di Caterina Fochi

Quella che respiro, entrando nel complesso museale di Santa Maria della Scala, è un’aria di rancore e nostalgia per tutto quello che potrebbe essere e invece non è.

 

All’arrivo in piazza Duomo, a Siena, mentre davanti all’ingresso della Cattedrale si affollano i turisti in interminabili code, davanti al n°2 della piazza, all’ingresso dello Spedale di Santa Maria della Scala, non si vede anima viva e questa situazione è talmente desolante che in un primo momento temo di aver avuto informazioni sbagliate riguardo la sua riapertura dopo le tristi traversie seguite allo scandalo del Monte dei Paschi di Siena e il successivo commissariamento del comune della città.

Per fortuna però, avvicinandomi, capisco che è tutto aperto e senza fare code riesco ad entrare. Anche questa volta, come la prima, l’emozione genera un turbamento dovuto non solo al fatto che sto entrando in uno complesso di una bellezza che toglie il fiato, ma perché percepisco tutto il carico della storia che è lì, viva e bramosa di ricevermi. Sì perché quelli che sto per affrontare non sono solo duecentomila metri cubi di edificio, ma sono più di mille anni di storia. Lo Spedale di Santa Maria della Scala venne infatti istituito da canonici del Duomo e il primo documento che ne sancisce l’ufficialità risale al 1090, anche se la sua fondazione è sicuramente più antica.

Sorto sulla via Francigena, svolse svariate funzioni che andavano dall’assistenza ai malati al ricovero dei poveri fino alla cura dei bambini abbandonati, ma soprattutto era un luogo di accoglienza dei pellegrini. Come svariate furono le sue funzioni, anche la sua struttura si trasformò in maniera labirintica nel corso della storia, inglobando pezzi di città già edificata, un’antica strada cittadina, una cinta muraria, vicoli, magazzini e diversi palazzi. Proprio per questa complessità il recupero e il restauro, iniziato nel 1998 sul progetto dell’architetto Guido Canali di Parma, è stato lungo e complesso, ma non solo ha restituito alla città e al mondo intero i suoi numerosi e monumentali ambienti nei quali è possibile ammirare l’imponente patrimonio artistico di cui non si può non ricordare il ciclo di affreschi quattrocenteschi della sala del Pellegrinaio, ma ha anche riportato alla luce tutto un percorso sotterraneo che oggi ospita il museo archeologico.

Proprio perdendomi attraverso questi dedali ricchi di reperti, frutto di donazioni e ritrovamenti, che non posso non accorgermi della polvere che ricopre gli oggetti e le mensole su cui sono posati. I vetri delle teche sono così sporchi che a fatica si riesce a scorgere ciò che proteggono, molte delle luci che dovrebbero restituire l’antico splendore a questi resti sono bruciate relegandoli al buio della morte e così, incredula, riprendendomi dallo stordimento del mio iniziale entusiasmo, comincio a guardarmi intorno con maggiore disincanto e scorgo cumuli di sporcizia ovunque e in particolare negli angoli delle varie sale espositive, finestre semi aperte da cui entrano ed escono piccioni e chissà quali altri animali lasciando piume ed escrementi anche all’interno dell’edificio, mozziconi di sigarette spente sui davanzali e lì abbandonate.

Infine mi fermo davanti ad una bellissima e sporchissima porta di cristallo sostenuta da un raffinato telaio in acciaio che si apre su uno spazio buio nel quale provo ad addentrarmi, ma vengo bloccata subito da un cumulo di detriti che si  sgretolano ai miei piedi, facendo rotolare fino a me un fossile annerito di femore umano. Un po' spaventata e mortificata mi dirigo verso l’uscita cercando qualche addetto del museo a cui chiedere spiegazioni per questa situazione tragica, ma i pochi che riesco ad individuare sono tutti intenti a chattare sui telefoni digitali quindi decido di desistere e me ne vado. Il luogo non mi ha tradito, è sempre lì, in tutta la sua grandiosità, ma la sua incuria è un vero e proprio colpo al cuore che viene definitivamente trafitto quando al bookshop cerco di acquistare un testo sulla storia e il recupero della struttura che però è in vendita in tutte le lingue tranne che in italiano e anche di questo problema le commesse presenti non solo mi dicono di non averci mai fatto caso, ma non riescono a fornirmi alcuna soluzione.

Mi chiedo allora se quest’ultima beffa non sia una penosa metafora che racconta di come noi ignari e ingrati italiani abbiamo smesso di amare il nostro immeritato patrimonio, ma soprattutto abbiamo dimenticato la nostra storia e perso la consapevolezza dell’importanza della sua memoria.

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