di Caterina Fochi
ROMA. L’erotismo percepito è un’attribuzione ex post delle menti torbide. Con questa risposta dello stesso Balthus a chi esprimeva inquietudine di fronte ai suoi dipinti chiudiamo da subito l’infelice capitolo che riguarda le innumerevoli polemiche che negli anni passati hanno accompagnato le sue opere e che hanno addirittura portato all’annullamento per censura di una sua mostra in tempi recenti ad Essen in Germania.
Ripartiamo invece da un’altra citazione nella quale troviamo tutto ciò che di Balthus si deve sapere. Ai giornalisti che gli chiedevano ragione della sua pittura rispondeva: Balthus è un pittore del quale non si sa nulla e ora guardate i suoi quadri. Queste parole ci dicono prima di tutto che Balthus non solo era, ma soprattutto voleva essere, un pittore nella sua accezione più autentica, un mastro della pittura che cercava la perfezione tecnica attraverso un processo di ricerca sui materiali, sui colori, sulle matite, sulla carta, con un’attenzione meticolosa e maniacale di cui ci si rende conto osservando l’alta qualità dei rari disegni, dei lavori incompiuti, degli studi preparatori presenti nelle Scuderie del Quirinale a Roma che per la prima volta gli dedica una retrospettiva.
Un pittore quindi che si approccia al suo lavoro mai casualmente, ma con calcolo scientifico e soprattutto con meditata attesa dell’elemento che gli è fondamentale: la luce. (…) bisogna imparare a spiare la luce, le sue modulazioni, le sue fughe e i suoi passaggi. Fin dalla mattina bisogna informarsi sulle condizioni della luce, apprendendo se quel giorno si dipingerà, se ci si addentrerà profondamente nel mistero del quadro. Se la luce dell’atelier sarà buona per mettervi piede (…).
Dell’uomo pittore invece non vogliamo parlare perché, come lui stesso suggerisce, è cosa inutile in quanto dipingere è uscire da se stessi, dimenticare se stessi, preferire l’anonimato a ogni cosa e rischiare talvolta di non essere in accordo con il proprio secolo e con i contemporanei (…) bisogna resistere alle mode, rispettare ad ogni costo ciò che si crede valido per sé e persino coltivare quello che ho sempre definito, come i dandy nel XIX secolo, il gusto aristocratico di non piacere.
Questa premessa era necessaria per arrivare rapidamente senza ulteriori divagazioni ai quadri presenti in questa mostra il cui percorso inizia con una serie di riproduzioni giovanili che rivelano l’imprinting da cui ha origine la sua pittura che tanto deve ad un primo viaggio in Italia e in particolare ad Arezzo, dove rimase profondamente colpito dal ciclo degli affreschi della Vera Croce di Piero della Francesca nella Basilica di San Francesco, di cui non solo ne studia e ne ripete la lezione, ma ne assimila il metodo e il pensiero che da subito riconosciamo osservando La Rue che in questa esposizione abbiamo la fortuna di vedere affiancata ad una prima versione del 1926, che si perfeziona fino al capolavoro del 1933 che, come lo stesso Balthus dichiara, è Il manifesto di un atteggiamento plastico in cui la costruzione geometrica, il ricorso alla sezione aurea, la griglia prospettica e la fissità teatrale dei personaggi costituiscono una rottura con il passato e attuano la realizzazione dei principi di disposizione e stilizzazione osservati nei Primitivi italiani.
Proseguendo poi scopriamo attraverso le illustrazioni e i disegni prima per Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll e poi per Cime Tempestose di Emily Bronte la malinconica fascinazione verso l’infanzia e in particolare verso quel momento ambiguo della prima adolescenza in cui l’innocenza abbozza la prima sensualità inconsapevole priva di malizia, quel momento fragile in cui il progetto della vita è già steso, ma ancora da compiere.
Ecco quindi le tele che ritraggono le giovani modelle nelle pose più insolite calate in un tempo sospeso senza fine che sembrano soprattutto emozioni di un pensiero onirico e che ci preparano e ci introducono a La Chambre 1952-1954 dove una ragazza nuda, abbandonata su una poltrona, viene brutalmente svegliata dall’apertura di una tenda da parte di una torva e deforme serva sotto lo sguardo stupito del gatto, compagno ricorrente dei giochi infantili che osserva come unico spettatore questo passaggio non più rimandabile.
In questa sezione non possiamo non menzionare Les Enfants Blanchard, che fu di proprietà di Pablo Picasso, Le Roi des Chats, autoritratto che tutto ci svela del pensiero più intimo di Balthus così come è un obbligo soffermarci davanti a Le chat de la Mediterranée del 1949, dipinto come insegna per un ristorante, che ci proietta nel mondo onirico in cui esplode senza inibizione il delirio di un sogno folle nel quale i pesci volano dal mare nel piatto di un uomo-gatto dallo sguardo sadico e pronto ad abbuffarsi della freschezza dell’arcobaleno e forse anche di quella della ragazza in barca che felice saluta.
A completamento di questo percorso, a rendere ineguagliabile questa mostra, si innesta l’apertura a Villa Medici degli spazi più emblematici del palazzo, rinnovati e ripensati dal pittore quando, a partire dal 1961, per 17 anni, ricoprì il ruolo di direttore dell’Accademia di Francia a Roma, dove completò la sua formazione italiana e realizzò alcuni grandi capolavori come La Chambre turque, Japoinaise à la table rouge, Nu de profil, che in queste austere stanze oggi ritornano svelandoci l’atmosfera che li ha ispirati.
Il viaggio metafisico nel mondo artistico di questo straordinario pittore si conclude davanti ai dipinti più recenti nei quali leggiamo la riflessione di Balthus sull’incompiuto, sulla suggestione e sulla materia che diventa strumento indispensabile per tradurre la qualità della luce per esprimere una figurazione meno definita fino all’ultimo dipinto, in una delle sue tre versioni, Le Chat au miroir, dal quale ancora oggi, in un tempo immutabile, ci si sente osservati dai suoi occhi felini che per tutto il percorso della mostra non ci hanno mai abbandonato.