di Teresa Fallai

FIRENZE. Anche oggi, come ieri

un piccolo compromesso

una buona misura

per svegliarsi

alzarsi

lasciar svanire l'illusione di aver solo sognato

come ogni mattina.

 

E subito ricordarsi che non l'hai immaginato

ciò che sta accadendo

che non potevi inventarla quella parola:

Pandemia.

Eccola. La prima parola pensata.

È sempre lì.

Anche oggi, come ieri.

 

E allora convincersi che non si può sentire male

sentire la ferita del mondo

in una parola astratta, tecnica

quasi maestosa.

Convincersi che anche oggi ti salverà la noia della colazione

il respiro del giorno.

Mimare la routine domestica

ritrovare quei gesti in cui tutto rimane com'era

e com'eri tu, per riconoscerti.

Una reazione normale.

Umana.

Comprensibile.

 

Poi aspettare il regolare bollettino delle 18.

Ascoltare la conta dei vivi e dei morti.

La conta visibile dei contagiati; dei consapevoli

la conta invisibile degli inconsapevoli

e la conta dei morti, i non salutati.

Non commentare. Non ad alta voce. Fare silenzio.

Tenere a mente i numeri

sommare i numeri, sottrarre i numeri

abituarsi, a QUEI numeri?

 

Ma come ci riesci?

Davvero non senti?

Non senti?!!

Non riesci proprio a farlo un pianto?

Un pianto giusto, dignitoso, dovuto?

No?

Allora fare ordine, si, fare ordine.

Togliere la polvere, che tornerà domani.

Annotare commissioni

riempire il vuoto.

Allora lo senti. Lo senti, il vuoto.

Ignorare le ombre.

Coltivare l'idea di una primavera.

Una qualunque si,

se questa proprio non la vuoi

quella di tutti, quella di adesso

così indecisa, e feroce.

 

Ti basta solo l'IDEA di UNA primavera

che trasformi, ripulisca

rigeneri

perché questa proprio non la riconosci

non sai proprio da dove sia venuta

chi l'abbia concepita.

Ti basta accarezzarti un attimo i capelli, le braccia

sotto il sole di un balcone

per sapere di star bene. Di esserci.

Blindato in casa dentro la tua fortuna.

Nessuna ferita no

Non c'è nessuna ferita.

 

Eppure

senza preavviso

e senza invito

qualcosa ti si para davanti

accanto, intorno:

un balenio di facce, corpi, mani, occhi

occhi celesti appannati, circondati da rughe

simili a quelli di tua madre

occhi bruni, neri, verdi

arrossati, affaticati

abbandonati nelle corsie d'ospedale.

Occhi di infermieri, di medici, di degenti.

Gli stessi occhi di lotta. Di paura.

Ma tu non conosci nessuno.

Lo sai.

Non puoi vedere nessuno così chiaramente.

Nessuna ferita, ricordi?

Nessuna ferita.

 

Eppure li vedi, ancora:

cinesi, indiani, siriani, francesi..

nessuna ferita no..

italiani, inglesi, spagnoli

sono lì, nel tuo campo visivo

respirano, si affannano

nel tuo spazio vitale.

 

Il tuo corpo si estende

la tua casa-rifugio scivola lontano

dove stanno gli altri.

 

Ma anche ora

non una lacrima.

Non liberarsi.

Non farsi uscire niente.

 

Per una volta sorprendersi

infinitesimale

fra tanti

insieme a tanti.

E non rassicurarsi

non consolarsi

non dimenticare.

 

Tenere tutto

prima ancora di capire

di desiderare

che tutto cambi

che tutto sia guarito.

Prima ancora di sperare

(dopo la guarigione)

il miracolo

la rivoluzione.

 

Tenersi in casa

col fiato sospeso

per non nascondersi.

Imparare a sentirla

la ferita.

 

Tenerla al caldo.

come un seme nella terra.

Tenere tutto.

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