dagli anni ‘50 ai ‘70, partendo dalla tela appoggiata a terra e dal gocciolamento inventato da Pollok. Nell’opera Open Wall del 1953, composizione astratta con fondo celeste e contrasti con oro rosso, l’artista afferma che l’opera è un esperimento per creare una sorta di spazio e di confine … in definitiva l’essenza del dipinto ha ben poco a che fare con il soggetto in sé, ma piuttosto con l’interazione degli spazi e la giustapposizione delle forme. In Human Edge sottolinea l’importanza della linea L personale, inquieta, non geometrica, non pulita, forse proprio come l’opera astratta. Di Ocean Drive del 1974, che è stato realizzato nello studio dell’artista, afferma di non stare guardando la natura, ma il disegno presente nella natura, come il sole o la luna possono essere visti come cerchi o luce, su uno sfondo azzurro emergono sottili linee giallo oro verde e rosso, solo una forma blu in alto è più marcata; proprio come quando sono in Connecticut spesso esco sulla terrazza e osservo i continui cambiamenti del cielo e delle maree e ciò accade ai colori, alle forme e agli spazi. E in qualche modo trapela la mia estetica. In Eastern Light, del 1981, dominano i colori più scuri ai bordi, sfumati verso il rosa, piccole macchie bianche all’interno. Nell’opera Madrid l’artista rappresenta le meraviglie della natura, le nuvole e gli spazi, su uno sfondo scuro, delle forme astratte verde e viola ricordano nubi in movimento. Per Helen solo guardare fuori dalla finestra poteva essere un momento magico in cui il mondo gli appariva un incanto. Nel 1898 l’artista dipinge Star Gazing, dove è presente un paesaggio notturno con presenza di un forte blu sfumato, alcuni rettangoli sullo sfondo ricordano le origini dell’artista, la sua strada già percorsa, il cubismo. Alla retrospettiva è presente anche Number 14, del 1951, di Jackson Pollok, della quale Helen afferma: sembrava avere una complessità e un ordine tali da suscitare, in quel momento, una mia reazione … qualcosa di più … barocco, più disegnato e con alcuni elementi di realismo astratto o di Surrealismo, o un loro riflesso …
di Lorenzo Gattoni
MILANO. Pittore, scultore, ceramista, massimo esponente del cubismo e artista straordinariamente eclettico e prolifico, Pablo Picasso è figura imprescindibile del Novecento, che ancora oggi suggestiona e influenza l’arte contemporanea. Ma la sua vita riserva a tutt’oggi qualcosa di poco conosciuto, che la mostra Picasso lo straniero, aperta fino al 2 febbraio 2025 a Palazzo Reale di Milano, rivela al grande pubblico. Nato a Malaga, in Spagna, nel 1881, Picasso fu attratto dalla città di Parigi, fulcro e fucina internazionale di ogni movimento artistico e di ogni moda al sorgere del Novecento. Vi si recò la prima volta, appena diciannovenne, nel 1900 per l’Esposizione Universale (un suo quadro era ospitato nel padiglione spagnolo) abitando per alcuni mesi a Montmartre, quartiere frequentato da artisti e marginali, poveri e squattrinati. Vi tornò l’anno seguente, ospitato dal mercante d’arte Pere Magñac sempre a Montmartre, dove frequentò la comunità catalana che lo accolse e sostenne, venendo per questo motivo schedato dalla polizia come straniero e anarchico, quindi sospetto e pericoloso. Dopo successivi spostamenti tra Parigi, Barcellona, Madrid e Malaga, fece ritorno nel 1904 nella capitale francese, parlando poco e male la lingua e senza soldi, nonostante la vendita di suoi disegni e quadri, che ritraggono perlopiù prostitute, donne povere, bambini miserabili, uomini abbrutiti. Vi risiedette stabilmente, se non per pochi anni in Spagna dopo la guerra civile, sino a metà anni Cinquanta, quando si trasferì in Provenza. Picasso però, a dispetto della lunga residenza e della fama sempre più internazionale cresciuta nei decenni, non ottenne mai la cittadinanza francese, proprio a causa della sua condizione di straniero. Di questo spaccato biografico, accompagnato e integrato da immagini, documenti, disegni, dipinti, sculture, ceramiche, collage, foto e video d’epoca, si occupa la mostra, promossa dal Comune di Milano e prodotta da Palazzo Reale con Marsilio Arte, realizzata grazie alla collaborazione del Musée national Picasso-Paris (MNPP) e del Palais de la Porte Dorée con il Musée National de l’Histoire de l’Immigration. L’idea originale del progetto è nata da Annie Cohen-Solal, autrice dell’omonimo volume e curatrice scientifica della mostra con la curatela speciale di Cécile Debray, presidente del MNPP, e la collaborazione di Sébastien Delot, direttore delle collezioni del MNPP. Il tema della mostra, che segue la traiettoria estetica e politica di Picasso, è dunque l’immigrazione, l’accoglienza, la relazione con l’altro, con un chiarissimo e voluto riferimento all’attualità. L’esposizione consente pertanto al visitatore un percorso parallelo: da un lato affascinante e coinvolgente (il formarsi, il crescere e l’affermarsi del genio artistico di Picasso, pur nella difficile condizione di immigrato), dall’altro sorprendente per l’ottusità burocratica e la xenofobia nazionalista di cui fu direttamente e indirettamente vittima: grazie al minuzioso lavoro d’indagine compiuto dalla storica Cohen-Solal, oggi sappiamo che lo straniero Picasso venne schedato e sorvegliato, subì ostracismi di varia natura (ad esempio, il rifiuto da parte del Louvre di ospitare il celeberrimo Les Demoiselles d’Avignon), visto con diffidenza e respinto dalla società francese, e al quale venne persino negata la cittadinanza, l’ultima volta nel 1940 quando era già noto e ammirato in tutto il mondo. Solo negli anni Sessanta, il generale De Gaulle, a mo’ di riparazione, gli offerse la cittadinanza francese, che Picasso – oramai artista universale e cittadino del mondo – rifiutò. Ma, all’apparenza per paradosso, la protervia xenofoba contro Picasso agì da propellente per il suo instancabile genio inventivo dandogli l’estro per la creazione e la realizzazione di serie e cicli di opere dedicate alla sua condizione di reietto e respinto. L’arte, insomma, come atto politico (non a caso è a lui che dobbiamo la più celebre opera contro le guerre, cioè Guernica, e il disegno del simbolo pacifista, ovvero la Colomba della pace). E queste sono appunto le opere – dipinti, disegni, schizzi, manufatti… – che il visitatore può ammirare: da La lettura della lettera, con Picasso che rappresenta sé stesso con un amico, a celebrare l’amicizia e la fraternità, alla serie de I saltimbanchi, evidente allegoria della condizione dell’immigrato straniero costretto ad acrobazie di ogni sorta, a quella de Il Minotauro cieco con bambina, ove la forza e la possanza dell’animale sono affiancate alla fragilità della bambina e da quest’ultima mitigate alla ricerca di un equilibrio naturale, oppure Gruppo di donne, intente alla vita quotidiana nei quartieri più poveri della città, a conferma del forte impatto che essa ebbe sul giovane Picasso, oppure Gruppo di uomini, che ritrae in modo torvo e cupo alcuni uomini (come evidentemente venivano visti dalle autorità e dai francesi gli stranieri) sino ad arrivare, in chiusura di mostra, al luminoso Baia di Cannes, splendida dedica a quella Francia del Sud dove l’artista si trasferì nel 1955 sino alla morte nel 1973. La mostra ha una evidente connessione con l’attualità e a suo modo esprime un intento politico: da un lato, rivela al visitatore la precarietà e la marginalità in cui visse Picasso, uomo e artista non inquadrabile nell’ordine costituito, dall’altro mette in luce come l’arte costitutivamente non sia parte di quest’ordine sociale, ma compagna e alleata della fragilità e dell’emarginazione. Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, che porteranno all’affermazione del fascismo e poi del nazismo in Europa, i toni con i quali Picasso in quanto straniero veniva descritto e attaccato dai nazionalisti francesi – l’immigrato, il nemico, il traditore, l’artista degenere e come tale una minaccia per la morale e la società – non sono diversi da quelli che ancora oggi echeggiano nel nostro quotidiano. Ma lo straniero, a cui spesso ci sentiamo indifferenti, mai può esserci estraneo, a maggior ragione dove l’arte è approdo comune di umanità. E un’ultima riflessione, al termine di questa visita, sorge spontanea, se la nazionalità, quale che sia, non sia dunque quella di nascita ma quella della relazione e della comunità in cui si vive, si cresce e si intrecciano rapporti e radici.
di Lorenzo Gattoni
MILANO. Ragguardevole, una esperienza visiva ed emotiva abbacinante, conturbante, sia per la ricchezza delle opere esposte, che per la densità di colori, forme, soggetti e temi che vengono offerti al visitatore. Parliamo della mostra, che rimarrà aperta fino al 26 gennaio 2025 (poi sarà la volta di Roma), dedicata a Edvard Munch (1863-1944), prodotta da Palazzo Reale di Milano e Arthemisia, in collaborazione con il Munch Museet di Oslo. Promossa dal Comune di Milano, con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, è curata da Patricia G. Berman, una delle più esperte studiose al mondo di Munch, con il supporto di Costantino D’Orazio per i testi di corredo e approfondimento, ed espone ben cento opere dell’artista, per lo più dipinti a olio, ma anche numerose litografie e incisioni, divise in sei sezioni, ciascuna dedicata a un tema corrispondente a uno snodo esistenziale e artistico della vita dell’autore, perlopiù passaggi drammatici della sua esistenza, dalla morte per tubercolosi della madre e della sorella, alla tormentata relazione d’amore con Tulla Larsen. Munch è universalmente conosciuto per il suo famoso quadro L’Urlo: ma se l’urlo è un fenomeno sonoro, che pertanto si propaga, la mostra liminalmente ha per titolo Il grido interiore, già un avviso quindi e un invito a entrare nell’intimità dell’artista. Il visitatore è chiamato ad avvicinarsi a un mondo visivo ed emotivo febbrile, dal quale lasciarsi avvolgere e coinvolgere, facendo per così dire esercizio di epochè. Le sezioni della mostra, come detto, costituiscono altrettante stazioni esistenziali e artistiche, dalla prima Allenare l’occhio (Non dipingo ciò che vedo, ma ciò che ho visto, scrive Munch) alla sesta Di fronte allo specchio (Autoritratto), quasi a chiudere il cerchio da uno sguardo a 360 gradi a quello rivolto a sé stesso, a tracciare quindi il cerchio dell’esistenza. Vi è poi un’ulteriore sezione, L’eredità di Munch, a rappresentare come la sua pittura, la sua creatività, posero le basi dei successivi movimenti artistici, l’espressionismo per il primo. Dentro questo cerchio c’è tutto il mondo dell’artista, pullula di vita l’intero universo della sua sensibilità: i fantasmi e i corpi, l’angoscia e la tenerezza, il dolore e l’amore, l’attrazione (anche erotica) e la repulsione, e poi ancora la solitudine e la malinconia, l’ansia e la paura, la malattia e la morte. A ognuno di queste emozioni e sentimenti, Munch ha dato un’ espressione visiva unica, avendo la natura come spunto primario per operarne una trasformazione, persino perturbante, attingendo a essa come una tavolozza di colori, grazie a un uso del colore sorprendente (eccezionale l’utilizzo dei colori, da quelli reali e materici a quelli imitativi, da quelli evocativi, slegati cioè da un referente reale, a quelli simbolici che rimandano ad associazioni archetipiche), all’alterazione delle prospettive (così irregolari da manipolare la congruità geometrica) e alla dilatazione delle forme (slabbrate, sinuose, morfologicamente innovative) creando in questo modo un duplice effetto nell’opera dipinta: l’osmosi, la coesione, l’unità del tutto (Munch è stato un sostenitore del monismo, sulla scorta delle teorizzazione di Ernst Haeckel, artista e biologo in voga all’epoca) e la differenziazione, talché il soggetto umano dipinto si staglia in maniera volitiva sulla tela, spesso grazie anche al gioco di ombre che danno volume e incombenza alle figure, quasi a farsi incontro all’osservatore per attrarlo e portarlo dentro di essa, come plasticamente evidenzia L’Urlo, e splendidamente nella mostra Malinconia, Disperazione, Il bacio, La morte nella stanza della malata, tanto per citarne qualcuna. In virtù di questa permutazione siamo indotti a confrontarci con la nostra interiorità e a dare ascolto al nostro personale grido interiore, a modularne il suono e a registrare il riverbero delle nostre stesse emozioni. Nel percorso della mostra sono presenti alcune aree didattiche e sperimentali dove i visitatori possono giocare a essere loro stessi artisti applicando alcune tecniche di lavoro utilizzate da Munch; inoltre numerosi sono i pannelli esplicativi ricchi di informazioni, approfondimenti e cenni (storici, tecnici, artistici) utili a comprendere l’artista, il suo mondo e il suo tempo. Curioso e coinvolgente anche l’allestimento di uno spazio immersivo: in una sala interamente a specchi vengono proiettate a rotazione su una parete le immagini delle opere in modo tale che la rifrazione avvolga e disorienti il visitatore. L’occasione della mostra è dunque straordinaria per conoscere e approfondire la conoscenza di Munch, precursore dell’espressionismo, ancora oggi capace di coinvolgere ed emozionare. Se oggi sembriamo approssimarci alla soglia dell’abisso, questi dipinti – dando visibilità ed espressione al nostro grido interiore – sono capaci di rendere tangibile la dimensione dell’angoscia, del mistero, del tormento. La pittura di Munch è stata considerata anticipatrice della crisi dell’Europa di inizio Novecento (come testimoniano anche opere in altri ambiti artistici, citiamo qui soltanto il coevo Thomas Mann), a maggior ragione nel divenire della crisi della modernità, dal momento che il tema dell’angoscia è più attuale che mai, intravediamo nei suoi tratti pittorici un linguaggio tuttora capace di esprimere la varietà umana e la sua ricchezza. L’impatto emotivo potente rivela tutta la sua straordinaria attualità. Se lo sgomento e l’orrore sono tornati ad abitare il nostro presente e a gettare una minaccia cupa al futuro, ci affidiamo all’arte quale opera profondamente umana capace ancora di un linguaggio emotivo e simbolico universale.
di Simona Priami
FORTE DEI MARMI (LU). La mostra al Fortino Leopoldo I di Forte dei Marmi, in collaborazione col Museo Egizio di Torino espone ventiquattro rari reperti visibili fino al 2 febbraio 2025; si tratta di vasi, stele, maschere, amuleti, papiri, cronologicamente disposti al fine di mostrare una società in continua evoluzione e cambiamento, dall’epoca predinastica (3500 – 3300 a. C.) al periodo ellenistico romano (II sec. a.C. - I sec. d.C.). La mostra mette in evidenza l’importanza del Nilo per la società egizia che fin dai tempi antichissimi aveva imparato a sfruttare le piene del fiume che ogni anno esondava lasciando il terreno fertile grazie al famoso limo. Dalla produttiva terra nera, concimata dal fiume, nacquero i principali villaggi che poi divennero le splendide città; lo stesso storico Erodoto definì l’Egitto dono del Nilo. I reperti mettono in mostra anche il culto dei morti che ha reso celebre questa società nello spazio e nel tempo, per la maggior parte infatti i pezzi della mostra sono ritrovamenti o accessori delle tombe. La Giara con decorazioni figurative in terracotta, ceramica decorata appartenente all’epoca predinastica, mostra come già prima dell’unificazione politica dello stato e dell’introduzione della scrittura, l’artigianato fosse vivo e fiorente. Si tratta di un vaso realizzato a mano; sono visibili due barche con lunghi remi come testimonianza dell’importanza del fiume e della navigazione. Il Nilo infatti era navigabile per la maggior parte del suo lungo tratto e sfociava con un delta allora ben più ampio di oggi che misura duecentocinquanta chilometri. Tra il 1911 e il 1913 viene ritrovato il Modellino di imbarcazione con marinai, risalente al primo periodo intermedio (2161 – 1990 a. C.): sono presenti sei personaggi, cinque rematori e un timoniere o lo stesso defunto, rivolto nella direzione della navigazione. Questi modellini infatti venivano posti nella camera mortuaria e rappresentano il viaggio del defunto verso i luoghi di culto. Il Modellino di attività artigianale in legno e finemente decorato (1939 – 1875 a. C.) fa parte dell’arredo funerario. Si tratta di un equipaggiamento per l’aldilà; la tomba infatti è un piccolo mondo che doveva garantire la continuazione della vita dopo la morte; qui vediamo sette figure, quattro uomini e tre donne, che stanno lavorando per produrre birra e pane. Gli Ushabti erano figurine funerarie in legno o pietra, venivano deposte nella camera mortuaria, dovevano sostituire il defunto nello svolgimento dei lavori pesanti. Qui abbiamo Ushabti di Urny (1353 – 1279 a. C.), di grande effetto visivo, la figura femminile mummiforme lignea, impugna gli attrezzi agricoli. Su di essa è iscritta la formula 6 del Libro dei Morti che il defunto doveva recitare per attivare l’Ushabti; ricordiamo che il Libro dei Morti è caratterizzato da numerose formule sacre utili a presentare il defunto degnamente al cospetto di Osiride. Di eleganza e raffinatezza unica sono i Quattro vasi canopi di Ptahhotep, in alabastro; la possibilità di una vita dopo la morte dipendeva dalla conservazione del morto in condizioni di integrità, da qui lo sviluppo della sofisticata tecnica della mummificazione, favorita anche dal clima secco e asciutto dell’Egitto. Gli organi interni estratti con l’aiuto di pietra etiopica dall’addome e con un ferro ricurvo dal naso per il cervello, puliti con aromi, venivano inseriti separatamente nei vasi canopi, collocati nella camera sepolcrale, vicino alla mummia. I quattro vasi hanno coperchi rispettivamente di forma umana, falco, babbuino, sciacallo, la provenienza forse è Melfi. Nel Bronzetto della dea Iside lactans (664 – 332 a. C.), la famosa divinità è seduta su un trono, è riconoscibile per il suo copricapo a forma di avvoltoio su parrucca sormontata da corona di urei e di corna di vacca che abbracciano un disco solare; Iside stava allattando il figlio Horus, che era posto sulle ginocchia, adesso andato perduto, lei rappresenta la madre protettrice del futuro re. La mostra termina con la Maschera funeraria in cartonnage (II a. C. - I d. C); le maschere in cartonnage risalgono al periodo Intermedio e arrivano fino al VII sec. d. C.; sono coperture di mummia realizzate in tessuto o fogli di papiro, finemente dipinte. Riproducono un’immagine idealizzata del volto del defunto, sono elementi importanti di protezione magica, spesso decorate con formule religiose. Qui il volto è bianco, ma spiccano dettagli in rosso e occhi neri, una parrucca ricopre testa e spalle, sulla testa c’è uno scarabeo alato con disco solare tra le zampe, simbolo di rinascita. Lo spettatore alla fine del percorso può approfondire gli argomenti trattati attraverso video e ricostruzioni multimediali di grande effetto visivo e uditivo delle complesse tecniche della realizzazione dei sarcofagi, concludendo così una totale immersione del misterioso e magico mondo degli Egizi, dove ancora tantissimi sono i reperti da studiare, scoprire e approfondire. Interessantissima anche l’audio guida con la spiegazione del famoso scrittore fortemarmino Fabio Genovesi.
di Simona Priami
CARRARA. Nella fantastica ed elegante atmosfera di Palazzo Cucchiari, a Carrara, una nuova mostra propone le opere del movimentato periodo della Belle époque italiana, anni di grande fermento e cambiamento culturale che coincisero con l’unità del paese. Il percorso, perfettamente organizzato, partendo dal Verismo e dalle visioni agresti, propone un superamento dell’arte figurativa per apristi e approdare alle nuove tendenze artistiche europee, un’apertura verso le atmosfere simboliche e decadenti, la pennellata divisionista, la velocità e il dinamismo del Futurismo. Tra gli artisti proposti in esposizione ci sono Giovanni Boldini, Federico Zandomeneghi, Giovanni Fattori, Vittorio Corcos e Giacomo Balla, oltre novanta opere che mettono in evidenza i grandi cambiamenti storici, sociali e culturali dall’Unità allo scoppio della prima guerra mondiale. La mostra (aperta fino al prossimo 27 ottobre) è divisa in numerose sezioni; il visitatore può subito ammirare l’opera di Silvestro Lega, La Visita, il capolavoro che ha come sfondo la campagna piacentina, propone un paesaggio invernale e un’atmosfera nebbiosa. Allora era usanza fare visita, come la cortesia era una consuetudine del luogo; il dipinto ricorda in modo immediato l’arte italiana antica della visitazione. Nella sezione Tempi Moderni la campagna viene superata dalla nascita ed evoluzione della città, luogo attraente, pieno di possibilità e occasioni di rinnovamento sociale, luogo però anche di perdizione, giungla di cemento. La città adesso è lo scenario più richiesto e nuova fonte di ispirazione; gli artisti mettono in secondo piano la vita dei campi, soggetto che era stato basilare per veristi e naturalisti: ora vediamo strade, piazze, giardini pubblici, caffè, inoltre c’è la nuova scoperta, il concetto di villeggiatura che entra a far parte della vita delle persone, naturalmente solo nei ceti più abbienti. Qui possiamo ammirare Ruggero Panerai e la sua Firenze sotto la pioggia, dipinto realista, ma con particolari e misteriose sfumature rosse sullo sfondo e Plinio Nomellini, con La fiera di Pietrasanta, opera colorata, esuberante e festosa con contorni non ben definiti, pennellata impressionista, cielo notturno e misterioso. Nella sezione Casa e Famiglia l’artista comincia a raffigurare la comodità dell’abitare e dei modi di vivere; l’esibizione dell’abitazione, degli ambienti interni, il matrimonio, risultano essere riconoscimento sociale, punto di forza della nuova borghesia nascente; tutto ciò però può diventare anche una prigione e lo dimostra lo sguardo dolce ed evasivo della fantastica figura femminile di Sogni di Vittorio Corcos. La modella di questa immagine estremamente suggestiva è Elena Vecchi, figlia di un amico dell’artista, seduta su una panchina con abbigliamento elegante, raffinato, ricco e borghese; accanto ha dei libri, il cappellino e l’ombrello, Colpisce il suo sguardo che rimanda a un altrove, lontano dal mondo a cui appartiene, un altrove che forse proprio la lettura riesce a evocare. In Povera Patria, però, altra sezione, viene rappresentata la vita del popolo, bisogni e speranze; la guerra ha portato fame, tristezza, stanchezza come si può vedere dallo sguardo senza speranza e dall’intensità lirica della donna in Fuoco spento di Angiolo Tommasi; di grande effetto e partecipazione è l’opera di Pellizza da Volpedo, La Processione, primo quadro divisionista dove è evidente la sostituzione a colori mescolati di colori divisi per un forte effetto visivo e maggiore vibrazione della luce; per la composizione generale è immediato il riferimento a Il Quarto stato (tela sociopolitica di Pellizza da Volpedo). L’opera di Emilio Longoni, Riflessioni di un affamato, uscita su rivista e immediatamente ritirata perché considerata scandalosa, ritrae un celebre caffè di Milano dove una coppia elegante e raffinata consuma un ricco pranzo ignorando completamente il povero affamato che li osserva da fuori; accostando ceti sociali estremamente diversi e denunciando le disuguaglianze economiche in modo così netto, l’artista suscitò subito scandalo. Anche il mondo della notte, con i suoi personaggi, musicisti e luoghi di intrattenimento, ballerine e avventori, diventa soggetto interessante dell’arte, come dimostra l’opera di Giovanni Boldini, La cantante mondana, evidente il riferimento a Degas con il quale Boldini frequentò la Parigi notturna e i suoi protagonisti. Concludiamo con l’opera di Federico Zandomeneghi, A teatro; quattro donne elegantissime, in posizione diversa, si trovano in un palco, due esterne in luce, una rosa e l’altra in bianco, le altre più in penombra. L’opera, perfettamente strutturata, rappresenta un evento mondano, il tempo passato in modo piacevole; la raffinatezza della composizione mostra un palco che diventa luogo per mettersi in mostra e per mettere in mostra la ricchezza e la bellezza, il palco diventa palcoscenico.
di Simona Priami
FIRENZE. Il visitatore entra in Palazzo Strozzi e rimane subito colpito dall’imponente Caduta dell’Angelo di Anselm Kiefer, in una cornice rinascimentale a cui si amalgama perfettamente l’opera monumentale dell’artista tedesco, nato nel 1945 in una cittadina della foresta nera, cresciuto in un’epoca in cui la Germania, distrutta, doveva confrontarsi con gli orrori del Nazismo. Quando Dio creò il mondo, l’angelo ribelle andò contro Dio perché voleva essere lui il Creatore di tutte le cose. Questo antagonismo, questa insurrezione degli angeli - Dio ha creato il demonio oppure c’è stata un’insurrezione? - Questi interrogativi, come i contrasti tra gli opposti, Angeli e Demoni, Luce e Ombra, Antico e Moderno, sono alla base della filosofia della mostra (aperta fino al prossimo 21 luglio) di Anselm Kiefer. L’opera della prima sala Lucifer (2012 - 2023) mette subito in evidenza questo ossimoro, come la monumentalità delle opere, l’uso dell’oro e dei vari materiali, spesso riciclati. Un’ala di aereo, minacciosa e scura, esce dall’enorme dipinto, ricordando gli orrori della guerra; Lucifero precipita, gli angeli ribelli sono figure scure bruciate. Le ali ricordano il famoso Icaro, ricorrente nell’arte, personaggio mitologico che sfida il pericolo, sfida gli Dei, vuole andare oltre, ha coraggio, fascino, è curioso, ma capitola, muore; ribelle come l’angelo, ma capitola, crolla, soccombe davanti alla potenza del divino offeso. Dall’inferno al paradiso, nella seconda sala, la luce esplode, l’imperatore Eliogabalo sfida le norme per il monoteismo, per il Dio solare, presente ancora il contrasto tra gli opposti maschio - femmina, Sole - Luna; in Helegabale 2023 i girasoli esplodono, neri ma messi in evidenza dal potente e luminoso fondo oro, un serpente tentatore si arrampica minaccioso sul gambo di uno di essi, il peccato, l’inferno, si mimetizzano nella luce di questi fiori meravigliosi che ci rimandano immediatamente al maestro Van Gogh ma anche a Eugenio Montale che era affascinato dal mito dei girasoli e dalla luce simbolo del speranza e del paradiso, in contrasto al nero, l’inferno, Lucifero, gli orrori del tempo, il Nazismo. Nella terza sala viene omaggiata la filosofia come materia di studio e formazione; Kiefer amava i presocratici e il pensiero di Socrate che, qui omaggiato, è alla base del suo percorso di crescita. La figura femminile è importante per l’artista a tal punto di affermare la sua superiorità rispetto agli uomini; le donne sono state offese dagli uomini nella storia perché più intelligenti e connesse con la terra e ricorda in un’intervista la grande poetessa Saffo; nell’esposizione le donne sono presenti, sempre nella mitologia, Danae sottile immagine e pioggia d’oro, Cynara che respinge Zeus che, offeso, la trasforma in un carciofo esterno spinoso e cuore tenero. L’artista ha inserito carciofi veri nell’opera, anche questi dorati. Daphne (2008 – 201), vestito da sposa e testa di arbusto, una scultura che ricorda ancora il mito, la ninfa alloro che preferì trasformarsi in pianta piuttosto che cedere a un amore non corrisposto. Conservo praticamente tutto per poterlo usare domani o tra dieci anni nei miei dipinti. Chiamo il mio magazzino arsenale. Quando cammino per l’arsenale a tarda notte, si formano delle connessioni. Dopo una totale immersione con giochi di specchi nel dualismo dell’artista tedesco, luce e buio, materialità e spiritualità, fisicità e infinito, nei suoi colori e materiali, le ultime opere ricordano la storia e la poesia di Salvatore Quasimodo scritta a mano, termina il percorso ricordando la guerra, la caducità della vita, il contrasto vita e morte, sole e tenebre. Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole ed è subito sera
di Simona Priami
PADOVA. Una mostra dedicata a un artista che appartiene a quel gruppo di rari geni, rivoluzionari, beffeggiati dalla critica tradizionalista, figure che nella storia hanno creduto e continuato a credere al loro progetto e alle loro idee, alla novità che rompeva gli schemi. Conosciamo tutti quegli artisti che hanno cambiato il modo di concepire l’arte e di vedere il mondo; si tratta degli Impressionisti, termine coniato in senso dispregiativo quando, precisamente centocinquanta anni fa, il 15 Aprile 1874, il gruppo formato da Monet, Renoir, Degas, Morisot, Pissarro e altri pittori altrettanto importanti, esponevano a Parigi per la prima volta, trasgredendo le regole, andando oltre. Le rivoluzionarie opere degli impressionisti, definite En Plein Air, (cioè: per la prima volta si esce dall’atelier e si lavora all’aria aperta), vennero favorite anche dall’invenzione del tubetto. L’artista doveva portare con sé gli attrezzi del mestiere, tele e colori, doveva inoltre giocare con la luce, cogliere l’attimo da immortalare; le pennellate diventano veloci, a virgola, non esiste il contorno definito, ma sfumato attraverso i colori. La mostra, a Padova, al Centro Altinate San Gaetano (in esposizione fino al prossimo 14 luglio), espone le opere di Claude Monet (Parigi 1840 - Giverny 1926) che erano conservate nel suo atelier, nella casa di famiglia, opere a cui era particolarmente vicino. Emerge così il percorso intimistico del pittore francese; la collezione si amplia anche attraverso regali di altri artisti, soprattutto ritratti. Ci immergiamo in questo cammino nel mondo interiore e di crescita artistica del grande pittore impressionista, iniziando con Claude Monet che legge del 1873 di Pierre-Auguste Renoire, un’opera che ci ricorda il profondo legame di amicizia tra i due che erano talmente in sintonia da dipingere spesso il solito soggetto, l’uno accanto all’altro; Monet viene ora rappresentato in un gesto quotidiano e spontaneo, testimonianza della loro vicinanza fisica e intellettuale. Proseguiamo con opere dedicate alla prima moglie Camille e omaggi ai luoghi d’infanzia in Normandia. La luce è sempre protagonista sulla tela, soprattutto nella rappresentazione dei fenomeni atmosferici, osservati e ricercati costantemente e ovunque. Il nostro ribelle e geniale artista, non incline allo studio in senso tradizionale, amava anche viaggiare. Lo troviamo in Norvegia nel 1895 dove dipinge Il Monte Kolsaas, un paesaggio che lo attraeva molto e dove con attenzione studiò gli effetti della luce sulla neve. Nel 1905 lo troviamo a Londra, dove dipinge il famoso Londra. Il Parlamento riflesso sul Tamigi, opera raffinata e poetica, dalla pennellata già impressionista. Veniamo però alla fondamentale località, luogo di grande ispirazione, Givary, nella valle della Senna. Qui Monet si trasferì nel 1883, successivamente acquistò un casolare e lentamente costruì il suo giardino; qui l’artista ama studiare la natura, piante e fiori, i loro splendidi e misteriosi colori, la luce e i riflessi di questa sull’acqua. Nel 1890 creò vicino al suo casolare uno stagno con ninfee; sulla riva piantò quattro salici piangenti varietà babilonese e la distesa d’acqua prenderà sempre più piede nella sua produzione, diventerà elemento di studio e riflessione. Oltre alla luce sempre protagonista, abbiamo il colore, quasi un’esplosione di toni e sfumature. Il percorso espositivo offre una vasta gamma di Ninfee e altre rappresentazioni di fiori da lui amati Iris, Emerocallidi Daylilies, Malva. Osservando le numerose sfumature di colore delle opere di Monet (verde, azzurro, viola; i riflessi e i giochi dell’acqua) sembra di respirare e odorare i profumi della sua terra, egli stesso la definì meravigliosa aggiungendo sono in estasi. Nel 1905 fa costruire sul ponte giapponese che sovrasta il suo adorato stagno di ninfee, un arco in cui si arrampicava un glicine, pianta che adorava e che dipinse spesso affascinato dalla sua forma e dalle stalattiti multicolori. Nonostante la malattia che lo colpì in età adulta, la cataratta che ha impedito al suo occhio strepitoso di dare il massimo risultato, Monet lavorò fino alla fine, le sue ultime opere, saranno sempre più vicine all’astrattismo, anticipando nuovamente i tempi, il pensiero, le tendenze e le correnti letterarie.
‘Il mio giardino è l’opera d’arte più bella che io abbia mai creato’
di Simona Priami
PISTOIA. Un’immersione nell’immaginario collettivo degli anni Sessanta, del boom economico, delle notizie, della moda, della pubblicità, delle città che crescono, della televisione, delle prime auto, delle novità e modernità nelle case, dei nuovi materiali come la plastica, dei colori sgargianti; è il nuovo mondo descritto in modo critico, ma anche ironico, dalla Pop Art, movimento artistico sicuramente coinvolgente, fine anni Cinquanta, metropolitano, che nasce nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Gli artisti mettono in evidenza i prodotti del consumismo allora in irrefrenabile ascesa, oggetti anche ingigantiti, cibo, corpo, scatolette, manifesti, industrial design, collage, tutto per mostrare i mostruosi meccanismi del consumismo e della massificazione, fenomeno che stava prendendo piede in modo repentino e influenzava tutti gli aspetti della quotidianità. La Pop Art, dopo New York e Los Angeles, si sposta in Europa e nei primi anni sessanta a Roma. Torino, Milano ma anche in piccoli centri, meno importanti, come Pistoia, a Palazzo Buontalenti, per l’esattezza, per la cura di Walter Guadagnini, in esposizione fino al prossimo 14 luglio. La famosa Biennale di Venezia (prima sala) del 1964 è fondamentale incipit della Pop Art in Italia. Così inizia questo percorso artistico, un viaggio nelle principali città italiane caratterizzate da brillante fermento culturale, attraverso settanta opere: Mimmo Rotella con un meraviglioso collage, mostra il presidente americano John Fitzgerald Kennedy con il mito hollywoodiano di Marilyn. Proseguendo nel percorso espositivo si arriva agli artisti della scena romana, La Scuola di Piazza del Popolo, figure legate al famoso Caffè Rosati e alla galleria La Tartaruga; qui espongono Sergio Lombardo, Franco Angeli, Mario Schifano; spicca la bellissima Greta Garbo di Titina Maselli. La terza sala analizza lo Pop Art in relazione ai grandi modelli del passato e la quarta ai nuovi materiali usati, dal plexiglass illuminato, al neon, scovolini da spazzolone in acrilico, stoffa e oggetti quotidiani; sicuramente materiali rivoluzionari, impensabile nel passato che un oggetto di scarto o banale diventasse opera d’arte, come lo sono i colori e le forme; la nuova società colpisce profondamente gli artisti che non riescono a rimanere indifferenti alla realtà circostante fatta di nuove immagini aggressive. Nella sala successiva sono presenti i quattro artisti pistoiesi; Roberto Barni, Umberto Buscioni, Adolfo Natalini e Gianni Ruffi, autore, quest’ultimo, di Mare a Dondolo, opera che colpisce per l’originalità, per i colori accesi, per l’immediato e poetico rimando al cavallo a dondolo e ai cavalloni, al mondo dell’infanzia e al fiabesco, anche se con risvolti misteriosamente pericolosi. Proseguendo, la mostra analizza l’arte povera a Torino e il gruppo milanese con il maestro Michelangelo Pistoletto e i suoi giochi di Specchi, qui presente con Scala. Ricordiamo che Milano città importante e ricca per lo sviluppo e l’industrializzazione, negli anni Sessanta è punto di riferimento artistico e culturale e qui lavorano Lucio Fontana e Enrico Baj. Antonio Fomez entra nell’immaginario collettivo attraverso i noti prodotti di consumo, pubblicità e colori accesi con Viva il Consumo del 1964, una sintesi dove sono messi in contrasto immagini giocose e fanciullesche ad altre più crude e aggressive, il tutto per mettere in evidenza il caos visivo e concettuale dei tempi. Per finire ci si sposta nel sud, a Palermo, per la precisione, realtà che dimostra di essere complessa, ma culturalmente attiva. Figura centrale è l’artista Antonio Titone, musicologo e organizzatore di eventi, interpretazione originale dell’arte pop. La mostra si conclude con l’opera di Andy Warhol che con gli accesi colori delle mucche e fiori segna già una svolta verso i diversi contenuti degli anni Settanta.
di Adriana Casalegno
FIRENZE. Ci sono spazi che aggregano; il Teatro Florida ė tra questi. Siamo a vedere: Spezzato è il cuore della bellezza. Scena essenziale: due pedane, ognuna con un panchetto. Due luoghi per due donne. Alle spalle una tela, la skenè dietro cui cambiare le vesti e cambiare il personaggio. Sulla parete, in fondo, un cuore al neon, colorato, spezzato. Buio, rumore di tacchi pesante. Luce, Serena Balivo ė seduta a sinistra, indossa un cappotto e stivaletti scuri. Una donna trascurata, ancora combattiva. La voce rauca, il volto teso, quasi deformato per il dolore. Inizia il racconto con le parole dell'uomo: Nontiamopiù, così mi ha detto, tutto attaccato, un'unica parola. Gli illogici discorsi di Lui portano alla domanda: c’è un'altra? Dal tradimento prendono vita pensieri, comportamenti che ci verranno detti e verrano agiti con una capace fisicità. Quando la donna esce entra Lui, deforme, in una maschera grottesca. Movimenti impacciati, ambigui. Tra i due luoghi di scena fa dondolare una grande valigia. L'uomo, interpretato da Erica Galante, continuerà ad essere l'intermezzo tra le due donne, la tradita e la nuova primavera, entrambe interpretate dalla brava, convincente, Serena Balivo. L'uomo lascia la scena e dalla skenè entra in scena l'altra Serena Balivo, chiara, ridente, con le manine affusolate all'infuori, danza e saltella. Con voce squillante e suadente, abbandonata la grevità della tradita, in altro timbro, in altro tono, pone il nuovo racconto: Ti amo, mi ha detto all'improvviso. E via e via con l'amore nel Simposio, con il Destino quale grande bellezza, con Zeus che taglia l'essere umano in due, con la definizione di sé: io non sono la cretina... sono l'innamoramento'. Il testo di Mariano Dammacco, (premio UBU come Miglior nuovo testo italiano/scrittura drammaturgia 2020-2021) tratta sentimenti, emozioni dell'enorme spettro dell'amore anche con ironia e, mentre assonano in noi momenti delle nostre relazioni affettive, riusciamo a sorridere, anzi, ridiamo e forse curiamo ferite. Non si parla di Amore Felice, come scriveva Wislawa Szymborska: Un amore felice. È normale? È serio? È utile? Che se ne fa il mondo di due esseri che non vedono il mondo? Si parla, piuttosto, di una relazione lunga in cui tanto è stato dato, da Lei. È Lei che racconta di aver messo tutto in un grosso e lucido sacco nero, i regali, la foto incorniciata. Di aver gettato anche le labbra, gli occhi che hanno amato e sono stati amati. Siamo testimoni di una, due relazioni che finiscono nella gelosia, nell'errore/orrore, nell'odio d'amore. E forse questa fine è salvifica. Sta a noi decidere. Scrosciano gli applausi. Divertimento intelligente assicurato.
di Simona Priami
PISA. Sarà esposta fino al 7 Aprile del 2024, al Palazzo Blu di Pisa, la mostra Capolavori delle Avanguardie del Novecento, dipinti e sculture provenienti dal Philadelphia Museum of Art a cura di Mattehew Affron, con la consulenza scientifica dello storico dell’arte Stefano Zuffi. Si tratta di un percorso nella storia, una linea del tempo che vede opere dei maggiori rappresentanti dell’arte dai primi del Novecento al 1940: Chagall, Dalì, Duchamp, Kandinsky, Mirò, Picasso, Matisse, Mondrian, Klee, Gris, Ernest. Una galleria nella quale vengono messi in evidenza fondamentali momenti storici e artistici del Secolo Breve e che consente allo spettatore di immergersi nel percorso anche attraverso eccellenti installazioni visive, sonore, multimediali che spaziano dalla Belle Epoque allo scoppio della seconda guerra mondiale. La mostra inizia con l’Autoritratto con tavolozza di Picasso del 1906 ed è l’opera dell’artista che sarà il protagonista del secolo, nonostante allora fosse appena venticinquenne; una rappresentanza con attenti, ipnotici, occhi ovoidali, la posa e l’assenza di pennello mettono in evidenza la concentrazione e il pensiero creativo rispetto alla manualità. Picasso cubista è presente con Uomo con Violino 1911 - 1912 olio su tela; il cubismo irrompe anche con Georges Braque con Cesta di pesci; supera invece la scomposizione cubista Marcel Duchamp con Macinatrice di cioccolato, opera appartenente alle readymades, oggetti di fabbricazione industriale (orinatoi, ruote di bicicletta, scolabottiglie) esposti come opere d’arte in modo estremamente provocatorio. Opera simbolo della mostra è Cerchi in un cerchio di Vasilij Kandinskij, 1923, olio su tela, un grande cerchio nero racchiude 26 cerchi più piccoli di colore e dimensioni diverse, due fasci colorati attraversano il quadro, opera che rappresenta una perfetta costruzione armonica, elegante e di estrema raffinatezza. Presente anche il ritorno al fiabesco e al mitologico con Marie Laurencin, nel suo Leda e il cigno del 1923, olio su tela; la regina di Sparta accarezza il dorso e le ali del cigno che compie un elegante gesto curvando il collo. Il quadro mostra estrema dolcezza nelle pose delicate. In Cane che abbaia alla luna 1926, olio su tela, di Joan Mirò, è immediata la sensazione del desiderio per ciò che sfugge, quello che è sfuggente ha sempre fascino, è attraente perché misterioso ed è proprio il mistero che domina in questo capolavoro; l’opera è anche velatamente ironica, il cane ricorda Mussolini. Il Prestigiatore di Paul Klee del 1927 colpisce per i colori accesi, il tema del gioco, della magia, le sfumature portano lo spettatore a evadere e volare con l’immaginazione; di questo famoso pittore troviamo anche Ma il tetto rosso del 1935. Pittura (Fratellini) di Joan Mirò del 1927 rappresenta un mondo circense che fluttua nel blu, il colore della luce e dello spazio, una realtà onirica poetica, irreale e misteriosa; Mirò, come tanti altri artisti, prese spunto dal mondo clownesco; qui, molto probabilmente, si riferisce ai famosi clown Albert, Paul, Francois Fratellini che si esibivano a Parigi negli anni venti. Nel 1930 si sviluppa il Surrealismo, movimento che analizza l’inconscio e il suo modo di comunicare. Le premesse sono di Duchamp, ma tra gli artisti, oltre Mirò, abbiamo Dalì (Simbolo Agnostico, 1932) e anche lo stesso Picasso, che qui è presente con Bagnante, 1928. Il percorso termina con La Crocifissione del 1940 di Marc Chagal, un’opera dai toni scuri e cupi, simbolica e suggestiva, che ricorda la condizione degli ebrei che vivevano in Europa durante il Nazismo, a dimostrazione, l’ennesima, di come l’arte interpreti puntualmente la storia.
di Simona Priami
VIAREGGIO (LU). Sappiamo tutti che la vita è fatta, come diceva Umberto Saba, anche di cose leggere e vaganti, di fantasia e trasgressione, di momenti voluttuosi e effimeri; esiste un aspetto allegro e colorato, fatto di feste, magia, fate e folletti, maschere e momenti di evasione. Tutto questo groviglio di emozioni possiamo percepirlo profondamente nella prima parte del nostro percorso (la mostra resterà aperta al pubblico fino al prossimo 15 ottobre), dove sono esposte le opere vincitrici del premio Carnevalotto, nato nel 1987 per omaggiare gli artisti che si sono maggiormente distinti nell’interpretazione del famoso carnevale. Tra i principali, scelti per questo prestigioso riconoscimento ricordiamo Giò Pomodoro, Giosetta Fioroni, Piero Dorazio, Pietro Cascella, Igor Mitoraj, Antonio Possenti. Salendo al secondo piano, il Gamc offre al visitatore la Collezione Giovanni e Vera Pieraccini dove è possibile vedere tutte le opere che il Parlamentare della Repubblica ha raccolto in tutta la sua vita. La sua passione per l’arte è confermata dal percorso che vede nomi quali Giorgio De Chirico, Gino Severini, Juan Mirò, Afro, Paul Delvaux, Alberto Burri, Enrico Baj, Pablo Picasso, Giò Pomodoro, ricordiamo inoltre che la collezione vanta una quantità elevata di opere, più di duemila. Su quella duna il poeta giura che, ritornando, riconoscerà lo stampo del suo tallone, parole di Lorenzo Viani (1882 - 1936), famoso artista espressionista viareggino, su Gabriele D’Annunzio (1863 - 1938) uno dei principali poeti del ‘900, autore inoltre di romanzi, racconti, opere teatrali. Con tale citazione arriviamo alla mostra attualmente in corso nel famoso complesso viareggino, un doppio lavoro che vede Gabriele D’Annunzio a Viareggio e Lorenzo Viani al Vittoriale degli italiani per mettere in evidenza le due personalità complesse, tormentate, curiose e amanti della vita e della realtà, in un periodo storico innovativo e tempestoso. I due famosi personaggi, lo scrittore e l’artista, si ammiravano, erano amici, fu un felice e produttivo incontro. D’Annunzio amava moltissimo la Versilia dove soggiornò con la sua musa, l’attrice Eleonora Duse. La Versilia, nella sua nuda purezza, fu fonte di ispirazione; a questo proposito ricordiamo la sua più importante raccolta, Alcyone, con la famosissima Pioggia nel Pineto, il panico metamorfico abbraccio dei due amanti nella famosa pineta versiliese. Siamo in un territorio puro che allora vedeva i primi turisti e i lavoratori, contadini e pescatori, vincolati a una dura realtà che va dal porto alle cave. Il 14 Luglio 1907 un importante avvenimento segna la Versilia: l’esplosione del Promethee, un nuovo esplosivo per squarciare un monte apuano. Il tutto aveva come obiettivo aprire una nuova cava. Gabriele D’Annunzio doveva accendere la miccia, un invidiatissimo incarico prestigioso che doveva essere effettuato nella celeberrima cerimonia che vedeva presenti tutte le massime celebrità del tempo, prefetti, scultori, pittori, cavalieri, commendatori e chiaramente il grande Lorenzo Viani. Qui inizia la conoscenza e la reciproca ammirazione tra i due artisti di cui la mostra vuole omaggiare la personalità e l’impronta che hanno lasciato nel secolo breve. Il visitatore si immerge così nelle opere di Viani, dipinti e xilografie, negli appunti di Gabriele, in tutti i suoi amati oggetti; vengono esposti i suoi abiti, le scarpe e gli stivali, le foto, i profumi che il poeta stesso produceva con le caratteristiche ampolle. La mostra ripercorre così i punti fondamentali della vita del poeta, dalla quotidianità al volo su Vienna. Gabriele D’Annunzio, amante della bellezza, ne ha fatto una ragione di vita; venne definito spesso camaleonte in cui l’aspetto diventava sostanza.
di Simona Priami
CARRARA (MS). Destini artistici che si incrociano a Carrara nel Novecento, un mondo in continuo e veloce fermento: la cultura marinara della Versilia, il mondo misterioso e magico della Lunigiana, l’amore per la materia che si plasma, ma anche il ritorno alla classicità. Tutto questo, ma anche molto altro, alla mostra del Novecento a Carrara, collettiva di numerosissimi artisti, in esposizione, a Palazzo Cucchiari, fino al prossimo 29 Ottobre. Riviste, incontri, scambi di opinioni, laboratori, scuole e accademie hanno caratterizzato questo territorio tra le due guerre; protagonista rimane l’ambiente con le Apuane, il mare, il marmo; eppoi i lavoratori e le lavoratrici, forti e fieri proprio come il marmo. Un mondo stimolante e fecondo in cui ogni artista ha dato il suo contributo, la sua interpretazione, il suo tocco magico, realistico, intenso, informale, rivisitando il classico, riproducendo o abbandonando il figurativo. Percorsi dei maestri indigeni o forestieri, ricerche soggettive che si intrecciano, entrando a far parte del panorama culturale e artistico del secolo; fa da sfondo lo sviluppo storico e sociale della realtà tra Carrara e la regione Apuana. La mostra, ricchissima e variegata di stili e correnti, offre nelle splendide sale perfettamente illuminate di Palazzo Cucchiari, un percorso intenso e costruttivo in cui il visitatore si immerge nella lunga storia del marmo e dell’arte carrarese. Forti e fieri come il marmo e come Farinata degli Uberti di Carlo Fontana (marmo 185x105x92), 1901 – 1903, opera simbolo e di introduzione al percorso espositivo. Il famoso personaggio dantesco condannato a pena eterna all’Inferno come eretico, colui che si erge con sguardo orgoglioso e superbo com’avesse l’inferno a gran dispitto, come se non temesse l’inferno, viene perfettamente rappresentato da Carlo Fontana nel momento in cui Virgilio, il mentore, dice al visitatore Dante: Volgiti! Che fai? Vedi là Farinata che s’è dritto: da la cintola in su tutto il vedrai. Tra le tombe della Città di Dite, dal suo sepolcro, si erge deciso, curioso e sprezzante del luogo, il dannato e cerca chi è il Tosco che ha parlato; l’artista carrarese emoziona mescolando nello sguardo del peccatore coraggio, curiosità, fierezza, perspicacia e orgoglio, e nella perfetta fisicità, forza e bellezza, riprendendo così in parte l’arte classica. Sempre del famoso artista carrarese è esposto anche il toccante Dixeredatus, 1887, marmo bianco, 98x50x60, il bagascio, il bambino lavoratore, tenero sguardo assente, nel vuoto; il puer sofferente e stanco viene ritratto in un breve momento di riposo dal caldo, dalle fatiche, dalla sua vita difficile e disumana. Il dipinto La fiera: tre palle e un soldo (72x104) del famoso artista viareggino Lorenzo Viani, è un olio su cartone caratterizzato da forti colori espressionisti, le figure si presentano come maschere inquietanti e inespressive, i volti sono deformati dai contorni irregolari e dai colori forti; Viani dimostra così la modernità della sua opera nel vasto e complesso panorama novecentesco. Altro artista di spicco è Leonardo Bistolfi che, nutrito di spiritualità e simbolismo, famoso per le sue opere magniloquenti e per i numerosi monumenti pubblici e funebri, in questa collettiva spicca per La Sfinge del 1892, un marmo bianco 78x66x68, un liberty che risente della monumentalità antica. Sergio Vatteroni, amico e collaboratore di Fontana, esperto nella pittura e incisione, a Carrara si perfeziona in paesaggi; qui, con Al Torrione, le cave sono descritte con stile impressionista, domina il paesaggio grazie all’eccelsa scelta dei colori. Sempre di Carlo Fontana è La Biga, un bronzo 68x48x87, riprendendo il Fedro di Platone, l’auriga rappresenta la Ragione che guida il cocchio verso l’alto, i due cavalli simboleggiano l’anima spirituale e l’anima materiale, in contrasto e in opposizione tra loro, proprio come il bianco e il nero. Il percorso che si sviluppa su due piani propone l’opera di Libero Andreotti, Donna con i sandali, mettendo in luce il contrasto bianco e nero, le due giovinette sono nude e pensose, un bronzo 126x28x33 proveniente dagli Uffizi e un gesso 125x38x26. Del 1926 è Le Lavandaie di Domenico Cucchiari, l’olio 173x135 mostra la vita popolana carrarese; si tratta di luoghi facilmente riconoscibili in cui le donne impegnate nel lavoro, e il paesaggio, offrono un clima magico e solenne anche per la raffinata semplicità della pennellata. Nel dipinto postmacchiaiolo Tramonto alle cave di Giulio Marchetti, olio 145x207, i lavoratori sono piccoli e di spalle, domina il paesaggio maestoso, imponente e quasi fiabesco, grazie ai suoi colori magici. Non possiamo certo soffermarci su tutti i gioielli di questa stupenda collettiva, ma ricordiamo che l’intento della mostra è ricordare a livello internazionale l’importanza della civiltà del marmo e valorizzarne gli aspetti artistici, obiettivo perfettamente raggiunto.
PISTOIA. Il Circo, per fortuna, non esiste più. Luogo sacro, beninteso, ma quella rassegna coatta di fiere costrette a esibirsi per suscitare un unico gigantesco ohohohoho, è stato quasi del tutto abolito. I clown, però, gli acrobati, i prestigiatori, senza dimenticare i musicisti, e tutto ciò che produce insindacabile ammirazione da parte di chiunque, quelli vanno protetti, diamine. Tre di loro, al secolo Nuova Barberia Carloni, li abbiamo visti ieri sera al Piccolo Teatro Bolognini, in una platea gremita di bambini, purtroppo accompagnati dai rispettivi genitori, molti dei quali, mentre sibilavano shshshsh ai propri pargoli per farli tacere, controllavano, a ingiustificabili ritmi compulsivi, i propri telefonini, pensando, chissà, che l’irritante schermo luminoso azionato dai genitori risulti meno fastidioso dell’innocentissima voce dei figli. Ma Leonardo Adorni, Jacopo Maria Bianchini e Alessandro Mori, i tre aspiranti Figaro, essendo abituati a intrattenere un pubblico più piccolo, agli schiamazzi e ai contrattempi fonici e luminosi della sala sono necessariamente abituati e il loro spettacolo, un acrobatico, musicale, spiritosissimo puro impeccabile intrattenimento, non ne ha minimamente risentito.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Accogliendoci all’ingresso del Funaro il viaggio verso una terra sconosciuta e lontana inizia prima ancora di sedersi. La sala è scura e fumosa, sembra anche più piccola del solito. Qualcuno a passo di lumaca coordina la fila: ci sono istruzioni da seguire. E così con le cuffie ben calcate sulla testa sembriamo tante piccole lucciole che, fra l’incuriosito e lo stranito, attendono lo sferragliare della carrozza che ci contiene. Come se non fosse abbastanza, l’oscurità, quindi, si fa ancora più scura e l’immagine di una città lontana avvampa nelle nostre iridi già ampiamente abituate al buio; è la voce di Sara Bevilacqua quella che ci accompagna nel labirinto di eventi che sconquasserà la serena e lucida routine del villaggio di Hamelin, come se quella luce che la irradia sia l’unica forza contro le incalzanti tenebre che la avvolgono tutto intorno. È il racconto che si fa reportage tipico di Chi l’ha visto? che viene dal C’era una volta, di un evento non ancora risolto che tra trascrizioni e passaggi orali si perde nella notte dei tempi fondendosi fra realtà e fantasia, tra finzione e scherno, tra il gioco e la verità. Toccherà a Fabio Tinella con la regia di Tonio de Nitto rischiarare quel buio paralizzante. E lo faranno con grazia e delicatezza, utilizzando piani e generi diversi che alle volte poco si accorderanno nella totalità dell’opera; l’atmosfera però è magica, l’ampio buio e solo due luci calde agli angoli del palco rendono il menestrello Fabio Tinella personaggio onirico strappato via dalla fiaba dei fratelli Grimm: il pifferaio magico in carne e ossa.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Tra le varie definizioni che si possono trovare, la danza viene spesso descritta, con un sentore di severità, come una disciplina che si esprime nel movimento secondo un piano ben prestabilito. E per quanto questo sia indissolubilmente e indistruttibilmente vero, ci piace però pensare che, nonostante, sia pervasa da una combinazione magica di aria e fuoco, fantasia e passione che, per antonomasia, difficilmente si possono imbrigliare in un ferreo schema. E così come a tanti bambini, che prima di andare a letto viene raccontata una fiaba, anche noi, pubblico del Teatro Manzoni di Pistoia, siamo stati coccolati da una narrazione classica e follemente sorprendente. Nell’affondare con sempre maggior comodità nelle poltrone di velluto la voce preregistrata che raccomanda un approccio rispettoso all’arte, silenzia in modo non omogeneo il pubblico; la chiacchierata attesa prima che la musica inizi, prima che lo spazio e il tempo comincino ad assumere una forma infinita ed indefinita e perciò ad avvolgerci completamente. La regia di Jiri Bubenicek ci presenta Cenerentola, balletto in un atto per quattordici danzatori che sfileranno e ci appassioneranno stuzzicandoci nell’atipicità di un grande classico che si sposa perfettamente con l’aria natalizia sempre più incalzante.
di Simona Priami
PISA. Nello splendido Palazzo Blu, collocato sul lungarno pisano, sono in mostra (fino al prossimo 26 febbraio) centotrenta opere - molte delle quali provenienti da collezioni private -, di grandi artisti attivi nella seconda metà dell’Ottocento, principalmente toscani. Al famoso caffè Michelangiolo in via Larga, attualmente via Cavour, a Firenze, si ritrovavano pensatori e intellettuali ribelli e alternativi. Qui fanno il loro ingresso alcuni artisti definiti da loro stessi progressisti, i quali hanno il principale obiettivo di prendere le distanze e superare l’Accademia di Belle Arti da cui si sono formati. L’arte richiede in questo periodo storico libertà di espressione, desiderio di svincolarsi da canoni prestabiliti, non più passato, mitologia, arcaismi, ma l’occhio dell’artista ora guarda e ritrae la realtà che lo circonda, i paesaggi, la campagna, i gesti semplici delle lavoratrici e lavoratori, la quotidianità e la spontaneità del momento; si tratta di arte sociale e democratica, forte e fervente di vita. Questi pittori, liberali e patrioti, interpreti di una forte ansia di rinnovamento, pervasi dei valori di unità nazionale, sono i Macchiaioli: Telemaco Signorini, Serafino De Tivoli, Raffaello Sernesi, Adriano Cecioni, Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Vincenzo Cabianca e molti altri. Dopo un iniziale excursus sugli artisti del famoso caffè, la mostra pone particolare attenzione al rapporto del pittore con la natura, ancora selvaggia e incontaminata, ma anche oggetto di lavoro e sostentamento di famiglie contadine in una Toscana ancora quasi totalmente agreste.
di Simona Priami
CARRARA. I nostri e i vostri sguardi non sapranno metabolizzare e produrre quello che avrete l’opportunità di vedere fino alla fine di ottobre a Palazzo Cucchiari, a Carrara. Anche per questo, non foss’altro per mettere a nudo i nostri limiti e dare un senso all’altrui magnificenza, è opportuno e doveroso che, indigeni e vacanzieri della zona, troviate il tempo per visitarla la mostra, curata dal professor Massimo Bertozzi, di pittura e scultura. Il tema, non preoccupatevi, è proprio il mare: nessuna distrazione, resterete sintonizzati. L’elegante e sontuoso palazzo Cucchiari, collocato nel cuore della città di Carrara, tra le Apuane e la costa, offre un eccellente percorso espositivo, perfettamente organizzato e illuminato, diviso in sei sezioni; il tema principale – non stavamo bluffando - è il mare e tutto quello che ha suscitato questo grande serbatoio di sentimenti, riflessioni, idee, passioni, viaggi, emozioni; il mare anche come realtà tangibile, fonte di lavoro, da bonificare per poi averne i frutti. Sono presenti i principali artisti dell’Ottocento e del Novecento, in modo particolare quelli vicini alla realtà locale, coloro che hanno interagito felicemente con quella costa che da Viareggio arriva alla Liguria. La rassegna propone dipinti e sculture di artisti appartenenti a varie scuole e correnti, dai Macchiaioli, ai Simbolisti, ai Divisionisti, fino alle Avanguardie e ritorno all’ordine.
di Simona Priami
PISTOIA. Entrando nella sala espositiva in Palazzo dei Vescovi, a Pistoia, La Venere degli stracci appare illuminata dalla luce esterna proveniente dalle tre finestre che danno sulla medievale piazza del Duomo; il contrasto, di cui Pistoletto è esperto sperimentatore, viene messo così in particolare evidenza. Il confronto tra concetti contrapposti - antico/moderno, prezioso/senza valore, bellezza/rifiuto, storico/contemporaneo -, appare subito agli occhi del visitatore che si trova davanti tre idee storico-letterarie diverse: medievale, contemporaneo, classico, tre stratificazioni diverse per idea, disegno, colori. La Venere degli stracci, realizzata nel 1967, è opera basilare dell’Arte Povera di cui Pistoletto è protagonista; la scultura che richiama Afrodite di Prassitene, opera del 360 a.c. andata persa, sorregge gli stracci multiformi e colorati; non si vede il suo volto, ma solo la parte posteriore del corpo, suscitando immediatamente curiosità, ironia, senso di modernità e riflessione. Gli stracci posti in modo scomposto, ma come struttura simile a un igloo, rimandano al consumismo, ai rifiuti, all’oggetto usato, all’arte povera; fanno pensare all’emarginazione sociale, ai profughi e alle baraccopoli; i colori, il disordine, l’asimmetria, l’ironia, l’eccesso, ricordano la Pop Art. La Venere, nel nostro immaginario, è l’idea classica di bellezza eterna, armonia, simmetria, monocromatica, chiara e lucente.
di Simona Priami
PISTOIA. In Fabula presenta, collocati in nove sale, dieci quadri restaurati appartenenti alla collezione del Seicento fiorentino, per la precisione quarantacinque opere che il celebre poeta, saggista, docente e studioso Piero Bigongiari (Pisa 1914 – Firenze 1997) aveva riunito nella sua abitazione fiorentina in circa quarant’anni. La mostra è curata da Monica Preti e Alessio Bertini, con la consulenza letteraria di Paolo Fabrizio Iacuzzi. L’esposizione offre vari spunti di riflessione, si adatta a laboratori per studenti e presenta foto e testimonianze del Novecento. Vuole inoltre, seguendo un percorso intrapreso dallo stesso Bigongiari nei suoi famosi saggi e dalla professoressa Mina Gregori, rivalutare l’arte del Seicento ingiustamente considerata un tramonto del Rinascimento e rivederla nella sua raffinata eleganza e capacità di seduzione. Le opere sono ricche di scene bibliche, favole, miti, eroi ed eroine della storia antica; i personaggi, quasi tutti femminili, vengono rappresentati in scene drammatiche, colti nella loro tragedia, immortalati in momenti fondamentali. Presentano forte espressività nel volto e comunicano intensità di sentimenti attraverso gesti teatrali e sensuali. Ricordiamo inoltre che il Seicento è stato un secolo difficile e tormentato, fatto di grandi artisti, ma scenario di sanguinose guerre ed epidemie; il secolo della Controriforma, ma anche del teatro di Shakespeare, del Barocco, di Caravaggio e Artemisia Gentileschi.
di Lisa Pugliese
PISTOIA. Nella cornice de Lo Spazio, curata libreria del centro storico di Pistoia, Alessandro Ceni dà voce a un verbo apparentemente antico, passato, che nella mia fervida fantasia immagino impresso a mano in una vecchia lettera ingiallita, sbucata fuori da una valigia abbandonata in soffitta. Ci pensano le immagini a riportarmi velocemente alla realtà; esposte per la prima volta nel 2015 presso la Galleria Vannucci dall'autore, Claudio Frosini, sembrano non aver sofferto affatto il trascorrere degli anni, complice un bianco e nero che fa da solvente al tempo che passa. Le foto che danno un volto alla parola dell'autore, lo raccontano impegnato a scrivere a mano i suoi versi su drappi di iuta nuda verniciata bianca, che oggi ci osservano dai muri della libreria con un fare quasi joyciano, come definito dallo stesso fotografo. Nella valle dello Scesta è una poesia cruda, a tratti caustica, dove il femminile benevolo si alterna al maschile bellico: ogni volta che il narratore si interrompe, come poesia vuole, il lettore rimane sospeso nell'attesa di conoscere come prosegue la storia, sullo sfondo di una natura protagonista e pertanto personificata, oserei dire antropomorfizzata.
PISTOIA. Ognuno di loro si è presentato alla Galleria Me Vannucci portandosi dietro il proprio trascorso, fatto di sogni, accidenti, applausi e contrattempi, condivisioni e incomprensioni. Poi però, quando scegli di (con)dividere, occorre dare il meglio di sé cercando, contemporaneamente e soprattutto, di essere funzionale alla causa collettiva. Ma c’è relazione, almeno una, tra le gigantografie che tappezzano le pareti del capannone industriale di via Gorizia, a Pistoia, di Paolo Fabiani, il suono del sax, tra funerei presagi, parti cesarei, sottofondo spirituale e epilogo mediterraneo di Dimitri Grechi Espinoza e l’elasticità, del corpo e delle mani, come una fionda, o un vecchio flipper, della danzattirice Luisa Cortesi, tutto codificato sotto la voce Respiro? Oggettivamente, no. Anzi, sì. Ed è su questo stridente dualismo triangolare, magicamente bilanciato seppur da distanze siderali (zenit, nadir e un’estremità equatoriale, a ovest o a est), che si è consumata la presentazione di vasi-canopi (bombs), del geroglificologo Paolo Fabiani, supportato, fino a totale dissolvimento, dall’esibizione (anche se performance fa più figo) dell’incontro acustico/fisico tra Dimitri e Luisa. Le origini russe del 56enne musicista avrebbero potuto anche implementare la serata con risvolti forzatamente politici; per fortuna, ma forse per semplice ignoranza dei presenti, l’aspetto sovietico è stato del tutto ignorato e i presenti si sono potuti concentrare sul triplice aspetto artistico dell’evento: i disegni sparati come cannoni, il suono cieco del sax e le interpretazioni dei primi e del secondo immagazzinate dai muscoli dell’ancella, che oltre a giare colme di speranza si è portata sulle spalle anche il peso della traduzione.
di Simona Priami
BOLOGNA. C’è tempo fino al 13 marzo per visitare a Palazzo Albergati, a Bologna, Lo sguardo nell’anima, la splendida mostra dedicata a Giovanni Boldini e i suoi contemporanei. Il maestro ferrarese rappresenta un modello di eleganza e originalità, un punto di riferimento per l’arte tra ‘800 e inizi del ‘900. Riconosciuto dalla critica solo successivamente, Boldini eccelle nella ritrattistica, soprattutto femminile, ed è celebre per la sua innovativa pennellata anticipatrice del futurismo e capace di comunicare un senso di movimento e di dinamicità. La mostra propone opere fondamentali nel percorso formativo dell’artista e riesce a dare una visione globale della sua complessa biografia, soffermandosi nei punti salienti quali i viaggi, gli spostamenti e gli incontri importanti. Lo spettatore si immerge anche nel fantastico, luminoso e lussureggiante mondo della Belle Epoque, periodo ricchissimo di idee e fermenti culturali. Giovanni Boldini va a vivere a Firenze nel 1864 e qui entra in contatto con i Macchiaioli; nel 1871, dopo numerosi soggiorni tra Ferrara, Francia e Inghilterra, si trasferisce definitivamente a Parigi, dove vive a nel quartiere di Pigalle, con Berthe, modella e amante, musa ispiratrice, figura fondamentale per il suo percorso artistico.
di Sura Bizzarri
FIRENZE. Mica sono un critico d’arte, io. Ma sono una criticona, perché sono curiosa; mi piace vedere, esplorare, provare a capire, lasciarmi mangiare dalle immagini e poi farmi rigettare fuori. Ma oggi non son proprio riuscita a criticare, perché non ce ne è stato il motivo. Firenze è ancora scintillante, ma senza la frenesia degli acquisti, nonostante il periodo dei saldi. Anzi, i commercianti hanno un po’ il viso lungo; li capisco, il momento non è dei migliori. Il cielo basso e velato dalle nubi, il freddo della città col sole ostacolato dalle costruzioni, nelle vie strette. Il percorso per arrivare alla mostra multimediale disseminato di sguardi ai ricordi di studentessa (e non solo) e leggermente zigzagato per commemorare i percorsi abituali. Poi via, alla Cattedrale dell’Immagine, nella chiesa sconsacrata di Santo Stefano al Ponte, subito prima di Ponte Vecchio, che alle 18 la mostra multimediale chiude. Multimediale, perché mica ci sono i quadri originali di Dalì. Macché! L’intera mostra è una libera reinterpretazione dell’opera di quel mattarello di Salvador, il pittore, fotografo, modaiolo, l’icona del secolo scorso. Nella prima stanza le informazioni sulla vita e le opere dell’artista, con cartelli e filmati in loop, alcune stampe e il lavoro di Dalì per illustrare la Divina Commedia. Poi si apre una tenda e si entra nel paese dei balocchi.
di Simona Priami
VIAREGGIO (LU). Due meravigliose sculture, imponenti e mastodontiche, sono state poste a Viareggio, sulla spiaggia, in contatto diretto con la sabbia, all’altezza di piazza Mazzini, davanti al Belvedere delle Maschere; si tratta dell’esposizione Il Tempo degli Dei, due opere dell’artista polacco, Igor Mitoraj, molto legato alla Versilia, deceduto nel 2014. Venendo dalla passeggiata, l’emozione è veramente forte, la mostra a cielo aperto propone le due bronzee e imponenti statue dalle proporzioni perfette, armoniose e misteriose, antiche e moderne nello stesso momento, delicate ma titaniche, leggermente melanconiche anche per la cangiante sfumatura blu.Con lo sfondo del mare capace di regalare giochi di luce e colori che cambiano ad ogni ora del giorno, le due opere attirano l’attenzione dei passanti per la loro colossale presenza, ma suscitano anche il senso dell’indecifrabile, come se volessero regalare segreti ancestrali, messaggi antichi ed ermetici; per la precisione si chiamano Ikaro Blu e Ikaria Grande, un maschio e una femmina, anche se entrambe presentano caratteristiche androginiche, come spesso succedeva nell’arte ellenistica.
di Simona Priami
PISA. Siamo nel 1987. Un giovane, che studia a Pisa, amante dell’arte, in modo particolare della Pop Art, si trova con il padre a New York, il primo incontro di un ragazzo della provincia pisana, con il fascino della Grande Mela; per strada vede un suo idolo, in jeans e scarpe bianche, riconosce il maestro Keith Haring. Il ragazzo è spigliato, sveglio e deciso, si avvicina e gli parla, il maestro lo ascolta, il ragazzo gli propone di fare un’opera permanente a Pisa: hai fatto grandi cose in giro per il mondo, ma in Italia della tua arte c’è poco. Kith Haring è attratto dall’Italia, come tutti i grandi artisti del mondo. Invita il ragazzo nel suo studio il giorno dopo, la proposta gli piace. Successivamente e, grazie a questo incontro, lo Street Artist, icona pop, dichiaratamente gay, realizzerà un murales a Pisa, dietro la chiesa di Sant’Antonio, su una parete del convento: il titolo è Tuttomondo, opera di forte impatto visivo, in contrasto con lo stile della città toscana, ma un contrasto di stili armonioso, attraente e coinvolgente che conferma il genio dell’autore. Partendo da questo incontro, proficuo, ma anche emozionale, fino al 17 Aprile 2022 il Palazzo Blu a Pisa omaggia Keith Haring, con un percorso formativo, cronologico e perfettamente strutturato che va dalle prime opere fino alla produzione degli anni ‘80; centosettanta capolavori che provengono dal Giappone.
di Marcella Anzalone
VENEZIA. Si apre il sipario sull’ultimo fine settimana della 17° Biennale di Architettura che si annovera già come La Biennale più visitata degli ultimi decenni. In scena dal 22 maggio, la Mostra Internazionale di Architettura si è esibita nelle sontuose, decadenti ed emozionali ambientazioni veneziane, plasmando corpi doloranti, forgiando ambienti introspettivi e proiettando avveniristici scenari urbani al limite dell’utopia. Le visioni di nuove entità urbane e sperimentazioni materiche forgiate nelle affascinanti ambientazioni lagunari dialogano sulle più attuali tendenze della ricerca architettonica e urbana Spazio, Inclusività, Coabitazione, Ambiente, Sostenibilità e Resilienza, interpretando la tematica centrale della 17° biennale How will we live together? enucleata dal creatore di questa edizione, l’architetto Hashim Sarkis (dal 2015 Preside della School of Architecture and Planning al Massachusetts Institut of Technology) che così spiega la sua scelta. In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme. Nell’era della Globalizzazione, Digitalizzazione, Emergenza Ambientale e delle nuove, ormai imperative (e talvolta invasive) tematiche della Resilienza e della Inclusività, gli architetti di ogni paese del mondo hanno allestito la risposta progettuale ad un quesito che appare un po’ vago e, a tratti, un po’ debole nel suo intento di delineare una fluida e coerente risposta al complesso scenario attuale. L’interpretazione è variegata. Il retrogusto lascia qualche incertezza.
di Simona Priami
FIRENZE. Negli spazi rinascimentali di Palazzo Strozzi (fino al 30 Gennaio 2022) è allestita la mostra del ribelle, controverso, ma indubbiamente geniale e soprattutto furbo e ricchissimo, Jeff Koons, artista statunitense famoso per il suo stile kitsch, neopop e la sua ironia dissacratoria; una mostra divertente, brillante, elegante, ma anche provocatoria. Nel simmetrico cortile, il visitatore entra subito in contatto visivo con Balloon Monkey, enorme scultura sinuosa e riflettente dal colore quasi innaturale con sfumature dal turchese al blu elettrico; il titolo ricorda ai visitatori che si tratta di un palloncino a forma di scimmia, il palloncino sarà protagonista di altre opere del celebre artista americano, i gonfiabili sono antropomorfi, il colore e la luce danno profondità alle opere; posta simmetricamente al centro, la scultura si presenta mastodontica e in un netto contrasto visivo con la struttura esterna, ma si tratta di un contrasto di stili che suscita immediata attrazione. Sarà proprio la luce, anzi, la lucentezza, come ricorda il titolo, il filo conduttore di tutta questa avvolgente mostra che propone diverse e numerose opere di Koons, provenienti dalle più importanti collezioni e musei del mondo. Entrando nelle sale espositive lo spettatore viene completamente assorbito dalle figure e dalle sculture con superficie esterna lucida e brillante e aziona un rapporto simbiotico con l’opera. L’arte, come dice lo stesso Koons, avviene nella relazione con lo spettatore, nella sua mente; noi abbiamo bisogno della luce come le piante e gli animali e l’energia vitale viene celebrata.
di Chiara Savoi
SIENA. Un luogo speciale, il Santa Maria della Scala, ex Spedale lungo la Via Francigena attraversata dai pellegrini del Medioevo che qui venivano per riposare, rifocillarsi e riacquistare un po’ di energia per continuare il loro lungo viaggio. Dal 1996 è un museo che, tra le altre cose, ospita mostre itineranti di artisti di fama nazionale e internazionale. Fino al 13 ottobre sarà possibile visitare la bellissima personale di Daniele Zacchini, artista senese che, per primo, espone nelle sale di questo prestigioso museo. Sono ventiquattro le opere esposte e l’emozione che trasmettono non si può spiegare a parole. Sono opere che si possono toccare per palpare con mano la quantità enorme di colore che ha usato l’artista e per farsi travolgere dalla voglia di sentirselo addosso tutto quel colore. Viaggio nell’anima, questo è il titolo della mostra, come se fosse il viaggio dei suoi viaggi, della vita vera: Quando viaggio, spesso mi fermo a guardare, i miei familiari mi prendono in giro perché sembro isolarmi ma io non mi isolo, mi faccio travolgere dalle persone, dagli odori e dalle sensazioni che le persone intorno mi trasmettono. Perché Zacchini ha iniziato a dipingere? Perché vorrebbe che guardando i suoi quadri la gente si fermasse a vivere l’attimo, a riflettere: aspetta un attimo; ma io sto vivendo.
di Wijdane Boutabaa
CASALGUIDI (PT). La scultura è spesso associata alla resistenza dei materiali, che sopravvivono impavidi allo scivolare del tempo. Il legno però si differenzia dalla fredda pietra per la sua componente viva che traspira anche tramite la sua dura corteccia scura. Proprio questo vigore ha attirato l’attenzione di un giovane Alessandro Gonfiantini (nella foto, di Beatrice Beneforti), che durante uno di quei terribili momenti in cui la vita di un uomo a volte incespica, caratterizzati da un frustrante senso di abbandono, ha scovato nella linfa vitale che scorre nel legno un vettore di sincera e ineguagliabile amicizia. Un giorno, d’un tratto e a tradimento, succede che quello che ha sempre funzionato non funziona più. Alessandro, che fino a quel momento aveva sempre trovato nel far vibrare le corde della sua chitarra tutto ciò di cui aveva bisogno, si rende d’improvviso conto dell’innegabile esistenza di un vuoto in sé, e si adopera per riempirlo con dei volti, da lui stesso fabbricati. Da un punto di vista biologico, il legno viene definito come un tessuto. Non può essere un caso quindi, che Ale abbia usato quella pelle fatta di cellule vegetali, ricolma di venature concentriche, per creare occhi, bocche, barbe e capelli.
PISTOIA. Alla sua età (36 anni), l’arte, intesa come evasione dalla realtà per crearne un’altra, di realtà, assume significati non specificatamente contemplati dalla traduzione dizionaristica del termine. Ma è anche vero – e questo inciso è semplicemente indiscutibile – che l’arte non abbia età e dunque, Camilla Giannini ha tutto il diritto di provare a battere e addirittura asfaltare la sua strada, quella che potrebbe addirittura consegnarle le chiavi per aprire la porta e oltrepassare il limite che la condurrebbe chissaddove. Di che cosa stiamo parlando? Di Curiouser, la mostra delle sue tavole di compensato esposte, in questi giorni, nell’atrio del Palazzo di Giano a Pistoia, quel corridoio in penombra che collega il loggiato del quartiere generale della politica pistoiese con il giardino interno, sfruttato a dovere in questa seconda estate consecutiva contrassegnata dalla pandemia. Torniamo a Camilla Giannini e alle sue interferenze poetiche, fiabesche, scritte e disegnate su pezzi di compensato che, con molta probabilità, se non fossero incappati nella sua volontà artistica, nella sua voglia di dipingersi altrove e lontano dal contesto quotidiano nel quale è letteralmente immersa, avrebbero potuto conoscere ben altro e meno lusinghiero destino.
SCANDICCI (FI). In tempi molto sospetti, un angolo del genere sarebbe stato preso in ostaggio e probabilmente saccheggiato da chiunque pensasse che tutti hanno il diritto di godere. Saverio Cona invece, che abbiamo conosciuto proprio in quei tempi lì, sospetti, molto sospetti, ha capito che si possa prendere possesso di un oggetto così delicato facendoselo addirittura consegnare direttamente dalla Fonte e, con qualche accortezza degna di chi ha la possibilità di credere perché non crede, farlo diventare ancora più bello. Ci riferiamo al Castello dell’Acciaiolo, a Scandicci, un paradiso apocrifo che spunta in uno dei quartieri meno fiorentini di Firenze, dove Saverio Cona, appunto, con la collaborazione della direzione artistica affidata a Cristina Bozzolini, alla produzione di Serena Roberti e Irene Straccali e alla fotografia di Andrea Araya, Stazione Utopia, in parole altre, ma non certo povere, ha partorito Nutidà (si prosegue fino al prossimo 27 luglio), un Festival di danza che gode del contributo del Comune di Scandicci ispirato alla luce ai tempi del colera, a quei luoghi e ai suoi abitanti, un sito per nuove generazioni di danzatori e per quegli uomini e quelle donne che hanno saputo invecchiare dignitosamente, senza perdoni e senza compromessi, impresa ardua, visto e considerato che sono stati giovani in quei tempi molto sospetti.
MA PERCHE’ le mascherine sulla bocca e sul naso non sono forse una visione? No, quelle esistono davvero. Certo, ma come tutto il resto, perché non occorre vedere, toccare, sentire per sentenziare che qualcosa esista, perché lo si è visto e fotografato, perché lo si è toccato e abbiamo ancora le mani sporche, lo si è sentito e addirittura registrato. Fabrizio Pelamatti e Filippo Giansanti, che dal 2009 sono, artisticamente, i Santimatti e Horst Beyer, tedesco senza alcun bisogno di presentazione, hanno deciso di far convolare a nozze le loro opere coniugandole in una mostra unica, Arcana Lux Nova Lux, che è stata inaugurata oggi pomeriggio, venerdì 30 aprile, dopo un silenzio e una chiusura abissale, anch’esse propriamente visionarie, nelle Sale Affrescate del Palazzo Comunale di Pistoia, dove rimarranno esposte fino al prossimo 23 maggio. Parlare di visioni, anche se legate alla fonte primaria e indissolubile, la luce, è tanto arduo quanto singolare, se non blasfemo.
di Olimpia Capitano
PRATO. Dall’8 settembre al 1° novembre il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, a Prato, ospita la prima personale in un museo del fotografo Jacopo Benassi, con la mostra Vuoto. Il titolo è contraddittorio rispetto a quanto appare nella sala adibita all’allestimento, dove un cumulo di oggetti ti accoglie e dove corridoi di immagini diverse e di impatto cruciale ti catturano e investono emotivamente. Il titolo però richiama il contraltare di tutto ciò, ossia il mettersi a nudo dell’autore, il restare vuoto attraverso la scelta di un esporsi che è totale (molte anche le rappresentazioni intime dell’autore e dei suoi amanti) e di una crudezza viscerale. Benassi fotografaba partire dagli anni ’80 nella scena underground spezzina, tanto che la sua prima fotografia è stata scattata in un centro sociale a un gruppo punk e questo episodio va rammentato non come curioso aneddoto, ma come linea conduttrice di un tipo di sensibilità e di visione del mondo che accompagna lo sguardo dell’autore in tutta la sua indagine e nella lettura dei soggetti di una variegata realtà umana. Quanto è colto e restituito dall’autore, prende forma attraverso una lente originale e personale che si struttura principalmente su due piani: uno più strettamente tecnico, l’altro più sostanziale.
PISTOIA. Foto scattate da principianti. Macché, son quadri, non vedete e anche fatti da autori di talento, perché è lampante. E allora ditemi con quale tecnica di pittura, visto che siete così bravi? Questo non l’abbiamo ancora capito, ma ci sono gli autori, qui nelle Sale Affrescate del Palazzo del Comune di Pistoia, oggi che si inaugura la mostra: lo chiediamo a loro! Guardate, che c’è anche una terza sala e che, dicono, sia la summa equazionale delle prime due. Ancora quadri? No, installazioni; due per la precisione: un bonsai e un acquario floreale. Acquario floreale? Beh, dai, andate a vederlo, almeno così capite tutto, voi che ve ne intendete. Ma anche voi che credete di non capirne nulla, lasciatevi traghettare; non da Caron demonio, ma dalla curiosità, che fa sempre pari con la voglia di capire. Intanto, non si tratta di una video proiezione; sì, vero: ve lo possiamo garantire, perché Edoardo Cialfi, Jacopo Francesconi e il nutrito gruppo 360atelier, gli autori di Mostra (dalla) Matrice (alla) Materia, li abbiamo visti; qualcuno l’abbiamo anche toccato, contravvenendo alle prescrizioni da contagio, ma gira voce che il mondo della cultura, bastonato oltre ogni ragionevole cattiveria da questo virus, abbia sprigionato anticorpi così robusti da non temere più nulla.
di Bruno Tarasconi
ROMA. Non sono in prima linea, ma neanche in seconda a dirla tutta; perché non è una guerra, non è la nostra guerra, non è come amano tanto dire, per definire, per dare un contorno a tutto questo. Se vogliamo ha degli aspetti della Grande guerra, perché riguardava innanzitutto chi era in prima linea, ma mio nonno che se l'è fatta, che è stato ferito, che amava raccontarmi la trincea, le pulci, la puzza, gli assalti, la tensione, la paura, avrebbe sbattuto i pugni sul tavolo bestemmiando che non devono permettersi neanche di citarla. Non è la seconda, quella che mia madre mi ha fatto vivere oltre che nei racconti soprattutto nelle sensazioni, nella Roma città aperta, nella Piazza Vittoria del coprifuoco, con i camion che irrompevano di notte per cogliere di sorpresa nelle case, con la tensione negli sguardi, con la fame, l'odio, la paura, i bombardamenti. Non c'ero, ma so che non ha niente a che vedere, neanche lontanamente. Ma non sono in prima linea. Solo una cosa mi dà l'idea di un assonanza con quei tempi: il cambiamento. Tutti allora sapevano che nulla sarebbe stato come prima, ma c'era speranza, perché il cambiamento riguardava le idee, perché non si sarebbe potuto stare peggio. Oggi avverto la sensazione del cambiamento, l'avvertono in tanti, anche se domani sembrerà tutto come prima, anche se non sarà come allora. È come se questo virus abbia scoperchiato, anzi del tutto sdoganato, qualcosa che viviamo già da parecchio, di cui siamo già a conoscenza, che lentamente ci sta cambiando, in tutto il globo, senza eccezioni; qualcosa, un processo che l'obbligo del distanziamento sociale ha accelerato, una cosa che avvertivo, forse capivo, ma non intuivo chiaramente come ora.
di Debora Banci
PISTOIA. Desideriamo stabilità fisica, mentale, armonia? Ora più che mai è il momento del cambiamento. Allora, andiamo dritti verso l’obiettivo principale. Ciò che serve adesso è la guarigione dell’anima. Evitiamo comportamenti di difesa che minino l’equilibrio e andiamo incontro all’altro. Ciò che serve è comportarsi in maniera giusta nei confronti di noi stessi e dell’altro con rispetto e amore. Se ci impegniamo al bene comune, salviamo anche noi stessi; ma facciamolo con amore, non per dovere. Muoviamoci entro di noi e scopriamo la fiducia! Abbandoniamo il giudizio, la paura, l’ansia: diventiamo soltanto prudenti. Non alziamo le barriere. È in gioco la nostra evoluzione. Tutto ciò che impariamo oggi deve essere una lezione per il dopo. Quando avremo l'impressione di non farcela, attiviamo la forza di volontà, piuttosto che concentrarci sugli aspetti negativi. I comportamenti giusti vengono messi in atto quando si aiuta l’altro evitando il panico, altrimenti la realtà di adesso diverrà ingestibile. Portiamo la costanza con noi. Ricordiamo che l’azione buona contagia. È il momento del coraggio: quindi viviamo nella consapevolezza che ci saranno tempi migliori.
di Stefano Carobbi
FIRENZE. Trovare qualcosa di sensato e ancora non detto su questo periodo, è particolarmente complicato e difficile. Da una parte c'è l'angoscia per quanto riguarda tutti i malati che si trovano a combattere una partita impari, specialmente per i più anziani e per tutte quelle persone che si prodigano per allietare le loro sofferenze cercando di salvarli dalle fauci di questo maledetto virus. Dall'altra, però, dobbiamo fare una riflessione su ciò che eravamo prima di essere invasi da questa pandemia. Diciamo: siamo stati un po' troppo egoisti con questa terra? Ci mancavano così tanto i nostri cari? Sapevamo quotidianamente assaporare il senso della libertà? Eravamo così predisposti ad aiutare chi stava peggio di noi? Usavamo così tanto la nostra fantasia? Condividevamo le nostre capacità o attitudini con gli altri? E quanto ancora potrei andare avanti a fare domande. Mi fermo perché credo di avere fatto capire il senso di ciò che penso. Ecco: direi che il 99% delle persone a queste domande risponderebbe no e questo deve farci riflettere. Quindi, cerchiamo di farlo profondamente, facciamo un passo indietro nel tempo, dove si stava meglio quando si stava peggio.
di Luna Badawi
FIRENZE. Un po’ di tempo fa lessi questa frase su un libro preso casualmente sullo scaffale di una libreria: I problemi sono una benedizione. Mi piace fare questo gioco, prima di comprare un libro, aprire le sue pagine a caso e leggere la prima frase su cui si poggia il mio sguardo. Quel giorno, lessi questa splendida frase. A essere sincera, non detti alcun peso al concetto. Pochi giorni dopo lessi una frase simile su Instagram: Il più grande problema dell’umanità è che crede di non dover avere problemi. Questa volta non riuscii a non dare peso alle parole perché mi sembrava un messaggio che voleva raggiungermi. Un messaggio che più ignoravo e più mi si ripresentava sotto forma di altre parole. Questa volta mi ci soffermai, nella speranza di cogliere qualcosa in più e così più rileggevo la frase e più mi risuonava dentro un significato più profondo. Probabilmente, come tutti, stavo cercando di dare un significato a quanto stava accadendo al nostro pianeta. La non comprensione porta sempre alla ricerca e la ricerca spesso genera una scoperta oppure una conferma. Quale scoperta o conferma mi poteva derivare da un momento così doloroso? Da un giorno a un altro siamo tutti chiusi in casa e non possiamo uscire se non per motivi limitati e importantissimi.
di Graziano Salvadori
MASSAROSA (LU). Ho 55 anni, due figli, una moglie, due figli e due genitori che non vedo da circa due mesi. Ho passato un’infanzia felice, fatta di scuola, giochi e racconti fatti dai genitori; e dai nonni. Dei racconti dei nonni ricordo molto poco; di quelli dei genitori invece ricordo quasi tutto. Racconti di guerra, la seconda guerra mondiale. E mai avrei pensato di dover affrontare una terza guerra mondiale. Sì perché quella che stiamo affrontando è una guerra mondiale; batteriologica, ma pur sempre mondiale. E allora oggi mi ritrovo a dover parlare ai figli dei pericoli del covid 19, i chiama così questa guerra, no, COVID 19. E racconti, spieghi e devi anche fare la persona che conosce la materia, perché i ragazzi quando chiedono vogliono risposte e non non so. In questo periodo ho capito realmente il ruolo importantissimo di fare il genitore, che oltre a seguirli nelle loro incombenze quotidiane, deve anche rassicurarli nei momenti di paura. E di momenti di paura questi ragazzi ne hanno molti, anche se fanno i grandi e gli spavaldi; te ne accorgi che hanno paura, perché nella domanda che ti fanno babbo, quando finisce questa storia, noi vogliamo uscire il tono è gradasso, altezzoso, quasi incalzante, ma gli occhi sono tristi e in cerca di conferme.
di Silvano Martini
FIRENZE. Tempi duri, questi, molto duri per tutti, tra pandemia e privazioni di libertà, tutti quanti, chi più chi meno, ci sentiamo impotenti e un po’ schiacciati dagli eventi e dalle incertezze di un futuro che dovrà per forza di cose tornare a essere scritto. Molti lavori dovranno riprendere sulle ceneri di quello che oramai è il nostro passato e per alcuni sarà più dura che per altri. Ovviamente non tutti mi conoscono, anzi saranno sicuramente più quelli che non mi conoscono, ma altri, al contrario, ricorderanno la mia fisionomia dietro alle transenne di concerti ed eventi in Toscana, come ad esempio il Pistoia Blues Festival, il Blues come viene chiamato a Pistoia, di cui sono il responsabile della security fin dal 1985. Per chi fa un lavoro come il mio, che ruota attorno agli eventi, alle discoteche e ai clubs, posti che prevedono un grosso assembramento di persone, sarà ancora più dura che per altri tipi di lavori, in quanto non sappiamo come e quando potremo ripartire. Amo il mio lavoro, lo amo davvero e ho sempre cercato di farlo nel modo più responsabile possibile; la sensazione di aver contribuito a far andar bene un evento che coinvolge un grosso numero di persone è impagabile e, quando tutto è terminato, il momento in cui rimango a parlare con altri addetti ai lavori, mentre la piazza, lo stadio o il locale restano vuoti è il momento più bello.
di Nick Becattini
CAMAIORE (LU). Chissà come mai, in questi giorni, a noi musicisti, categoria penalizzata pesantemente da sempre - e in questo periodo in particolare - ci chiedono tutti qualcosa. Di fare video di saluti, di fare appelli resto a casa on line, di scrivere articoli. Ma come? Sono un chitarrista, chiedimi un brano di chitarra! Come quando ai compleanni ti regalavano di tutto fuorché, che so, un CD, un porta chitarra, un accordatore. Vabbè, allora scriviamo. E cosa scrivo? Scrivo di strade, ho deciso, visto che son fermo e fermo come tutti, ma... Siamo a casa da fine febbraio, infamati come untori se abbiamo avuto l'ardire di fare una serata! Infamati da musicisti colleghi, giornalisti, proprietari di locali, persone di qualunque tipo ed estrazione. Benissimo, giustamente stiamo a casa. Adesso siamo bloccati con le serate, da inizio marzo addirittura fino ai festival estivi inclusi, unico vero polmone economico per noi, fino a fine agosto. E già la nostra paga è infame, di per sé, e per di più senza possibilità di vero ammortamento pensionistico, senza possibilità di rimborso in caso di infortuni, senza nessuna garanzia, di nessun tipo. Ci fanno ridere i precari o gli esodati, a noi; lo dico col massimo rispetto. E pensare quanti anni abbiamo studiato per sapere quello che sappiamo, per affinare le nostre indubbie capacità.
di Teresa Fallai
FIRENZE. Anche oggi, come ieri
un piccolo compromesso
una buona misura
per svegliarsi
alzarsi
lasciar svanire l'illusione di aver solo sognato
come ogni mattina.
E subito ricordarsi che non l'hai immaginato
ciò che sta accadendo
che non potevi inventarla quella parola:
Pandemia.
Eccola. La prima parola pensata.
È sempre lì.
Anche oggi, come ieri.
di Fabianna Tozzi
LAVAGNA (GE). Dall’eremo dal quale scrivo, incastonato sulle struggenti colline liguri, sembra che la magnificenza della natura, attraverso i colori e gli odori di una spettacolare primavera, salutino gioiosamente questa nostra stagione, così come il mare calmo e ignaro delle faccende umane. Difficile, da qua, credere che ci possa essere una stagione così tragica e spietata; soltanto i notiziari, il ritorno di mio marito da lavoro, le impressioni scambiate con i vicini, gli amici e i parenti più cari mi riportano alla realtà e alla riflessione. La quarantena giustamente imposta per arginare il propagarsi di questo virus ci dovrebbe suggerire pensieri più profondi, oltre a quelli strettamente materiali; ed è proprio in questo frangente che qualcosa in me è risuonato, come credo in tutte quelle persone che hanno vissuto, o meglio, subìto, una sorta di distanziamento sociale, dato da qualcosa di molto più temibile di un virus. Non esiste vaccino contro il razzismo, contro lo stigma sociale causato dall’eterna sopraffazione di chi si sente sano, superiore, per provenienza, colore della pelle, orientamento sessuale, identità di genere o qualsiasi altra condizione umana.
di Graziano Uliani
PORRETTA TERME (BO). Ascoltando i dati giornalieri dei contagiati dal Coronavirus sembra di assistere alla lettura dell’esito delle elezioni. Ognuno li dà a proprio uso e consumo. L’unica differenza è che quando saranno definitivi, avremo perso tutti. Poi, guardando tutto il giorno quello che scrivono su Facebook, rischiavo di sentirmi un filosofo anch’io e ho fatto un esame di coscienza. Meglio tornare a volare bassi. Restando in casa, abbiamo forse perso solo qualche mese di vita, senza poter fare le cose di tutti i giorni. In molti avranno perso per davvero un bel pezzo della loro vita perché non ce l’hanno fatta. Ci sono molte cose che non mi mancano in questa sosta forzata, tipo quella di buttarmi nella calca del lungomare di Viareggio durante il Carnevale o nello shopping sfrenato di qualche Centro Commerciale. Mi ero soffermato a vedere la sceneggiatura della fiction dedicata ad Alberto Sordi sulla tv nostrana e mi è venuto voglia di cose normali.
di Veronica Mondini
SAN CATALDO DI BORGO VIRGILIO (MN). Che dire. Fin dal primo giorno in cui al lavoro (sono una cassiera di un supermercato) facemmo un briefing mattutino prima dell’apertura delle serrande, capii che saremmo entrati in un periodo difficile! Ed era ancora il periodo: è poco più di un’influenza; colpisce chi ha patologie pregresse; basta lavarsi le mani ed è una cosa colpisce gli anziani”. Sono grata alla mia azienda che fin da febbraio ci ha procurato mascherine, mascherine che aiutano ad impedire diffusione del virus, mascherine che però non ti proteggono dalla gente che ti schernisce perché la indossi o che ti guarda torva come per dire: chissà, sarà malata?!? Ora, ovviamente, a distanza di poco più di un mese, le cose, come tutti sappiamo, sono cambiate; nessuno osa più dubitare della tua salute, né a nessuno viene da ridere, per quel travestimento, perché bene o male, quasi tutti, viviamo questo carnevale fuori stagione, ma nonostante tutto, il rispetto per noi cassieri alcuni non lo hanno proprio: si ha il terrore che qualsiasi cliente possa essere l’untore di turno, quello che non avevi messo in preventivo e psicologicamente, tutto questo, è massacrante.
di Barbara Ferrando
VALENZA (AL). La colonna rossa segna +798. Mi accorgo che gli occhi mi bruciano: ho passato troppe ore davanti al computer. Ho scritto un articolo che parla di arte, della mia provincia e mi sembra tutto fuori sincrono, come certe pubblicità che passano in tv. Perché e, soprattutto per chi, sto scrivendo questo? Poi mi dico che avremo voglia di bello, quando usciremo da quella porta senza mascherina, dimenticando di disinfettare la maniglia e toccando il corrimano delle scale che ci portano fuori. Fuori, all’aria aperta. Ieri parlavo con un caro amico. Lui è un bravissimo medico, lavora all’ospedale di Alessandria ed è di una simpatia irreale. Si racconta bene, anche. Mi ha detto di avere fatto pochi passi verso la macchina per andare a lavorare, e di aver avuto una strana sensazione. Come se il suo olfatto si fosse amplificato: gli odori di foglie, di asfalto, di una primavera arrivata, nonostante tutto, lo hanno investito. E ferito.
di Francesca Infante
ROMA. Hai mai pensato veramente a come è fatto il tuo cuore, a quante forme di piedi, naso e mani esistono nel mondo, di quanti colori diversi possono essere gli occhi? Hai mai guardato gli altri pensando che, nonostante le piccole differenze, dentro siamo tutti uguali? Ti sei mai visto dentro? Qualcuno l'ha fatto. Una pittrice, illustratrice, autrice, fotografa, che ha deciso di unire la sua passione per l'anatomia con l'arte, associando ogni parte del corpo umano a definizioni, emozioni, modi di dire e citazioni letterarie: Katy Couprie. Ne ha creato un libro. Adesso gli hanno dedicato una mostra. Se siete a Roma e volete spendere venti minuti del vostro tempo per vedere qualcosa di diverso (e bizzarro), andate al Palazzo delle Esposizioni, sulla destra c'è un piccolo archetto con delle lucine; attraversatelo, scendete le scale, andate fino al lounge bar e dirigetevi in fondo alla sala: ecco lì c'è la mostra dedicata al Dizionario folle del corpo di Katy Couprie (22 ottobre 2019 – 16 febbraio 2020).
FIRENZE. Non abbiamo i numeri (ahinoi) per discernere, nei dettagli, e dunque in modo appropriato e corretto, di un balletto; figuriamoci di cinque. Né conosciamo il background e le relative scuole, professionali e di pensiero, dei quattro coreografi che hanno dato vita, venerdì e sabato 16 novembre al Teatro di Rifredi, allo spettacolo, straordinario (l’aggettivo è sensitivo, epidermico, ma vale come se fosse pronunciato da addetti ai lavori), portato in scena da dieci giovanissimi danzattori, dei quali non abbiamo purtroppo le generalità ma che ringraziamo, con abbraccio annesso, uno a uno, appartenenti a quattro distinte scuole di danza, rispettivamente rappresentate dagli italiani Loris Petrillo e Angela Placanica, dalla francese Aurelie Mounier e dal portoghese Gustavo Oliveira, a loro volta inscritti sotto l’egida del COB (Compagnia Opus Ballet) diretta dalla nostra (nell’augurio che l’appartenenza non disturbi i globalisti) Rosanna Brocanello. Cinque sezioni, cinque modi, cinque mondi, cinque stili, cinque pensieri, cinque geometrie, cinque connessioni, cinque filosofie, ma un unico, grande, immenso, meraviglioso attaccamento alla vita, all’arte, al sacrificio, alla bellezza, alla coordinazione;
PISTOIA. Non sappiamo cosa leghi, qualora ci fossero anelli, contaminazioni e condivisioni, Sara Bargiacchi ad Alice Corbetta e, a loro volta, con Martina Fontana. Poco, forse, almeno confidando nell’aspetto, perché sembrano provenire, nei profili, nell’abbigliamento e dunque nel background, da tre isole differenti e lontane tra loro. Claudio Giorgetti invece, curatore della collettiva VIVA!: Abstracta vitae (che può essere letta anche VIVA, intesa come incitamento, oppore VI VA: fatevi venir voglia e andateci), di punti di contatto tra le espressioni artistiche delle tre espositrici ne ha viste un sacco; o meglio, una certamente e che è la doverosa opportunità di rimpadronirsi della loro e della nostra vita attraverso il (ri)utilizzo del più elementare e per questo, spesso, non debitamente contemplato, elemento: la materia organica, quella con la quale si compone la nostra esistenza e, per analogia, le nostre dimostrazioni pratiche. Per questo, nelle Sale Affrescate del Comune di Pistoia, in piazza del Duomo (fino al prossimo 20 ottobre, ingresso libero), hanno trovato albergo, o forse ospizio, chissà, nelle tre stanze distinte e separate della struttura, le loro offerte:
di Hank Anderson
PISTOIA. Scegliamo il tunnel e mentre aspettiamo la luce in fondo, lo arrediamo. Oppure scegliamo di vivere sott’acqua. Mettiamo la maschera e sprofondiamo nel blu. Blub, lo street artist fiorentino di cui non si conosce l’identità, ha scelto senza dubbio questa seconda metafora. Ha immaginato un mondo sommerso e ha fornito i suoi soggetti dell’elemento essenziale per rimanerci a occhi aperti. Segni del suo passaggio sono visibili in varie città italiane, a Firenze, a Lucca e a Roma, per citarne alcune. La sua attività, però, inizia nel 2013, a Cadaqués, in Catalogna. Dalla settimana scorsa le sue opere sono comparse anche per le strade di Pistoia. Quella di Blub è una street art che si appropria in modo del tutto innovativo e suggestivo dei volti di personaggi e soggetti del passato (artisti, scrittori, divi, dipinti famosi) che hanno lasciato un segno indelebile nel nostro immaginario. Sugli sportelli dei contatori del gas o dell’energia elettrica trovano così dimora le sue riproduzioni di Dalì, Marilyn Monroe, David Bowie, Gabriel Garcìa Márquez, o i duchi di Urbino di Piero della Francesca.
PISTOIA. Quando una testimonianza diventa arte. Ci vuole il punto interrogativo per dare senso a questo periodo (?) La pittura sta alla poesia come la musica sta alla recitazione, del resto, così come la scultura si interfaccia con la letteratura. Senza dimenticare il cinema, l’architettura. La solidarietà. E la rivoluzione. Ce la farà Emilia Maria Chiara Petri, bolognese, a scavarsi una nicchia, più o meno prestigiosa, nel panorama pittorico nazionale (qui, il punto interrogativo, si rende necessario, altrimenti potremmo essere spacciati per intenditori, tifosi, prezzolati)? La risposta non la daranno i posteri, ma gli osservatori contemporanei, tra una moltitudine di occasionali e una sparuta minoranza di addetti ai lavori, che sono quelli che possono discernere sulla tecnica, sulla volontà, ma non sulle intenzioni. Il messaggio artistico, il messaggio in generale, esula da qualsiasi dotta classificazione e arriva alle interiora di chi ne fruisce per una moltitudine di ingranaggi che non sono identificabili, che percorrono vie spesso sconosciute anche a chi le sta battendo per la prima volta, senza aver avuto suggerimenti.
di Filippo Colosi
PISTOIA. Nella calda estate pistoiese, fra gli eventi svolti nel centro storico cittadino, vanno sicuramente ricordati quelli organizzati dal Megik OZNE, pub situato dietro al Duomo, in via della Torre, all’angolo con il caratteristico arco posto dietro l’ex palazzo dei Vescovi. Stavolta non si tratta però di una delle tante deliziose serate musicali alle quali questo locale sta generosamente viziando i propri frequentatori, a tal riguardo il programma aggiornato è sul sito internet (www.megikozne.it) e nella loro pagina Facebook, ma di una personale di pittura di Walter Di Piazza. La scelta di offrire spazio non solo alla musica non è una novità per il Megik OZNE, che già in passato ha consentito ad altri artisti di esporre quadri e fotografie, proponendo una mostra di pittura contemporanea dal 18 luglio fino al 1 settembre formata da una selezione di sette tele volutamente non incorniciate. Sfruttando anche l’atmosfera particolare dovuta alle tante vite precedenti di queste stanze, secoli fa addirittura adibite a stalle, succede proprio in questo 2018 di poter vedere appese a queste pareti le tele dell’artista pistoiese nato nel 1980 e da oltre venti anni impegnato nella pittura.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Pistoia si divide, urbanisticamente, in parti e in frammenti, nella struttura classica intessuta attorno al cardo maximus e al decumano maximus. Piazzette, vicoli, ripe e viali. Giardini e cortili. Tutto in uno spazio ridotto, quello dell’antica civitas dentro le mura. Ieri sera, sul confine, vicino appunto a frammenti di mura, ha rivissuto uno dei luoghi più belli; il Parterre di piazza San Francesco. La sua piccola fiabesca fontana, le sue panchine in pietra e, sullo sfondo, la palazzina in stile neoclassico, sede della Banda Borgognoni. Proprio qui il Gad (Gruppo d’Arte Drammatica Città di Pistoia) ha allestito il palcoscenico, o cosa ne resta, in una versione quasi sperimentale, en plen air, con niente quinte (attori visibili ai lati e dietro la scena), mixer luci e audio in vista, sedie sul selciato e anche sui suoi lati erbosi, in questo ritaglio incantato di Pistoia. Pistoia, dunque, è lo scenario perfetto a rievocare le gesta dell’Andreini nei suoi lambicchi mental-teatrali, lui protagonista e fulcro della storia raccontata dal Gad Francesco Andreini, pistoriense e la Compagnia dei Comici gelosi, (trasposizione delle vicende di una delle più celebri compagnie teatrali italiane durante l'epoca della Commedia dell'Arte): Il gioco delle scatole cinesi, il teatro nel teatro, la compagnia che recita una compagnia, scompone e ricompone le immagini, i gesti e i colori in un unicum ora serrato, ora minimal-rilassato.
LIVORNO. Poco prima dell’arrivo di alcuni tir pronti per imbarcarsi verso la Corsica, alla Fortezza Vecchia di Livorno, al porto, l’unico suono percettibile e adorabile è quello dei gabbiani. Sotto, in uno stato di tacita cordiale coabitazione, Claudia Caldarano (che è anche autrice) e Lisa Labatut, proprio per non infastidire un secolare habitat, seppur adeguatosi alle impellenze commerciali e turistiche, cantano la propria deformazione genetica postatomica, anche se lo fanno Sul nascosto. Danzano, i due esseri deformati da esperimenti, sulle note di suoni (Valeria Sturba) percettibili in quelle zone di Foresta svendute al Capitalismo, dove solo esseri geneticamente pronti a tutto, pur di sopravvivere, riescono ancora a resistere. L’elemento più scabroso è rappresentato dai volti rovesciati (Eugenio Casini) a centoottanta gradi, che hanno trasformato rane, cavallette e libellule in esseri deformi, costretti a deambulazioni innaturali.
PISTOIA. Lontano dalla stagione teatrale e dai concerti del Festival Blues, a Pistoia, succede più in quel buco meraviglioso della libreria Lo Spazio in via dell’Ospizio che in tutto il resto della città. E oggi, domenica 8 ottobre, non è nemmeno giovedì e visto il sole, men che mai siderale. Sulle pareti del salone attiguo alla libreria, quello che in origine doveva essere la sala da the, ma dove in realtà si versano ettolitri di rosso, fino al prossimo 11 novembre ci saranno le opere di Serena Giorgi. Pittrice? Sì, vero, ma non solo. Costruttrice? In linea di principio eccome, ma riduttivo. Allora cucitrice? Sì, anche, perché il lavoro che fa sulla memoria è notevole. Beh, non nascondiamo di essere un po’ in difficoltà, a catalogarla; allora vi raccontiamo della mostra, che ci è stata svelata nei dettagli dall’incipit fino ai suoi possibili sviluppi proprio dalla diretta interessata, l’artista (e così non ci sbagliamo) presente (e come sarebbe potuto essere diversamente) il giorno dell’inaugurazione.
MASSA. Forse non lo sa nemmeno lei e – ci auguriamo – non lo scopra mai. Che è brava, intendiamo dire, perché la sua arte, prima di ogni altra cosa, è divertimento. Si prende così poco sul serio, Clara Mallegni, che si veste, specialmente per le grandi occasioni, in modo stravagante oltre ogni ragionevole bizzarria. E oggi, 4 ottobre, per Clara Mallegni e per le sue sculture è stato davvero un giorno importante. Molto. Perché a casa loro, ai profeti, si offre sempre uno spazio angusto. Con la scultrice, invece, Comune e Provincia di Massa hanno voluto invertire nettamente la tendenza, ospitando addirittura Nel blu dipinto di blu le sue opere (poi ne parliamo, eh), curate da uno dei suoi più prodighi mentori, Lodovico Gierut, in due dei saloni del Palazzo Ducale di Massa, nella centralissima piazza degli Aranci, invasa, quest'oggi, dagli indigeni in festa che hanno voluto onorare, con una giornata insolitamente estiva, il santo patrono.
di Rachele Vannelli
TUTTO MOLTO BELLO, ma i pistoiesi dov’erano? Capiamo bene che la giornata non fosse delle migliori dato il maltempo perdurato tutta la notte e che ha continuato nella mattinata, però è sempre domenica; qualcuno sarà pure uscito per una briosche e un cappuccino, no? Eravamo a Pistoia, nel cuore della città, in piazza del Duomo. Nell'atrio del Tribunale, dove si è svolta l’inaugurazione della collettiva Artisti per Pistoia, promossa dall’Associazione Toscana Cultura. L’evento prevede l’esposizione di circa cento quadri di altrettanti artisti locali e non, che espongono per omaggiare la Capitale della Cultura. All’evento hanno partecipato quasi tutti gli artisti, qualche addetto ai lavori e il neosindaco della città, nella doppia veste di primo cittadino e assessore alla cultura. Questo della totale latitanza degli indigeni è un ulteriore campanello d’allarme che dimostra la grande lontananza fra i pistoiesi e l’arte, che dovrebbe essere propulsore della cultura della nostra città, se non del nostro Stato.
PISTOIA. Sono in tredici, per vincere ogni forma di superstizione, anche se nessuno di loro, con molta probabilità, superstizioso lo è veramente. Però, proprio intorno al fattore numerico, coincidenziale oltre ogni ragionevole subconscio, hanno deciso di intitolare l’intima collettiva, il Sé di 13, inaugurata oggi, 10 giugno, alle 17 e che resterà aperta alla curiosità degli interessati e all’interesse dei curiosi fino alla fine del mese. Tredici autori diversi e lontani per scuola, storia e passione, che hanno diviso e condiviso, con piacere e deontologia, lo spazio del Tribunale di Pistoia, non nuovo ad accogliere iniziative del genere. Claudio Bellari, Peppino Biagioli, Elena Bini, Roberto Carrodori, Annalisa Fusilli, Hanami, Anna Nigro, Orlando Poggi, Alessandra Sala, Liala Sigala, Lucia Simonini, Valerio Savino e Federica zampini, questi i nomi, in rigoroso ordine alfabetico, delle tredici personalità che si sono riunite accordando una collettiva che potesse dare, di ognuno, l’aspetto più marcato.
di Cristina Prando
TREVISO. La passeggiata verso il museo di Santa Caterina, a Treviso, dove è allestita la mostra Storie dell'impressionismo, nonostante il freddo pungente, è facile da percorrere e piacevole. Passiamo portici con piccoli negozi caratteristici e anguste stradine di ciottolato, ma basta alzare lo sguardo per vedere i piccoli terrazzi antichi con le piante rampicanti sempre verdi che scendono per sintonizzarci con la bellezza e dimenticare i piccoli contrattempi quotidiani. È così che inizia la visita, alla ricerca di attimi, esattamente come successe in passato agli impressionisti, che immortalarono l'attimo fuggente catturando sempre sfumature diverse. In quella lontana Parigi, ad esempio, quella stessa Parigi che accolse in sè quel breve periodo artistico (1860–1880) chiamato Impressionismo.
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PISA. Condividiamo con piacere l’angolazione pittorica e culturale che la direzione artistica del Palazzo Blu, di Pisa, ha scelto di dare alla sua nuova esposizione: Dalì, il sogno del classico (1 ottobre – 5 febbraio 2017). Perché non si può continuare a etichettare l’inimitabile artista catalano soltanto come il più stravagante e visionario pittore non solo del secolo precedente, ma di tutta la storia dell’arte visiva. Salvador Dalì è stato anche e soprattutto uno scrupolosissimo e profondo conoscitore del Rinascimento e solo attraverso uno studio tanto meticoloso di quei floridi due secoli e mezzo e dei suoi più illustri rappresentanti (Michelangelo, Dante e Cellini su tutti) ha potuto trainare la propria esuberanza fino a trasformarla nella testa d’ariete dell’arte contemporanea. Salvador Dalì insomma non è solo quello celebrato nell’alta Costa Brava, da Portlligat fino a Figueres, passando per Cadaques, le zone dei suoi natali, né quello all’insegna di una stravaganza figlia anche di eccessi stupefacenti, come non si può circoscrivere alle sue esperienze giovanili di massimo impegno civile e politico.
PISTOIA. Parla sottovoce, ma solo perché è timida; adora il blu caldo, o il verde cenere, scegliete voi ed è profondamente convinta che le sue iniziazioni artistiche, prima o poi, prenderanno il sopravvento: se così non fosse, sarebbe un problema. Sopravvive a Bologna, Emilia Maria Chiara Petri, 33 anni – i cui tre nomi saremmo tentati di separarli, ciascuno, da una virgola -, conosciuta poche ore fa, in centro, a Pistoia, con la sua amica Carmen Schipilliti, che la sta ospitando dallo scorso 12 luglio, con le sue creazioni, all’interno della sua cantina artistica, Spazio Arte, in via Sant’Anastasio, a Pistoia. Il suo back ground però non proviene dal Dams: si è laureata in filosofia, testimoniando il proprio percorso di studi con una ciliegina che interessa solo gli addetti ai lavori, circa il rapporto della e sulla verità tra Martin Heidegger e Platone.
di Caterina Fochi
FORLI’. Piero Della Francesca (1415-1492) è stato senza dubbio uno dei più grandi pittori italiani del Quattrocento. La sua pittura spaziosa, monumentale, impassibilmente razionale, dove nell’assoluto rigore matematico, l’eterna immobilità delle sue figure, dai volti appena sfiorati da un’ombra di passione perpetua, innalza i soggetti al di sopra del caos della mediocrità in una pace soprannaturale che ce li mostra ancora oggi come delle rivelazioni. Il rapporto tra critica e arte, nell’arco di più di cinque secoli, è il filo conduttore della mostra Piero Della Francesca indagine su un mito in corso fino al 26 giugno prossimo ai Musei San Domenico di Forlì. Un’operazione non facile e rischiosa che per la prima volta mette a fuoco la fortuna nel dibattito storiografico e artistico di Piero Della Francesca: una fortuna che fu immediata e folgorante per i suoi contemporanei, ma nei secoli successivi vide un profondo e completo oblio, che coinvolse gran parte dell’arte quattrocentesca, tanto da far dimenticare e trascurare l’esistenza di affreschi e dipinti che oggi sono considerati capolavori assoluti.
di C.F.
Meno male che Andy Warhol strappò dai muri di New York artisti come Keith Haring e Basquiat. Altrimenti, oggi, non conosceremmo il loro talento e forse le loro opere sarebbero andate perse per sempre. Premesso questo, però, la questione tra street art e istituzioni museali resta comunque molto complessa. A questo proposito sono infatti più che legittimi i dubbi che sorgono e che sono alla base delle tante contestazioni sollevate in primis dagli artisti stessi. Il passaggio dai muri ai musei equivale ad un passaggio dalla forma di protesta al business? A chi appartiene l’opera di strada? Qual è il limite tra libertà d’espressione individuale e bene collettivo? E’ giusto esibire la street art? E per quale pubblico? Con quali modalità? Che ruolo avrà il museo in questa prospettiva? Quali tracce di queste culture trasmetteremo al futuro?
di Stefania Pianigiani
GENOVA. La primavera è arrivata, per il calendario, ma anche al Palazzo Ducale di Genova, dove fino al prossimo 10 aprile avete la possibilità di ammirare la mostra Dagli Impressionisti a Picasso. Cinquantadue quadri del Detroit Institute of Arts hanno lasciato la terra americana per approdare nella città di Colombo. Capolavori in esposizione: le lezioni di stile di Degas, il geniale Cézanne, Matisse e l'Ecole de Paris fino ad arrivare al cubismo di Picasso. Impossibile, per amanti, amatori, pittori in erba, artisti celebrati, ma anche per i soli e semplici curiosi disposti a lasciarsi sedurre, perdersi questa occasione, probabilmente unica, dove pionieri e simboli dell'avanguardia, attraverso le loro tele, stimoleranno le emozioni di tutti i visitatori.
Leggi tutto: Dagli impressionisti a Picasso: la primavera, a Genova, finisce il 10 aprile
PISTOIA. Ancora una settimana, poi, la mostra di Francesco Barbieri se ne andrà altrove, a cercare altri consensi. A Pistoia, dove espone da una settimana in via Carducci, nel Peekaboo Tattoo Gallery, di Gigi Fagni e Rino Valente, alcova dove trova posto anche lo studio pittorico di Daniele Capecchi, ieri sera, a movimentare altrimenti una serata destinata alla domenica sera, una video installazione di un metropolitano acquisito, che ha proposto al pubblico Mai Mai Mai, un triangolo equilatero, ma forse più isoscele, di bombardamenti claustrofobici, iniettati dalla pesca di pesce spada nelle stagioni più calde tra le cose siciliane e quelle calabresi, dove Berlusconi e Renzi, prima o poi, il ponte ce lo faranno.
Leggi tutto: Andata o ritorno: i viaggi di Francesco Barbieri
di Caterina Fochi
LONDRA. Cosa succede se la globalizzazione attraversa l’arte? La risposta arriva dalle 160 opere, realizzate tra il 1960 ed il 1970 da artisti di tutto il mondo, presentate nella mostra The World Goes Pop in corso fino al 24 gennaio prossimo alla Tate Modern di Londra. Se il movimento della Pop Art, in Inghilterra prima e in America poi, ha infatti sviscerato e ridicolizzato la società e la cultura consumistica occidentale utilizzandone il gergo e le strategie, con questa originale mostra scopriamo che nel resto del mondo, dall’America Latina all’Asia, dall’Europa al Medio Oriente, fu anche e soprattutto un linguaggio universale di protesta che oggi più che mai risulta attuale.
PRATO. La tavola l’ha apparecchiata lui, Antonino Siringo e anche le vivande, le ha preparate nel pomeriggio. Cinzia Fiaschi, invece, per impegni pomeridiani, non è potuta rincasare che per l’ora di cena, ma ha trovato tutto pronto. L’appuntamento lo avevano fissato questa sera a Prato, al Centro per l’Arte Contemporanea Pecci, invitati ad impreziosire Contempoartensemble, la rassegna invernale che si sta consumando per questo anno che verrà.
Leggi tutto: Instant Composition, una cena preparata con cura
di Caterina Fochi
ROMA. L’erotismo percepito è un’attribuzione ex post delle menti torbide. Con questa risposta dello stesso Balthus a chi esprimeva inquietudine di fronte ai suoi dipinti chiudiamo da subito l’infelice capitolo che riguarda le innumerevoli polemiche che negli anni passati hanno accompagnato le sue opere e che hanno addirittura portato all’annullamento per censura di una sua mostra in tempi recenti ad Essen in Germania.
L’idea, almeno nei propositi, era quella di (ri)affermare l’egocentrismo patriottico. Poi, nella realtà, al gruppo degli italiani a Parigi, mentre in Europa si andava tristemente affermando il nazifascismo, la capitale francese riuscì nell’impresa di tenerli lontano dalla barbarie, consentendo addirittura loro di continuare a produrre.
di Luigi Scardigli
Bisogna decidere da che parte stare. E’ una semplice questione di prospettiva. Per fortuna, dopo una prima parte, il pubblico può iniziare a girovagare lungo i corridoi delimitati dalle sette stanze dove dentro un nugolo di giovanissime danzatrici stanno dando vita a Quadri della passione, il nuovo spettacolo di Virgilio Sieni presentato, fuori abbonamento, in Altri linguaggi, al Teatro Manzoni di Pistoia.
di Caterina Fochi
Quella che respiro, entrando nel complesso museale di Santa Maria della Scala, è un’aria di rancore e nostalgia per tutto quello che potrebbe essere e invece non è.
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di Luigi Scardigli
La moglie, avrebbe scommesso sulle sue doti musicali, in quanto artista. Lui invece, Valerio Savino, ha optato per la pittura e la scultura. Che prima o poi sarebbe diventato un artista non c'era il minimo dubbio.
di Caterina Fochi
Lo spazio della nuova sede della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, di Torino, riportata alla sua essenzialità architettonica dall’architetto Claudio Silvestrin, sembra essere stato pensato apposta per ospitare Rinascimento.