di Letizia Lupino
PISTOIA. Accogliendoci all’ingresso del Funaro il viaggio verso una terra sconosciuta e lontana inizia prima ancora di sedersi. La sala è scura e fumosa, sembra anche più piccola del solito. Qualcuno a passo di lumaca coordina la fila: ci sono istruzioni da seguire. E così con le cuffie ben calcate sulla testa sembriamo tante piccole lucciole che, fra l’incuriosito e lo stranito, attendono lo sferragliare della carrozza che ci contiene. Come se non fosse abbastanza, l’oscurità, quindi, si fa ancora più scura e l’immagine di una città lontana avvampa nelle nostre iridi già ampiamente abituate al buio; è la voce di Sara Bevilacqua quella che ci accompagna nel labirinto di eventi che sconquasserà la serena e lucida routine del villaggio di Hamelin, come se quella luce che la irradia sia l’unica forza contro le incalzanti tenebre che la avvolgono tutto intorno. È il racconto che si fa reportage tipico di Chi l’ha visto? che viene dal C’era una volta, di un evento non ancora risolto che tra trascrizioni e passaggi orali si perde nella notte dei tempi fondendosi fra realtà e fantasia, tra finzione e scherno, tra il gioco e la verità. Toccherà a Fabio Tinella con la regia di Tonio de Nitto rischiarare quel buio paralizzante. E lo faranno con grazia e delicatezza, utilizzando piani e generi diversi che alle volte poco si accorderanno nella totalità dell’opera; l’atmosfera però è magica, l’ampio buio e solo due luci calde agli angoli del palco rendono il menestrello Fabio Tinella personaggio onirico strappato via dalla fiaba dei fratelli Grimm: il pifferaio magico in carne e ossa.
Il suo arrancare sul palco trascinandosi dietro un grosso carretto ci fa sentire tutta la fatica di un lunghissimo viaggio che lo ha stremato e affamato e da cui si snocciolerà l’avventura dello stesso che tenterà, dietro giusta ricompensa, di salvare Hamelin dei topi. I punti di vista e i generi si mescoleranno, dunque: dalla voce fuori campo in stile giornalismo di inchiesta al mimo, arte circense con un senso in meno solo da scimmiottare, all’uso delle marionette tirate fuori da quel carretto che sembra quasi la valigia di Mary Poppins, in una grande ricetta che tenterà di ingolosire grandi e piccini. E cucchiaiata dopo cucchiaiata, i piccini si lasceranno sfamare dal menestrello, lo inciteranno e parteggeranno per lui come per ogni buono di ogni fiaba che si rispetti. I grandi invece, difficilmente irretibili da modi buffi e fanciulleschi, si limiteranno a guardarlo bonariamente come si guarda qualcuno di vagamente imbranato in ogni cosa che fa, non lasciandosi coinvolgere nemmeno nella grande festa finale dove palco e platea idealmente avrebbero dovuto fondersi insieme. Vuoi perché l’adulto è un fanciullo che non ce l’ha fatta? O vuoi per l’ordinaria morale che ci ha bacchettato accompagnata poi nelle nostre orecchie dalle note di Jovanotti. Una porta spazio temporale che ci ha catapultati da un mondo all’altro, da fendere le onde della fantasia ad attendere la fine della festa dell’oratorio. Percezioni che cambiano dal basso dell’esperienza all’alto di tutto ciò che è ancora da scoprire, con la capacità di lasciarsi sorprendere ancora e rapire dalla bellezza di avere occhi spalancati e labbra schiuse. Peccato. Strappati via dal grembo accogliente della narrazione come se il raccontare storie sia a uso esclusivo dei bambini, e perciò per loro fatto con tutti gli accorgimenti che si ritengono, per eccesso di zelo, opportuni o al contrario colorire maggiormente un linguaggio per irretire l’adulto che ascolta. Allora no, via le cuffie, via il linguaggio volgare che pare non indispensabile, via la morale, via Jovanotti e lasciateci sognare in pace!