di Sura Bizzarri

FIRENZE. Mica sono un critico d’arte, io. Ma sono una criticona, perché sono curiosa; mi piace vedere, esplorare, provare a capire, lasciarmi mangiare dalle immagini e poi farmi rigettare fuori. Ma oggi non son proprio riuscita a criticare, perché non ce ne è stato il motivo. Firenze è ancora scintillante, ma senza la frenesia degli acquisti, nonostante il periodo dei saldi. Anzi, i commercianti hanno un po’ il viso lungo; li capisco, il momento non è dei migliori. Il cielo basso e velato dalle nubi, il freddo della città col sole ostacolato dalle costruzioni, nelle vie strette. Il percorso per arrivare alla mostra multimediale disseminato di sguardi ai ricordi di studentessa (e non solo) e leggermente zigzagato per commemorare i percorsi abituali. Poi via, alla Cattedrale dell’Immagine, nella chiesa sconsacrata di Santo Stefano al Ponte, subito prima di Ponte Vecchio, che alle 18 la mostra multimediale chiude. Multimediale, perché mica ci sono i quadri originali di Dalì. Macché! L’intera mostra è una libera reinterpretazione dell’opera di quel mattarello di Salvador, il pittore, fotografo, modaiolo, l’icona del secolo scorso. Nella prima stanza le informazioni sulla vita e le opere dell’artista, con cartelli e filmati in loop, alcune stampe e il lavoro di Dalì per illustrare la Divina Commedia. Poi si apre una tenda e si entra nel paese dei balocchi.

Nella vecchia chiesa, moquette riscaldata sulla quale è bello sdraiarsi, musica e immagini che colano sui muri, sui corpi dei visitatori. L’opera visionaria di Dalì ingigantita, distorta, sparata dappertutto come se danzasse su una colonna sonora azzeccatissima. Ti senti un po’ nel ventre della mamma, o nella pancia della balena, nel limbo di immagini come sogni che si rincorrono e ti entrano dentro. E alla fine del ciclo di immagini, mica hai voglia di andar via; trovi un’altra angolazione, rivolgi la testa dal lato opposto a quello precedente e ricominci. Di nuovo. Sali le scale del pulpito e provi a guardare da lì (staccato). Entri nella piccola sala degli specchi, ma all’uscita ti vien voglia di sdraiarti di nuovo e ripercorrere la parabola dei ritratti di Gala, dei deserti smisurati con animali mitologici e degli orologi spalmati come uova affrittellate. Ripensi alla tua vita; in fondo Dalì è morto negli anni ‘80, già lo conoscevi quando eri una ragazzina. Ti ricorda le estati in piscina, lui con la sua vita gioiosa, raccontata dai rotocalchi, piena di party, donne, colori. Ti ricorda la musica, il jet set di cantanti, attori, artisti. E le immagini ti trasportano nelle calde stagioni spagnole; donne affacciate a finestre sul mare, nudi, cavalli, elefanti, teschi e scheletri che cavalcano. L’intera parabola della vita che si mescola nel teatro dell’esistenza. Oltre all’interpretazione che dell’opera di Dalì hanno dato i curatori della mostra c’è la tua, quello che il tuo sguardo, i tuoi sensi, hanno percepito nell’incanto di questa esperienza multimediale; ognuno assecondando la propria sensibilità ha lasciato vibrare le sue corde. Qualcuno avrà rivissuto estati quasi dimenticate, nel gusto tondo di quelle figure calde. Qualcuno avrà ritrovato le paure dell’infanzia, altri avranno sentito l’alito pungente della morte. Sta di fatto che ho varcato la soglia del museo nel bel mezzo dell’inverno e ne sono uscita con la primavera negli occhi, con la sensazione di nuotare in acque chiare e profonde. E naufragar m’è dolce in questo mare.

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