di Sara Pagnini
FIRENZE. Al Teatro Verdi una prima assoluta (in forma maior) – sabato 30 novembre e domenica 1° dicembre - dal titolo Puccini Dance Circus Opera, per coro di corpi e strumenti; un omaggio al maestro, scomparso a Bruxelles il 29 novembre di cento anni orsono. Un omaggio al suo genio e alle sue donne immortali. Uno spettacolo dove si incontrano teatro, danza, musica dal vivo, opera lirica e circo contemporaneo. Un connubio decisamente inconsueto, con una grande profusione di energie e professionalità: dodici artisti (sette performer, un trio d’archi al femminile, una musicista di elettronica, una direttrice d’orchestra) e i trentasette musicisti dell’Orchestra della Toscana diretta da Gianna Fratta. Il progetto, ideato diretto e coreografato da Caterina Mochi Sismondi - fondatrice della compagnia blucinQue (centro nazionale di produzione per il circo contemporaneo) - è ambizioso: mettere in scena le caratteristiche di cinque icone femminili delle opere del compositore: Manon Lescaut, La Bohème, Tosca, Madame Butterfly e Turandot. A interpretarle cinque danzatrici circensi, che proprio in ragione della loro formazione mostrano più la potenza fisica che l’espressività. Le donne pucciniane, quasi tutte impegnate soprattutto in coreografie aeree (per esempio la vertiginosa sospensione capillare che fa volteggiare la Butterfly, o la corda aerea che diventa una protezione per Turandot) portano lo spettatore in un mondo onirico, e invece di, come spesso accade nell’universo femminile, cedere alla rivalità, Cio Cio San, Manon, Mimì, Tosca, Turandot, sono solidali l’una con l’altra. La costruzione dello spettacolo a tratti risulta un po’ ingenua nella sua complessità, ma in fin dei conti riesce a trasmettere una sensazione lieve e sospesa come lo è la speranza. Tra le donne di Puccini il Teatro Verdi predilige di sicuro Manon; qui infatti debutta Manon Lescaut (il teatro all’epoca si chiamava Pagliano): era il 1894 e fu un successo. A chi gli chiese il motivo per cui avesse scritto un’opera su un soggetto utilizzato da Massenet, Puccini rispose: E perché no? Una donna come Manon deve avere più di un amante.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse, e l’innocenza sulle gote tue, due arance ancor più rosse. Mugolandola la canticchio ancora, cercando così di mantenere vivo quel suo attacco a cappella, da dietro le quinte che piano si avvicina ed entra sul palco. Un cantato sottile, rotondo e pieno, ma quasi sbadato, come se nel mentre si stesse facendo esattamente altro: chi parlotta, chi scarta le brochure svogliate prese all’ingresso, chi si perde nei meandri dello smartphone, chi si aggiusta e chi si sbriga a sedersi. È un po’ così, è un po’ come sempre. Poi le luci si abbassano, si spengono e temi musicali diversi cominciano a rincorrersi snocciolando i minuti che passano come un rosario; nel mentre l’orecchio si quieta. E infine lei, quella voce che già si insinua spavalda rivelando il non più mistero della serata: Cristina Donà e i suoi Spiriti Guida attraversano il palco con in pugno tutto il tempo del nostro mondo in quel momento. Decisa e sicura, presente a noi e a sé stessa, si siede laddove le esigenze artistiche e tecniche la vogliono. Tre microfoni, due leggii, diverse chitarre e bassi elettrici e una tastiera. Non sarà da sola. Nell’attesa che si interpone tra noi e tutto il resto c’è la spinta che porta la Donà sul palco del teatro Bolognini di Pistoia a raccontarci una storia, a raccontarsi nella sua storia, tramite appunto quegli spiriti guida che le hanno preso la mano per farle aprire porte proprio dove convintamente pensava ci fossero muri. E la porta che si spalanca a noi è quella di un Artista totale e totalizzante che conquistando mete nazionali e internazionali ci fa assaporare il suo personale percorso, che, evidentemente, non poteva non intrecciarsi con Saverio Lanza, imprescindibile in questo curvilineo racconto musicale. Si alterneranno, si supereranno, si allineeranno, lei, lui e gli spiriti guida, quelle canzoni cioè che hanno fatto da ponte ad una maestria senza misura. Due ore in cui si parlano e ci parlano di noi e di loro attraverso Grace, Bandiera bianca, Il senso delle cose, Reason to believe, Goccia, Ninna nanna libanese, Maryan, Altissimus e così via. Un vortice psichedelico sinuosamente nostalgico, da pelle d’oca, ma anche arrogante e potente, tanto da far tremare le poltrone, tanto da far alzare il pubblico in piedi, tanto da sentire una sola singola voce levarsi dal pubblico per dirle Brava! Sì, brava!! Un’urgenza, forse banale, ma un’urgenza, spinta fuori dal cuore, dal sangue, dal valore incommensurabile di Donà e Lanza. E domani pomeriggio, domenica 20 ottobre, alle 16,30, il gradito e forbito repertorio musicale sarà nuovamente offerto al pubblico del Teatro Mascagni di Popiglio.
PISTOIA. Ognuno si ricorderà di Nicola Nick Becattini come meglio crede. I nomi li abbiamo scritti entrambi perché tra quelli che oggi pomeriggio hanno affollato la chiesa di San Paolo, a Pistoia, per l’ultimo saluto (la foto è di Fiorenzo Giovannelli) a una delle chitarre più affascinanti in circolazione, anche se la stragrande maggioranza terrà a mente Nick e la sua sei corde, molti altri affonderanno la propria memoria ricordando semplicemente Nicola, un ragazzo del 1962 come tanti di quell’annata e di quella generazione, con un presente ricco di sogni e un futuro tutto da immaginare. Noi, che facciamo parte, naturalmente, della schiera più robusta (e di quelli che ci dovevano essere non mancava proprio nessuno), abbiamo, rispetto a tutti gli altri, un grande dovere: onorarlo. Sì, certo, continuando a suonare, dal vivo, senza accorgimenti, casomai steccando con lo strumento e la voce, continuando, in parole povere, a regalare emozioni a chi ne ha bisogno. Ma di Nick, ora, resta e resteranno, al di là di ogni ragionevole e struggente messaggio musicale, strumentale, culturale e morale, Luisa, Bambi e Marco: la compagna dei suoi progetti e i loro due figli. Con loro, però, dovremo suonare un’altra musica; primo, perché in pochi sanno fare con la chitarra quello che Nick faceva con la sua, ma soprattutto perché gli amici di Nick avranno il compito di non far sentire mai soli Luisa, Bambi e Marco. Chiacchiere, certo. Quando cala la sera e ognuno si ritira nella propria abitazione, non costa molto dedicare a Nick e alla sua famiglia un pensiero. Non basta. Non basterà. E lo sappiamo tutti. Bisognerà fare in modo e maniera che tutti i giorni, attorno alla casa di Camaiore, il sole emani solo calore e non afa, il freddo non sia mai pungente e la notte non diventi mai terribilmente buia. Lo scriviamo perché a questo serve il Blues, perché per questo motivo è nato il Blues. E Nick era un uomo di Blues e agli uomini di Blues, chi resta, ha il dovere di riservare queste attenzioni.
di Alessandro Giovannelli
PORRETTA (BO). Porretta Soul vuol dire emozioni. Talvolta, tanto intense da scolpirsi nella memoria di chi assiste alla celebrazione di questo piccolo grande rito. Sabato, il rito, si è ripetuto ancora una volta. E le emozioni sono state l'ingrediente principale per i circa duemila iniziati. Ma andiamo con ordine. A Porretta, come sempre, si fanno le cose sul serio. La piccola cittadina immersa tra i monti e i boschi dell’Appennino tosco-emiliano, viene definita Soulsville Europe, non a caso. È una piccola – piccolissima – Memphis. E, si sa, a Memphis e, di conseguenza, anche a Porretta, i festival e i concerti soul si fanno come Dio comanda. La Memphis Music Hall of Fame Band, la house band di questa trentaseiesima edizione del Porretta Soul Festival, è una house band appunto come Dio comanda; e si distingue per il groove formidabile e per la solidità che mette al servizio della musica e dello spettacolo. Lo si era visto già nella notte di venerdì, quando la band capitanata dal music director KC, Kurt Clayton, produttore, autore, arrangiatore, magnifico tastierista, già collaboratore di nomi del calibro di Chaka Khan, Stevie Wonder e George Clinton, come opportunamente ricordato dal gran cerimoniere, Rick Hutton, ci ha fatto vedere di che pasta è fatta. Lo abbiamo visto quando hanno accompagnato Jonathan Ellison e Jerome Chism; ma, prima ancora, lo avevamo visto quando si sono presentati al pubblico di Porretta e ci hanno mostrato le grandi qualità canore di Shunta Mosby, Dani McGhee e Candy Fox, le quali, nel proseguo della serata, hanno ricoperto il ruolo di coriste. Ma torniamo a sabato. E, non ce ne vogliano, mettiamo un attimo da parte la house band di Memphis, dalla quale torneremo tra poco, volentieri, per raccontare la seconda (ampia) parte della serata. Perché il terzo appuntamento col PSF, edizione 2024, si è aperta con Alabama Mike, accompagnato dalla francese Soul Shot Band e nientemeno che Eamon Flynn alle tastiere, cioè l’hammond e il piano dietro alla colonna sonora da 14 milioni di dischi venduti di The Commitments. Alabama Mike è ben più di un semplice opening act. Sulla sua provenienza, non c’è molto da specificare. Ciò che, invece, merita di essere sottolineato è che Mike dall’Alabama, nativo di Talladega, classe 1964, da tempo vive nella Bay Area di San Francisco e proprio da quelle parti si è fatto conoscere come una delle voci più importanti del blues della West Coast. La sua storia presenta diverse connessioni col festival: da una decina d’anni a questa parte, tra le sue collaborazioni, ne figurano alcune con nomi familiari agli avventori del Soul; su tutti, Anthony Paule, uno di quelli che non ha bisogno di presentazioni, direttore della house band porrettana per molti anni; ma anche il bravissimo e funambolico batterista D’mar, oltre alla leggenda Bernard Pretty Purdie. Se non bastasse per capire con chi abbiamo a che fare, Mike ha collaborato anche con Rick Estrin, con Jerry Jemmott, bassista blues di grande (e meritata) fama, e uno degli idoli assoluti del sottoscritto, e con Kid Andersen, musicista e produttore, gran capo dei Greaseland Studios di San Jose, California, collaboratore anche di Chris Cain, un altro che sa orientarsi bene sulle strade polverose del blues, tra le brume della baia di San Francisco e dintorni, spettacolare chitarrista e cantante, la cui performance ha illuminato la serata di giovedì, all’apertura di questa nuova edizione del PSF. Il set di Alabama Mike, dicevamo, non è stato una semplice apertura: ha eseguito diversi pezzi dall'ultimo album Stuff I've Been Through, datato 2023, un disco che vale la pena di essere ascoltato dall’inizio alla fine. Provare per credere. Dal vivo, la Soul Shot Band riesce a reggere dignitosamente il confronto coi mostri sacri che hanno lavorato alla realizzazione del disco (oltre ai già citati Jemmott, D’mar, Estrin, Andersen, anche un certo Jim Pugh alle tastiere). Notevole la versione di Can't Stay Here Long, dal disco del 2016 Upset the Status Quo. Dal recente Stuff I've Been Through, vale la pena citare Goodbye Tamika, oltre alla title track e il bel funky (auto)ironico, con un incedere del cantato che, in apertura, pare quasi alludere ad un rap, dal titolo eloquente, Fat Shame. Nina Simone diceva, Alabama's gotten me so upset / And everybody knows about Mississippi, goddamn. Alabama Mike, verso la fine, ha eseguito Mississippi. Ma niente a che vedere col messaggio lacerante della Simone: per Mike, I’m Going Back to Mississippi è un ritorno assai meno doloroso. Con grande puntualità, intorno alle 21.30, arriva il momento della house band. Lo dicevo poc'anzi e lo ribadisco: sono formidabili. Vediamone la formazione. Oltre al direttore musicale e tastierista, Kurt KC Clayton, alle chitarre troviamo Garry Goin e Steve Bethany, al basso Dwight Sanders, all’organo e tastiere Darryl Sanford, alla batteria Carlos Sargent, al sax tenore Alan Clayton, fratello di KC, alla tromba Paul McKinney, al trombone Victor Sawyer. Le tre splendide Ladies of Soul from Memphis sono Shunta Mosby, Dani McGhee e Candy Fox. Tocca proprio a loro, dopo un’introduzione strumentale della band e un breve intermezzo di Rick Hutton sulle note di Everybody Needs Somebody to Love, dare inizio ad un set che, con l’alternarsi dei prestigiosi ospiti, si rivelerà magico. Il primo è Gerald Richardson, che dimostra tutto il proprio valore con una versione di Ain't No Love in the Heart of the City di Bobby Blue Bland da manuale del soul: per la voce, l'interpretazione e, ancora, il feeling della band. L’esibizione di Richardson, però, prende presto una piega inaspettata e particolare: su Naturally, pezzo originale di Gerald, e Simply Beautiful di Al Green, un certo numero di ballerine del posto si uniscono allo spettacolo, facendo innalzare la temperatura della performance; e non stiamo parlando di clima. È poi il momento di Billy Vera. Che dire di lui? Più che un musicista, è una vera e propria leggenda vivente, una sorta di icona pop, capace di attraversare il firmamento dello spettacolo del secondo ‘900 con una grande carica di talento ed eclettismo. Oltre che cantante ed autore, Vera si è cimentato anche col cinema e con la televisione in qualità di attore. La sua storia musicale inizia negli anni ’60. In quegli anni, scrisse Don’t Look Back, brano successivamente reinterpretato da Robert Plant. La svolta arrivò quando Jerry Wexler lo mise sotto contratto con l’Atlantic Records e scrisse Storybook Children, canzone d’amore che incise insieme alla cantante nera, Judy Clay. Questo è un passaggio di rilievo per questa narrazione, perché proprio due pezzi originariamente cantati con la Clay, Country Girl, City Man e la già citata Storybook Children saranno reinterpretate insieme ai Memphis Music Hall of Fame e a due voci femminili di straordinario valore: Shunta Mosby, come abbiamo visto una delle tre coriste, anche se definirle così suona riduttivo, visto l’immenso talento che hanno messo in mostra tra venerdì e sabato, e Wendy Moten, che non ha bisogno di presentazioni e della quale parlerò più avanti. Billy parla molto. Ama raccontare. E noi non ci stancheremmo mai di ascoltare. Ed è proprio grazie ai suoi racconti che le esecuzioni dei pezzi cantati a suo tempo con la Clay hanno assunto un carico emotivo altissimo. Vera ha raccontato che era la sua prima volta in Italia, e che quei due pezzi non li aveva mai più cantati in coppia dopo la dipartita di Judy. Ha raccontato che cosa volesse dire far parte di una coppia artistica interrazziale nell’America della segregazione. Un fattore, quest’ultimo, opportunamente ricordato e sottolineato anche da Graziano Uliani al momento della premiazione, quando cioè ha consegnato a Billy Vera il consueto riconoscimento che viene assegnato a personalità tanto importanti da aver dato un contributo alla diffusione della cultura musicale, in particolare della soul music, e alla storia del Porretta Soul Festival. Inutile dire che quei due brani sono stati l’apice emotivo della serata. Uno di quei momenti che sanno, appunto, di rito. Che ricordano che la vita è fatta di alti e bassi, di gioie e dolori. Ma anche, e soprattutto, di vuoti da colmare, di ricordi, dell’inesorabilità dell’incedere del tempo, di momenti di vita vissuta; impossibili da replicare, certo. Ma la musica, la grande musica, il rito collettivo del concerto, a maggior ragione se messo in scena in uno spazio intimo come l’arena Rufus Thomas di Porretta, consente di rievocare momenti e persone che non ci sono più, di riportare al cuore di chi partecipa al rito le sensazioni che hanno dato vita, nel tempo che fu, a dei piccoli incantesimi. Quegli incantesimi, in questa splendida serata, sono state quelle due canzoni. Ci sono stati altri momenti di grande e profonda intensità. A partire dall'esecuzione, sempre di Billy Vera, della slow ballad At This Moment. E poi, l'intera esibizione di Wendy Moten, volto del manifesto del festival e, in qualche modo, tanto iconica da riassumere in sé il significato della parola soul, nella sua declinazione made in Porretta. Un graditissimo ritorno, il suo. E stiamo parlando di un'artista che di ritorni se ne intende. Una carriera che, a dispetto della giovane età, ha attraversato quattro decenni, dagli esordi sulla scia di Whitney Houston fino alla partecipazione, relativamente recente, a The Voice di Nashville. Proprio di ritorni e della necessità di non mollare mai, ne ha cantato nel suo brano Don't Give Up. La sua performance ha incluso pezzi di Aretha Franklin (Ain't No Way), Stevie Wonder (As), alcune sue composizioni originali e il gran finale con Think, insieme a Gerald Richardson e col supporto delle voci meravigliose della sezione cori. La sua presenza sul palco è un invito nel segno dell'accoglienza. Un invito, ancora, ad esser parte di quel grande rito collettivo che è Porretta Soul. Un invito al quale il pubblico non manca mai di rispondere presente.
PISTOIA. Il rischio che il teatro (con la ti minuscola, ovviamente) diventi preda di chiunque abbia un piccolo grande afflato interattivo, dotato di un buon diaframma e si possa permettere il lusso di raccontare nulla, spacciandolo addirittura per geniale, facendolo, naturalmente, con sapienza ed eleganza e rinunciando rigorosamente a regia, scenografia e del pathos di cui il palcoscenico non può fare a meno, inizia a prendere pericolosamente corpo e siamo terrorizzati all’idea che presto, con la velocità con la quale si assiste ormai a grandi trasformazioni, sui palcoscenici dei teatri che verranno ci siano sempre meno attori e più affabulatori. Che cosa vorremmo insinuare, che Marco Cavalcoli non sia un attore? Giammai. Per il 54enne artista bolognese parlano le cronache: premi Ubu, riconoscimenti piovuti a dismisura, tournée in tutto il Mondo: cos’altro deve dimostrare? Nulla, ci mancherebbe altro, ma in assenza di idee, ci si può anche fermare un attimo, riflettere e aspettare che la genialità, spesso stimolata da imprevedibili accadimenti che non sono ascrivibili all’arte, ma alla cronaca e alla quotidianità, sia nuovamente sollecitata e partorisca qualcosa che abbia senso mandare in scena. Lo scriviamo all’indomani di Santa Rita and the spiders from mars, in scena al Funaro di Pistoia, al cospetto di una platea intiepidita solo e soltanto dalla meravigliosa capacità oratoria, sintattica ed enigmistica, di Marco Cavalcoli, che nell’occasione ha voluto mettere, a immaginifico dialogo, David Bowie e Paolo Poli, che per noi, in comune, hanno solo l’anno della scomparsa: il 2016. Per il resto, al di là dei quattro lustri che si passano dalla nascita, la pacifica e coraggiosissima irriverenza del fiorentino mal si concilia con il biblico rivoluzionarismo del londinese. Ma non vogliamo continuare sulla linea dei distinguo intellettuali, epocali, storici e personali tra i due artisti chiamati in causa; correremmo seriamente il rischio di voler obiettare sull’improponibilità di un connubio che non farebbe altro che aumentare la peccaminosa benevolenza che si finirebbe per tributare alla rappresentazione. La cosa che ci preme invece sottoscrivere è che uno spettacolo del genere non è uno spettacolo, ma soprattutto non è uno spettacolo teatrale. Che ha bisogno di una serie di dettagli, tutti indispensabili alla causa, dei quali Marco Cavalcoli ha bellamente deciso di fare a meno. E non possono bastare, in alternativa, un interminabile scioglilingua alfabetico di aggettivi, un’altalena fonetica anglo/fiorentina e neanche un’impressionante predisposizione al canto a cappella. Per assistere a Santa Rita and spiders from mars non si dovrebbe andare in alcun teatro e non si dovrebbe pagare alcun biglietto; Marco Cavalcoli potrebbe girare per le strade del centro di Firenze e raccontare, come fanno gli artisti di strada che si rispettino, le sue visioni. Potrebbe anche mettere, davanti a sé, un cappello rovesciato nel quale i passanti potrebbero lasciare qualche moneta e, soprattutto, scrutando il viavai di umanità, lasciarsi folgorare da una storia attorno alla quale costruire un racconto da portare a teatro. Anzi, a Teatro, uno di quelli che lui conosce perfettamente.
PISTOIA. Dal Teatro, anche quello meno sontuoso e affidato ad aspiranti e futuribili, è lecito, anzi, doveroso, bisognerebbe forse sottolineare, aspettarsi altro. Però, lui, Federico Buffa, che nel Teatro è stato catapultato dall’effetto elastico del piccolo schermo e che temiamo sia soltanto all’inizio, è, onestamente e oggettivamente, una macchina, perfetta, di nozioni, precisione, passione, storie e leggende, romanticismo e illuminismo, verismo e decadentismo, fascino allo stato puro, anche con le più alte dovute e doverose possibili detrazioni. Aggiungiamoci pure, perché anche questo ha la sua rilevanza nella totalità del giudizio empirico ed epidermico, che Federico Buffa è uno straordinario sessantacinquenne (succederà il 28 luglio; ci siamo via), che può indossare, con esemplare naturalezza, un completo sobriamente grigio scuro, con gilè grigio chiaro, in qualsiasi circostanza, compresa quella di ieri sera, al Teatro Manzoni, dove ha portato in scena, al cospetto di una platea quasi unicamente maschile (effetto stranissimo, credeteci) e quasi tutti sopra i centoottanta centimetri, La Milonga del Futbol. Sono tutti molto alti gli spettatori di questa avvolgente narrazione, perché Federico Buffa è stato catapultato, con dovuta ragionevolezza, nell’olimpo dei cronisti cantastorie di tutti i tempi grazie alle sue decennali esperienze cestistiche. Ma il racconto, questo racconto, prodotto da International Music and Arts, con la regia di Pierluigi Iorio, puntellato da premesse storiche tardo medievali, da flussi demografici di storici espatri, che hanno sancito nel tempo quanto siano italiani gli argentini, aneddoti e raccordi di rara puntualità e verità, parla di tre grandi piedi sinistri, tre mancini, argentini appunto, che hanno fatto la storia, anzi, la leggenda, del calcio di tutto il Mondo: Renato Cesarini, Omar Sivori e Diego Armando Maradona. Il racconto, con quel titolo, non poteva certo esentarsi da un doveroso supporto musicale. E Alessandro Nidi e Mascia Foschi, rispettivamente direttore musicale seduto al piano e cantrice robusta e passionaria, hanno fatto, esemplarmente, quello che il copione chiedeva loro. Sul grande schermo che campeggia lo spazio scenico molti spettatori hanno immaginato e perché no, forse, sognato, che venissero proiettate alcune immagini delle giocolerie di quei tre fuoriclasse. Nulla. A parte qualche foto da antologia di libri di scuola media primaria e qualche scatto rubato chissàddove e a chissàcchi, lo spettacolo è stato un fedele, fascinosissimo e struggente ripercorrere la storia di quei tre calciatori, delle loro origini e delle loro uniche e irripetibili esistenze, esemplari oltre ogni ragionevole contestualizzazione, in costante attrito con le leggi, non scritte, del calcio e delle sue regole che proprio quei tre hanno, durante le loro carriere, vanificato, irriso, demolito, tre percorsi alternativi al successo cosmico che hanno significato poi, e soprattutto, le rispettive beatificazioni. Gli spettatori, o almeno la stragrande maggioranza di loro, delle vicende di Cesarini e della sua zona letale, di Sivori e di quel lento, inesorabile sinistro infernale e di Maradona e della sua mano di dio, sapevano già tutto; perché si erano documentati o perché, proprio in qualità di seguaci di Federico Buffa, ne avevano già sentito parlare in uno dei suoi teletrasmessi e seguitissimi racconti. Quelle tre divinità argentine, legate a doppio filo con l’Italia, hanno indotto il crooner milanese a tracciare un segmento fondamentale per la lettura del calcio: la creolizzazione del futbol. Perché se è innegabilmente vero che gli inglesi abbiano inventato il calcio, una delle sue predilette/maledette colonie oltre oceano, l’Argentina, al calcio ha dato i connotati dell’imprevedibilità, della fantasia, dell’amore.
PISTOIA. Accipicchia, se è bravo! Innegabile. Ascoltare Stefano Massini mentre inanella un estratto di alcuni sogni/studi/terapia, che sono diventati, dopo un serissimo approfondimento durato oltre dieci anni, L’interpretazione dei sogni, mimandone, addirittura il linguaggio del corpo dello psicanalista più famoso di ogni tempo alle prese con i suoi pazienti di turno è, oggettivamente, cosa assai piacevole. Che diventa ancor più gradevole, rasentando la perfezione epicurea, grazie alla compresenza, sul palcoscenico del Teatro Manzoni (si replica oggi, domenica 17 febbraio, alle 16) delle musiche di Enrico Flink eseguite dalle tastiere e dal trombone di Saverio Zacchei, dalle chitarre di Damiano Terzoni e dal violino di Rachele Innocenti. Perché lui è un narratore invidiato da molti onemanshow, un affabulatore con pochi rivali, un profondo e dotto conoscitore degli argomenti dei quali si permette il lusso di trattare; lo fa con estrema competenza, elegante precisione e anche se, come si legge sulle note di sala, figlie di una comune impressione, è annoverato tra gli intellettuali meno autocelebrativi in circolazione, si capisce lontano un miglio, invece, la natura dei suoi approfondimenti didattici universitari, ma soprattutto i suoi studi giovanili, quelli liceali ginnasiali e classici del Dante di Firenze, dove è nato e dove, siamo pronti a scommettere, abbia frequentato il corso della sezione A, massimo, B. La piacevolezza estetica del suo slang sempre tenuto sotto rigido, ma elegante, controllo, l’accortezza delle movenze, esposte a qualche aulicismo decisamente teatrale, la precisione, quasi tassonomica, di date, posti e circostanze hanno, con disinibita e gradevole accortezza, letteralmente spodestato il nucleo teatrale sostituendolo con uno da simposio, nel quale sono soltanto mancate le bevande e le vivande da distribuire agli spettatori. È così ammaliante ascoltare le conversazioni di Stefano Massini che lo snocciolare di personaggi che si sono accomodati sul lettino d’analisi austriaco ha trasformato un esauriente saggio psicanalitico, correttamente puntellato da nozioni e agganci, in uno spettacolo, con un fragoroso battimani conclusivo, facendo dimenticare, del tutto, al pubblico, che al di là di una maestosa memoria e di un intrigante sciorinare di ricordi inconfessabili se non sdraiati al cospetto della divinità psichiatrica, quello di ieri sera tutto sia stato fuorché teatro. E non certo per una deprecabile o incondivisibile morale, conclusione, equazione, ma per la sua totale assenza. Non lo scriviamo al termine di una serata noiosa; anzi: in più di una circostanza ci siamo lasciati completamente risucchiare dalla vicinanza dei sogni di alcuni dei pazienti di Sigmund Freud con quelli che, quando li ricordiamo, facciamo anche noi; la paura del buio, la mitizzazione dei nostri padri, il nostro personalismo/egoismo che trasforma le nostre abitazioni in ristoranti/alberghi, gestiti non da locandieri, ma dalle nostre mogli, madri dei nostri figli. Un’accurata ed esaustiva casistica onirica che merita, senza condizionali, un serio approfondimento, che ognuno di noi, e noi per primi, faremmo meglio ad affrontare molto seriamente, prima che sia troppo tardi. Siamo giunti a questa conclusione quando il quarantanovenne mattatore fiorentino, nel bel mezzo del crepitio degli applausi, ha voluto ricordare la nuova immane tragedia consumatasi, il giorno prima, su un cantiere fiorentino, dove cinque operai, contrattualizzati chissà sotto quale forma, hanno perso la vita a causa dell’improvviso crollo di un’impalcatura. Lo ha fatto – e questo ci ha quasi obbligato a fare riflessioni altre - riproponendo la canzone che ha presentato, la settimana precedente, al Festival di Sanremo, che noi, come tutti gli anni, compresa l’edizione nella quale fummo inviati dal Corriere di Livorno, non abbiamo visto.
PISTOIA. Imparate a dipingere come i vostri insegnanti; poi, fate come volete: nessuno vi mancherà di rispetto. Così si rivolse Salvador Dalì ai suoi allievi al termine del primo corso. È quello che han fatto, molti anni fa, da giovinetti, i Chicos Mambo, che i quadri li compongono con il corpo, sulle punte dei piedi, con addominali, deltoidi e quadricipiti tirati a lucido, sbeffeggiando, senza il minimo riguardo, tutto e tutti, ma in particolare il mondo cristallino della danza tutta, che adorano e nel quale si immergono con totale abnegazione e che conoscono, indiscutibilmente, con imbarazzante meticolosità. Ieri sera, per fortuna, con la neo Direttrice Artistica della danza della nuova Atp, Lisa Cantini, con il solito broncio dal quale non si evince mai se stia andando o ritornando, che si ripeteva, sorridendo, ve lo dicevo io, che questi spaccano, al cospetto di un Teatro Manzoni pieno come mai è successo prima per uno spettacolo di danza, gli spettatori, tutti, grandi e piccini, compreso un neonato che a un certo punto ha iniziato a piangere, ma solo perché aveva fame, sete, sonno e quant’altro, si sono divertiti. Assai. Certo, Tutù, la performance dei Chicos Mambo (Vincenzo Veneruso, Vincent Simon, Julien Mercier, Marc Behra, Kamil Jasinski, David Guasgua Zentaï e Corinne Barbara) gira il mondo ormai da dieci anni; rodaggio e sit ne han provate a dismisura, ma vederli – e a Pistoia, per molti, è stata la prima volta – è una gioia totale, una macedonia di bravura, ginnastica, ironia e tanto, tanto divertimento. Sempre vestiti da donna, da damigelle con il tutù, con abiti lunghi da sfilata, con pompon da vallette, alcuni con chiome nostalgiche, altri glabri totalmente, tutti con voluminose parrucche, con qualche tatuaggio indecifrabile, barbe dartagnanesche e facce semiserie, vestiti sotto la guida della costumista Corinne Petitpierre, ma sempre sfoggiando una distribuzione muscolare esemplare, quella che ha consentito a tutti i protagonisti di volteggiare, senza soluzione di continuità, per più di un’ora, sul palcoscenico del Manzoni, sulle note scelta da Antisten, guidati e coreografati da Philippe Lafeuille e giocando, spudoratamente, con la vita e con i suoi irritanti luoghi comuni, quelli imposti dal tubo catodico, dalle mode, dalle tendenze. È vero: non abbiamo i mezzi artistici per tributare, agli esibitori, il passaporto della genialità o poter bollarli come impostori. Così come ci è già successo ammirando la bambina prodigio Nadia Comaneci o il giovane mostro degli anelli, Yuri Chechi: ci hanno emozionato, fino alle lacrime, senza che capissimo perché. Le loro esibizioni sono rimaste nell’immaginario collettivo di chiunque li abbia visti e anche con i Chicos Mambo, la sensazione, con tutti i benefici d’inventario e di proporzione, è stata la stessa. Perché vederli all’opera, seppur molti dettagli tecnici ci saranno, irrimediabilmente, sfuggiti per mancanza, cronica, di elementi oggettivi, è, al di là delle più remote conoscenze, un gran lusso: danza classica, danza moderna, danza alternativa; ginnastica, ginnastica ritmica; da Nureyev a Bolle, dalla Fracci alla Bausch, con tutta la scuola più giovane della Morganti, scomodando, con immenso onore, Tati e Chaplin, in una girandola accecante di colori, suoni, luci, sistematicamente intervallati da piccole grida isteriche, che hanno aggiunto ulteriore parossismo a un’esibizione che seppur orfana di numeri da wow, è stata una piacevolissima maratona di irridente bellezza.
FIRENZE. Non vi lasciate ingannare dai paraventi colorati, di carioca memoria, che adornano ogni terrazzo del complesso edilizio di via Liguria, alle Piagge, periferia ovest di Firenze. L’aria che si respira, in quel suburbio, nonostante da tempo la mano di don Alessandro Santoro abbia già fatto la Rivoluzione, è ancora quella di un ghetto, con tutti i suoi crismi: architettura, residenti, ma soprattutto l’aria. E nemmeno oggi pomeriggio, quando al civico 10 di via Liguria sono arrivati quelli di Stazione Utopia, a stravolgere l’ordinario nichilismo dell’intero agglomerato, nemmeno i condomini occupati e violentati da danzattrici, danzattori, scenografi e operatori culturali, si sono sentiti in diritto di rivendicare, proprio come fanno, con estrema naturalezza, quelli che vivono in altri quartieri, uno spazio che esuli dalla semplice sopravvivenza che costringe tutti a condividere affitti, parcheggi e zone di ricreazione in sistematica coabitazione con criminalità, gioco del calcio e gratta e vinci. Qualcuno, però, di quelli che in via Liguria 10, alle Piagge, nella migliore delle ipotesi, ci morirà di vecchiaia, sognando di trasferirsi altrove, oggi pomeriggio, invece che andare a fare la spesa alla Coop, soprattutto approfittando della tregua metereologica, ha deciso di fermarsi nella tromba delle scale dal piano terra al quinto per cercare di capire perché, invece che in un teatro o in uno spazio consono, quei ragazzi, giovanissimi e uno più bravo dell’altro, abbiano deciso di mettersi a danzare sui pianerottoli. Le nove performance, battezzate dalla politica cittadina che ha inviato in loco, come timbro di avvenuto sodalizio, il vice sindaco di Firenze e il Presidente del V° dipartimento cittadino, hanno seguito un percorso ascensionale: dal piano terra al quinto e relativa discesa, con addetti ai lavori, spettatori consapevoli e altri occasionali, perché condomini, che ogni dieci minuti, finito di applaudire l’esibizione appena terminata, cercavano spazio e posti ideali per assistere alla successiva. Per questo, non potremo non parlarvi di Alice Catapano e Matteo Capetola, che per avvinghiarsi, combattere, cercare di riappacificarsi, ma per poi tornare a scontrarsi e poi finalmente abbracciarsi, sono dovuti salire fino al quinto piano. Le esibizioni sono partite dall’ingresso, con un tartan nero appoggiato per terra davanti ai due ascensori. In completa tenuta viola, dubitando di qualsiasi omaggio calcistico, Matilde Di Ciolo e Francesca Capurso hanno prima cercato all’unisono i tempi di reazione, per poi decidere di partorire o scegliendo invece, come dolore alternativo alle doglie, quello di trascinarsi, senza l’uso degli arti inferiori, dalla guerra che scoppia alle porte di qualsiasi città. Il condominio, giustamente, ha continuato, imperterrito, a vivere la propria giornata e durante l’esibizione, dalle porte automatiche degli ascensori, sono apparsi condomini che per la prima volta nella loro vita da quando vivono lì, al civico 10 di via Liguria, alle Piagge, si sono sentiti in imbarazzo, come se fossero proprio loro, residenti da molti anni, i veri visitatori, autocostringendosi a scusarsi e chiedere permesso per uscire in strada. Con le performance successive, dal primo piano in su, la convivenza con gli abitanti è stata meno traumatica, anche se dagli androni, per arrivare agli ascensori o alle scale, ogni condomino deve per forza di cose passare dal pianerottolo, dove, su quello del primo piano, c’era Veronica Galdo, di bianco vestita, sollecitata da scatti fotografici in sequenza o scosse con elettrodi che ha dovuto, scomodando la dura linea delle donne in carriera artistica, trascorrere dieci minuti abbondanti della propria esistenza facendo andirivieni sulla passerella. Lo stesso è successo, seppur su altre tematiche, con diverse impostazioni atletiche e alla ricerca di altre risposte, con le esibizioni di Beatrice Ciattini, Sofia Bonetti, Chiara Casiraghi, Cristina Acri, tutte disegnate (non fate accoppiamenti artistici, li citiamo alla rinfusa) da Carmine Catalano, Rosario Guerra, Roberto Doveri, Aldo Nolli, Giovanni Insaudo, chiedendo, qui e ora, scusa a tutti quelli non citati. Ma se questa sera, uno solo di quelli che abitano al civico 10 di via Liguria, nel quartiere delle Piagge, dovesse chiedere, a cena, ai propri genitori, di voler studiare danza, beh, ve lo assicuriamo, sarebbe qualcosa di semplicemente straordinario.
PISTOIA. Poco dopo l’inizio delle visionarie riflessioni ad alta voce (in radio sortirebbero un effetto meraviglioso e se potessimo, vorremmo che i due speaker fossero Paola Cortellesi e Alessandro Bergonzoni) di Caterina Simonelli e Marco Cavalcoli, interpreti delle traduzioni di Roberto Castello che è finalmente riuscito a scippare agli inglesi l’unicità del testo di Tim Etchells, Tomorrow’s Parties, avremmo scommesso che le surreali, ma purtroppo sempre più minacciose, evoluzioni psicofisiche del genere umano e del suo habitat, sarebbero andate lentamente scemando in concomitanza dello spegnimento delle luci a corredo che hanno fiocamente illuminato il palco del Piccolo Teatro Bolognini, a Pistoia, culla di questa prima regionale, dopo il battesimo nazionale metropolitano a Romaeuropa Festival, proprio mentre uno dei due tragicomici sognatori avesse proferito l’ennesima congiunzione disgiuntiva (oppure), nella circostanza conclusiva, senza però motivarla. Come se la ragione, in fin dei conti, appartenesse a chi possiede l’ultima parola, come se tutto e il suo contrario fossero situazioni circoscrivibili alle possibilità, situazioni sempre meno metafisiche e sempre più terrene nelle quali l’inconscio e il fantascientifico potrebbero impadronirsi del reale e soverchiarlo. La paura, piccolo-borghese, che alimenta e idealizza lo spettacolo e che in questi dodici anni dalla sua nascita si è andata lentamente e inesorabilmente impadronendo di buona parte del genere umano, è ancora il motore di questa traduzione/esportazione oltre Manica, con l’aggravante che, in così poco tempo e in virtù di un’evoluzione telematico/scientifica supersonica, a temere certi scenari non siano più i residenti delle fasce intermedie, ma l’intera umanità, quella minoritaria che sta sopra la linea di demarcazione e la stragrande parte del mondo, che sopravvive sotto la soglia della dignità. Una volta, infatti, il Teatro di ricerca o i suoi più arguti interpreti, che diventavano autori anche contro la loro specifica volontà, rappresentavano, spesso, il volano profetico di quello che sarebbe andato ad accadere di lì a poco (Pier Paolo Pasolini docet, come Aldo Moro, del resto, o Stanley Kubrik). Da qualche tempo, invece, ogni impulso incontrollato e incontrollabile degli infiniti rivoli della fantasia che si muove, sempre, sottostando alle provocazioni che riceve, in positivo e in negativo, diventa un possibile sviluppo. Eccezion fatta per i terrapiattisti, ogni complotto merita ormai una considerevole dose di attenzione, non foss’altro per far trovare preparata la popolazione degli uditori inerti, inermi, analfabeti e storditi all’ennesima catastrofe non annunciata, ma prevedibile. Il titolo dello studio rappresentativo, nonché del testo teatrale, non è certo casualmente un omaggio a Lou Reed e alle sue febbrili collaborazioni con i Velvet Underground: quali vestiti indosserà, domenica, la bambina, non è possibile prevederlo; chiunque, dall’ultimo dopoguerra in poi, dotato di una decente dose di riflessione sensibile e attenzione sociale (compreso Quelo, figlio di Corrado Guzzanti), non si è potuto non chiedere dove stessimo andando: e la risposta c’è, ovviamente, anche se è quella sbagliata. Un altalenante botta e riposta tra un possibile catastrofico futuro e un altro, parallelo, ugualmente accadibile, ma diametralmente opposto. Con un mondo sovrappopolato e sottopopolato, in mano alle donne, o in mano ai pochi uomini destinati a sopravvivere; la dimora nello Spazio, su altri pianeti, sotto terra o sotto acqua, con grattacieli verticali fondati sui fondali oceanici con viste mozzafiato su attici che coincidono con il pelo delle acque emerse, dai quali si può ammirare il mondo decomposto che ancora rimane. E poi il sonno, la fame, la sete, il sesso, il riposo, la abitudini più abituali, quelle artificiali, la paura, il rischio, la rivoluzione, la lingua, le monete, la flora, la fauna, il cemento, i bambini come risorsa, i bambini come esperimento, il cannibalismo, la chimica che si sostituirà al commestibile, il corso della vita, la morte, la resurrezione, la metempsicosi, le religioni, lo sport, i record, il tempo: quando tempo ci resterà, un giorno, un’ora, un secondo? E quanto dureranno? L’Apocalisse. Oppure…
FIRENZE. L’ossessiva fedeltà alla scrittura di John Steinbeck ha fatto sì che nella trasposizione teatrale di Uomini e topi, capolavoro minimalista della letteratura mondiale, alcuni personaggi a nostro modo di vedere fondamentali (la moglie di Curley, su tutti) abbiano avuto un ruolo marginale e dunque poco funzionale alla rappresentazione. Con questo non vogliamo in alcun modo sminuire la capacità attoriale dell’intero cast agli ordini di Marco Lombardi, il regista, ma siamo fortemente convinti (la nostra riduzione teatrale del capolavoro statunitense è pronta da due anni) che lo spettacolo, organizzato dalla Compagnia I giardini dell’arte e andato in scena nell’accogliente sala del Teatro Lumiére di Firenze, si sarebbe potuto concentrare solo su quattro anime e attorno a queste far vibrare anche gli altri personaggi che invece, seppur impeccabili, non crediamo portino linfa e argomenti al tema, verista, della solitudine: gli inseparabili George (Lorenzo Lombardi) e Lennie (Aldo Innocenti), la moglie di Curley (Anna Serena) e Candy (Lorenzo Bittini), che sono quelli, ribadiamo la nostra discutibilissima personale angolazione del viaggio libro/palcoscenico, che fanno e riempono la storia. Ma lo spettatore va introdotto alla trama, si potrebbe immediatamente obiettare? Lo spettatore deve avere una benché minima idea di cosa parli il testo, altrimenti, invece che andare a teatro, si può sempre scegliere di optare, in un gradevole sabato sera italiano sul limitare di novembre ma con temperature ancora settembrine, di calcare le scene di confusionari apericena o restare, in pantofole, davanti alla tivvù, dove scorrono, spietate, immagini lobotomizzanti di guerre, paci, amori, tradimenti, nani e ballerine, terrori invisibili e malefatte nascoste, infiltrati e sgualdrine, cortei non autorizzati dall’ordine dei giornalisti e dal decoro di urlatori seriali e serali e una serie indefinita, indefinibile e interminabile di chirurgiche distrazioni di massa. Torniamo al Lumiére, scusate, e concentriamoci su quello che avremmo desiderato vedere e che non abbiamo visto. Siamo sicuri e certi che Lennie sia un ragazzo autistico e che per impersonarlo occorra fare ricorso, recitativo, agl’inimitabili retaggi hoffmaniani di Rain Man? Siamo certi che Goerge abbia, nei confronti del vecchio amico/collega, un atteggiamento così fraterno, compassionevole e che invece la sua vicinanza /dipendenza non lo infastidisca così tanto dal volerlo condannare, senza appello, a una fine ingloriosa che rappresenterà, tra l'altro, la fine degli unici suoi rapporti umani tessuti? Senza il supporto di Slim (Marcello Sbigoli), Curley (Raffaele Totaro), Curlson (Gianfranco Onatzirò Obinu) e il padrone, il papà di Curley (Massimo Blaco), la rappresentazione sarebbe stata, certamente, meno lunga, ma ne avrebbero forse giovato le puntualizzazioni umane, storiche e caratteriali dei sopravvissuti alla nostra carneficina, soprattutto concedendo alla moglie di Curley un ruolo che non fosse subalterno prima che ancora innominato. Uomini e topi è, senza alcun dubbio, un racconto di ultimi e per ultimi, una lotta fratricida di sopravvivenza proletaria di braccianti a cottimo che sognano di diventare padroni, almeno di loro stessi (ricorda, per alcuni versi, la GKN di Campi Bisenzio), cercando di annientare l'impellente richiesta di delocalizzazione e rendendo alla terza età, alla vecchiaia, è più bello dirlo e scriverlo, la sua dignità, e delle secolari frustrazioni femminili che hanno, in caso di decente piacevolezza maschile, un’ancora di salvezza particolarmente irritante: diventare la donna di qualcuno e smettere così di avere velleità personalistiche. Attorno a questi due grandi problemi George, Lennie, la moglie di Curley e Candy si sarebbero dovuti prendere la scena e condurla trionfalmente al suo tragico, inevitabile, epilogo, lo stesso decretato, a suo tempo, dall'autore. Lo spettacolo sarebbe finito prima, abbiamo già scritto; beh, rincasando, coloro che ne ignoravano l'esistenza, tra gli spettatori, avrebbero potuto cercare di colmare il vuoto della non lettura del romanzo con qualche informazione in più, seppur approssimativa, utilizzando i canali informatici fino al punto di far sentire loro la necessità, il lunedì, di comprarsi quel meraviglioso libro di nemmeno cento pagine.
di Letizia Lupino
PISTOIA. È il nostro turno, quello delle 21. L’ultimo. Diciotto persone sparse per il cortile del Funaro che a un segno convenuto convergeranno di fronte al corridoio che farà da ingresso a ciò che per cinquanta minuti si rifletterà, senza troppe resistenze, dentro di noi. Stasera vi facciamo un regalo: l’opportunità di poter spegnere i telefoni cellulari per potervi immergere in quello che tra poco sarà. Singolare invito alla più classica e quasi banale raccomandazione di buon senso. Silenzio, non un brusio vibra nell’aria. Sembra quasi che le nostre coscienze sappiano già prima di noi. La tenda si scosta quel tanto che basta per farci muovere i primi passi nel buio basso e digerente. Una piccola luce in fondo al tunnel ci rischiara le pupille e ci fa rimettere di nuovo a fuoco: la morbidezza delle pareti, un soffitto di velluto che si potrebbe toccare se solo si avvicinasse una mano, un tavolinetto basso, un album di fotografie e immagini sparse a terra: l’incuria abbandonata di una umana quotidianità che va di fretta. E così comincia un percorso fisico ed emozionale dentro un’intimità singolarmente condivisa, fatta di stanze che odorano di spezie esotiche, immagini forse reali, ritratti, traboccanti tazze di tè, fili intrecciati a panchine semoventi e vasche di acqua che cullano gli occhi e le orecchie. Artifici evocativi che sondano, e prima ancora lo chiamano, il caos che inevitabilmente scompaginerà quell’umana quotidianità che ha imparato ad andare di fretta e che dovrà fare i conti con un imprevedibile nodo che serrerà la gola. Esattamente di questo si tratta, di un Nodo in gola che stringe per poi piano lasciar sciogliere sensorialmente quel maledetto qualcosa che blocca fisicamente. Gabriella Salvaterra insieme a Giovanna Pezzullo, Arianna Marano e Davide Sorlini tenteranno di ordinare la confusione e lo smarrimento che come una grandinata improvvisa fa sobbalzare guidandoci con le mani, con le parole e con i sensi nella grande roulette dei sentimenti. E lo fanno con poetica cedevolezza, con delicati scambi vocali e intime profondità. È una tenera coperta che si adagia su di noi come a volerci, in qualche modo, proteggere da quelle cose che non sono come sono, ma sono come siamo. La stilettata della consapevolezza di sé, che quando arriva o meglio poco prima che arrivi è dolore e lacrime, è lo stomaco che si contorce, è l’imprecazione di un perché. Poi, e solo poi, la meta, il Touchdown finale e agognato e il sorriso di chi sa di aver passato la tempesta. Ed è forse proprio la tempesta che è mancata, quel nodo che per quanto stringa e graffi ti fa sentire vivo e pulsante.
PISTOIA. La vista e il colore verdeazzurro del lago di Barcis è il segnale, abbandonata l’autostrada a Vittorio Veneto, che da lì a poco ci si inerpicherà per andare sulle Dolomiti. Dopo Ponte nelle Alpi e prima di Calalzo, però, se non si vira verso est in direzione Friuli, ma si resta sul versante parallelo che si piega a ovest e ci si dirige verso la provincia dolomitica di Belluno, c’è ancora il tempo, in pianura, di fermarsi a guardare la diga: monumentale, fiera, protettiva; un molosso di forza, lavoro, ricchezza. Così almeno sembrava, o doveva sembrare alla popolazione di Longarone. Non a tutti, però. Già allora, più di sessant’anni fa, quando iniziarono i lavori di costruzione, qualcuno, in paese, storse il naso e preferì andarsene altrove. Quelli che restarono, li accusarono di non saper guardare avanti, di non saper coniugare il presente con il futuro, di non sapere distinguere la paura oggettiva e obbiettiva dall'ossessione di supportabili rischi idrogeologici. La mattina del 10 ottobre 1963, i pochissimi sopravvissuti capirono. Ma fu tardi. A quei 1917 cadaveri il Teatro italiano, centotrentacinque teatri italiani, per essere precisi, ieri, sessantesimo anniversario della mattanza premeditata del Vajont, ha dedicato una serata di rappresentazioni. Ci starebbe bene, dopo i virtuali due punti: per ricordare e per non dimenticare. Ma visto quello che è successo dopo, ultimo, ma solo in ordine di tempo, il Ponte Morandi a Genova, soprassediamo sulle conclusioni che trasudano emotività e speranza e vi raccontiamo la bellezza di un testo scritto, a quattro mani, da Marco Paolini e Marco Martinelli, che Annibale Pavone ha adattato per la cura e l’interpretazione di sette allievi del Teatro Laboratorio della Toscana di Federico Tiezzi e che ieri sera, al Piccolo Teatro Bolognini di Pistoia, è iniziato alle 21,30 per andare in scena contemporaneamente alle altre centotrentaquattro rappresentazioni sparse in Italia e per terminare intorno alle 22,39, l’attimo nel quale duecentosettanta milioni metri cubi di roccia e terra si staccarono dal monte Toc e precipitarono nel bacino artificiale alpino della diga del Vajont. Nello stesso istante, a Madrid, al Santiago Bernabeu, la corazzata calcistica del Real infliggeva, nella gara di ritorno di Coppa dei Campioni, un umiliante 6-0 agli avversari scozzesi del Celtic. Molti uomini, quella sera, erano ammassati attorno ai pochi televisori presenti e accesi sulla partita trasmessa in diretta dalla Rai e in soli due minuti passarono dalle lodi sperticate per Puskas e Di Stefano al finimondo che si abbatté sul loro paesino. Certo, il Teatro ha bisogno di poesia, finzione, immaginazione, ma in questa specifica circostanza era giusto attenersi alle direttive storiche e fissare un punto comune di dolore vero e inutile indignazione. Prima che in teatro, la carneficina di Longarone è stata rappresentata sul grande schermo (Vajont, la diga del disonore), grazie a Renzo Martinelli, che due anni dopo, nel 2003, ha diretto un’atra pellicola di spropositato spessore politico, stavolta su un’altra mattanza premeditata perché straordinariamente deviata, quella di Aldo Moro e delle Democrazia di questo paese, Piazza delle Cinque Lune. Restiamo al Bolognini e lo facciamo, con estremo piacere, in compagnia di Annibale Pavone e dei giovani Salvatore Alfano, Pasquale Aprile, Sem Bonaventre, Monica Buzoianu, Sebastiano Caruso, Valentina Correo e Antonio Perretta, che interpretano con il dovuto e professionale trasporto i personaggi più in vista di quell’immane ecatombe: dai responsabili ingegneristici, finanziari e politici, altamente impuniti, ai loro più grandi oppositori, indigeni e giornalisti agguerriti, che non riuscirono a fermare quella macchina infernale di omissioni e a evitare quella tragedia annunciata, che superò, luttuosamente, ogni (ir)ragionevole profitto.
di Adriana Casalegno
FIRENZE. La Vittoria ė il personaggio principale della storia che la nipote, Cristiana Capotondi, racconta in video/chiamata alla propria figlia (Penelope Brizzi) di sei anni per farla addormentare. Una Firenze mista e variegata affolla il bellissimo e lucente Teatro della Pergola pronta ad ascoltare una pagina dolorosa della seconda guerra mondiale, attraverso la vita di una donna, esattamente ottanta anni dopo. La scena ė composta da tre pareti bianche su cui si rifletteranno immagini e disegni di Andrea Calisi e Marco Palmieri come pagine che si sfogliano raccontando una fiaba. Su un cubo, sempre bianco, sono appoggiate scarpe rosse. Al centro arriva l'attrice, snella figura vestita di bianco, un elastico rosso tra i capelli. Con una pluralità di voci, movimenti misurati, chiari ed efficaci, ci condurrà a seguire la Vittoria fino al drammatico 25 settembre del 1943. Quel giorno, uno stormo di trentasei aerei degli alleati inglesi, mancò l'obiettivo: la stazione di Campo di Marte, utile ai nazisti tedeschi per fare arrivare i viveri ai soldati. Lo snodo ferroviario rimase indenne. Sotto grappoli di bombe cadute nei luoghi sbagliati, centinaia di civili persero la vita, numerosi furono i feriti, tante le case e gli edifici distrutti. Paura e terrore si riversarono nelle strade di Firenze, paura e terrore invasero gli animi dei fiorentini. Il monologo, scritto da Marco Bonini, porge in modo leggero quegli avvenimenti, senza che la drammaticità venga persa. Questo accade perché la Vittoria è una donna distratta e, fino a quel 25 settembre, ha vissuto la guerra in un lontano sottofondo senza cambiare i suoi modi da signora; accade perché c'è la trasfigurazione in un linguaggio per bambini e accade perché il testo ricorda il novellare toscano, quel parlare fresco, originale, gentile, cadenzato da definizioni ripetute, ritmato dalle voci diverse dei personaggi. Attraverso il notevole lavoro espressivo di Cristiana Capotondi godiamo il toscano della bella e altolocata Vittoria, del marito Lorenzo, sovrintendente alle Belle Arti che, tutti i giorni, con la sua jeep, si reca a nascondere opere nella galleria di San Donato. Ascoltiamo il toscano ancora più diretto del cuoco e del portiere. Ci abituiamo a quelle cadenze finché l'attrice ci sorprende di nuovo quando adopera i suoni veneti interpretando la balia Armida venuta da Belluno. Sembra che, in quel tempo, tante fossero le balie di Belluno. Nel rifugio di Palazzo Pitti, quel 25 settembre, ritroviamo tutti i personaggi. Con loro ci sono anche i gemelli neonati di Armida. Urlano, hanno fame. Armida ha perso il latte, scioccata dalla paura. Ci sono anche i tre figli più grandi di Vittoria che erano stati allattati proprio dalla balia Armida e la quarta figlia che lei, Vittoria, signora e padrona, diversamente da come ha fatto con gli altri figli, sta allattando. Ed è qui che cadono i ruoli, le certezze interne ed esterne, le divisioni di classe. Qui, nel rifugio improvvisato, la Vittoria diventa compagna di lotta, compagna di latte. Lei, padrona, avvicina ai seni i piccoli della sua balia, della sua serva. Sotto le bombe, lei, Vittoria, ė la balia dei vinti. Tanti e ripetuti gli applausi.
È UNA manifestazione relativamente giovane, Settembre Prato è Spettacolo, l’ottava, per l’esattezza, ma va riconosciuto agli ideatori l’acume tattico di non essersi infognati, inutilmente e con il rischio di fastidiose disquisizioni artistiche (i gufi detrattori si annidano in tutti i contesti urbani), sul marchio di fabbrica, nel quale l’unica cosa certa e insindacabile è Settembre, il mese che ospita gli eventi. Che anche quest’anno sono parecchi, da zenith a nadir e che con molta probabilità accontenteranno tutti, promotori e spettatori. Qualcuno potrebbe obbiettare, comunque, a proposito dell’unica certezza mensile, che la manifestazione prenda il via, in verità, giovedì 31 agosto, con una coppia che, visti i precedenti, non è da escludere che realizzi un invidiabile pienone, quella degli Articolo 31; ma il loro concerto, nella piazza del Duomo, non inizierà certo alla buon’ora e quando calerà il sipario, la mezzanotte sarà abbondantemente superata. All’esordio, riservato per lo più a spettatori molto giovani, seguiranno, nelle quattro serate successive, Bugo e Daniele Silvestri, Giorgio Panariello vs Marco Masini, gli applauditissimi Editors, formazione inglese giunta al suo settimo album e che raccoglie consensi in tutto il vecchio Continente e Edoardo Bennato, rigorosamente accompagnato dalla BeBand, la sua storica formazione napoletana. E siamo solo al 4 settembre e non ci siamo ancora mossi da Piazza del Duomo. Lo spettacolo continua, naturalmente, con Jonathan Webb che dirige la Camerata strumentale della Città di Prato impegnata nelle rivisitazioni di sinfonie di Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven e si muova altrove, per non intasare solo e soltanto il centro città, ma utilizzando anche altri siti particolarmente graditi, nei quali daranno vita alle loro esibizioni gli indigeni Porto Flamingo, il quartetto di Alan Sorrenti e Umberto Tozzi, rispettivamente il 9 settembre all’Anfiteatro Santa Lucia e il 12 e il 13 a Villa Guicciardini. E poi mostre, laboratori, cinema, allestimenti, spazi riservati alle emergenze locali e non, un’offerta particolarmente nutrita, variegata, che non si concentra su specifiche tematiche, ma cerca, in piena sintonia con l’origine poco controllata del titolo, di andare incontro il più possibile alle svariate esigenze e gusti del popolo che paga il biglietto.
PISTOIA. Tutte le volte che sentiamo Pino Daniele, anche solo pronunciarne il nome, ci emozioniamo. Succede così da quando abbiamo avuto la fortuna di scoprirlo, quarantacinque anni fa e ne rimanemmo abbagliati. Figuratevi quando se ne sente cantare. È successo ieri, in serata, a Pistoia, quando in piazza del Duomo, poco distante dal palco dismesso del Festival Blues, sugli scalini dell’ex Prefettura, davanti al Bar Duomo (organizzatore dell’evento), Emanuele Marsico, Matteo Boni, Federico Frassi e Fabrizio Doberti hanno intonato, per preparare gli strumenti all’esibizione che hanno tenuto di lì a poco, Quanno Chiove, uno dei brani cult del leggendario repertorio dell’immortale cantautore napoletano. Facciamo un repertorio standard, dove troveranno spazio anche alcuni brani di Pino ci ha messaggiato, affinché non lo dimenticassimo, uno dei componenti della formazione, che trasuda jazz, occorre onorevolmente specificare. Meglio! abbiamo pensato. E meglio è stato. Dopo l’intro di Burt Bacharach e prima di misurarsi con alcuni brani di Gerhswin, Beatles e Carmichael, sul palco approntato alla bisogna è salito uno dei reduci dei Diplomati, Carlo Cappellini, voce che spopolò nella Pistoia degli anni ’60, quella dei Globini, tanto per intenderci. E che, nonostante gli anni, è riuscito a spopolare, nel senso letterale del termine, anche ieri sera, facendo in modo e maniera che alcune famiglie di turisti ispanici, con rispettivi normodotati e rumorosi cuccioli al seguito, attratti dallo spazio della piazza e non dalla melodia profusa da uno dei suoi angoli, prima di discutere, abbiamo preferito andarsene. Lo han fatto dopo che dal microfono Carlo Cappellini abbia ammonito grandi e piccini che in quella zona occorresse fare silenzio. Nemmeno Virgilio Sieni si sarebbe permesso, ci ha sussurrato, sghignazzando, Lorenzo Maffucci, ex collega ormai impelagato nell’underground, che dopo un decoroso e deontologico taglio alla capigliatura han smesso anche di chiedere i documenti. Anche noi, come Carlo Cappellini, siamo inesorabilmente invecchiati, perché se così non fosse, ai suoi incomprensibili e irritanti diktat, ieri sera, avremmo risposto per le rime. E invece, come i turisti spagnoli, anche noi, per non discutere, ce ne siamo andati. Peccato, perché la musica dei quattro ragazzi del Conservatorio di Siena l’avremmo ascoltata ancora; ma anche la voce del vecchio crooner, al quale consigliamo, d’ora in avanti, esibizioni indoor, dove i mocciosi non giocano e non fanno chiasso.
PORRETTA (BO). La vendetta climatica, che in questi giorni ha spazzato via il nord Italia, ha naturalmente risparmiato la provincia più meridionale di Bologna, perché si sa, a Porretta, durante il Festival Soul, c’è un accordo, non scritto, né tacito, ma pattuito con sangue demoniaco, che sul Parco Rufus Thomas e nel raggio di qualche centinaio di metri a nord, sud, est ed ovest, non piova. E così è stato anche in questa 35esima edizione, contraddistinta dalla medesima sempiterna allegria delle precedenti trentaquattro. Il merito, Graziano Uliani, direttore artistico, ideatore, inventore della longeva rassegna musicale, sa bene che occorre che lo divida, oltre che con il suo paziente e professionale staff, anche con le Autorità politiche, le forze dell’ordine e chiunque dia il proprio contributo alla pacifica realizzazione della manifestazione. Ma il contributo più consistente, a Porretta Soul Festival, lo offrono proprio gli indigeni, con quel modo garbato, accogliente, persuasivo di trattare ogni spettatore pagante come il cliente più prezioso. E lo fanno, tutti, nei bar come nei ristoranti, in strada e negli stabili esercizi commerciali, compresi gli ambulanti con la loro mercanzia da viaggio, rendendo la festa della musica una festa d’umanità. Prima e dopo le esibizioni artistiche infatti, ogni volta, facciamo volentieri una passeggiata, lungo la strada statale 66, chiedendo, comprando, interagendo con quel particolarissimo genere umano che è, e Darwin approverebbe, il popolo bolognese; e la risposta è sempre la stessa, offerta con quell’immarciscibile sorriso, che hanno stampato, non per ingraziarsi gli acquirenti, ma per chimica, sulle labbra. A cena, in questi giorni, siamo sempre andati, come sempre, del resto, al ristorante La Veranda (non è pubblicità indotta, ma è un modo per come sdebitarsi di tanta puntuale affabile cortesia, dai proprietari ai camerieri), nella piazza principale della cittadina, sull’estremità occidentale del ponte che collega il centro storico con la stazione ferroviaria. Lì, come in ogni altro angolo commerciale della città, il Soul la fa da padrone. La colonna sonora è la musica che gli artisti, contemporaneamente a noi turisti commestibili, suonano al Parco e nel centro della sala interna, su un maxi schermo visibile anche dai tavolini posti all’esterno, anche le immagini di quello che contemporaneamente succede al Rufus Thoms, in una diretta garantita da un canale streaming. La fidelizzazione del pubblico della rassegna emiliana passa anche da questi piccoli, enormi, dettagli, che sono quelli che hanno garantito, all’evento, uno zoccolo consistente di spettatori che verranno ai Festival Soul che si susseguiranno a prescindere. Si, perché non tutte le ciambelle riescono con il buco e Graziano Uliani, questo, lo sa benissimo. Ci sono stati, in questi trentacinque anni, Festival meravigliosi e Festival decisamente meno, ma per tutti e su tutti ha sempre, inderogabilmente, campeggiato quella voglia, incontaminata, quasi adolescenziale, di stare insieme, di sentirsi parte integrante di un progetto artistico che senza gli spettatori, così numerosi, caldi, ordinati e felici, avrebbe decisamente molta meno ragion d’essere. Lo sanno bene anche i musici e i cantori, che solo in quel contesto porrettano, probabilmente, riescono a vivere e metabolizzare la loro vena artistica con sconcertante semplicità e questo, al pubblico, piace molto. I conti, che da stamani terranno impegnati gli organizzatori, diranno che Festival Soul sia stato, per le casse, questo appena terminato. Ma non sarà certo il responso economico contestuale del 2023 a conferire al Festival la sua giustezza.
PORRETTA (BO). Stamani, a parte poche categorie di lavoratori – fornai, infermieri, agenti dell’ordine (anche al femminile, eh, per carità, ma senza asterischi) -, la maggior parte di tutti gli altri si alzerà quando lo riterrà opportuno, senza dover interrompere quel fastidioso trillo di sveglia che ricorda a tutti che la vita, quella che non avremmo voluto fare, ci richiama sadicamente all’ordine. Per questo, il sabato del Festival Soul, al Parco Rufus Thomas di Porretta, è, da quando è nata la manifestazione, sempre una festa nella festa, come nel villaggio di poetica memoria. Del resto, succede così ovunque, nel mondo, anche se la presa di coscienza personale e collettiva è stata brevettata solo nel 1829, quando Giacomo Leopardi la certificò nei secoli dei secoli, con uno dei suoi innumerevoli capolavori. La festa dura appena quattro giorni a Porretta e tra questi, quella del sabato, deve necessariamente scatenare l’inferno (Meda docet). E chi meglio della camaleontica, sopraffine, polivalente, energica Robin McKelle (la foto, naturalmente, è di Fiorenzo Giovannelli)? Per capire la sua versatilità, basta andare a vederla all’opera il prossimo 23 ottobre, al Blue Note di Milano, come del resto è successo, mesi fa, a Parigi. È il jazz il suo primo amore, dal quale, per fortuna, non ha alcuna idea di prendere le distanze, ma è il diaframma ad averle suggerito prima, e imposto poi, di cantare anche altro e di farlo con la stessa lucida, esemplare professionalità, cambiando, leggermente, l’impostazione scenica; l’ugola e l’abbigliamento s’adeguano al contesto e lei, che conosce bene il pubblico, sa come aizzarlo. Ieri sera, dopo l’intimismo di Curtis Salgado e la coppia circense dei The Blues Paddlers, entrambi supportati dalla direzione musicale dei The Bo – Keys, la scena è stata affidata alla quarantesettenne americana che non ha avuto alcun problema a capire cosa avrebbe dovuto fare per infoiare come si deve l’emiciclo appenninico. Del resto, dopo dieci album, un’infinità di esibizioni, quelle che l’hanno battezzata come la reincarnazione di Ella Fitzgerald, ma anche e soprattutto la sua propensione a non essere soltanto una, ma molte, tipo Aretha Franklin, ad esempio, o Tina Turner, ma anche Janis Joplin, beh, le ci è voluto un attimo, scorgendo la platea che pendeva dai suoi input, a stabilire cosa avrebbe dovuto fare. Pur calzando un paio di sandali con una zeppa più adatta ad altri intrattenimenti artistici, Robin McKelle ha stregato la platea, con gorgheggi, acuti, bassi e insinuazioni feline, spolverando una piccola ma esaustiva parte del repertorio delle canzoni più leggendarie che indimenticabili. Gli spettatori non potevano che gradire all’eccesso, lasciando nei rispettivi cassetti dei loro sogni infranti tutte le frustrazioni, liberando e liberandosi, almeno per un po’, in un sabato di quelli da ricordare, i propri demoni. Tra molti che hanno accompagnato la voce della meravigliosa statunitense, anche un bronzo di Riace appositamente assoldato – siamo pronti a scommetterci – dalla direzione artistica della manifestazione, che oltre a possedere un viso scolpito nella bellezza, si è cimentato in una danza propiziatoria al limitare del palcoscenico, tra gli sguardi, di sottecchi, ma inequivocabili, di tutti gli altri, confusamente mescolati tra l’invidia dei maschi e il desiderio delle femmine. Stasera, ultima notte di Soul, di musica, scusate (portatevi una maglia, dateci retta; dopo il tramonto, l’aria, si fa particolarmente frizzante). Poi, via l’impalcatura, il popolo della notte e quell’aria unica e inimitabile del Festival. Graziano Uliani, fatti i conti con il proprio entourage, si passerà, per la trentacinquesima volta, la mano sul cuore e dopo i debiti ringraziamenti si metterà subito all’opera per il Festival numero trentasei, che somiglierà, maledettamente, tutti quelli che l’hanno preceduto e sarà, verosimilmente, parente stretto di quelli che verranno.
di Alessandro Giovannelli
PORRETTA (BO). Siamo soltanto al giovedì. Il lungo fine settimana del Porretta Soul Festival è appena cominciato, ma già, intorno al Rufus Thomas Park, tutto è lì, al proprio posto, a ricordarci che Porretta è sempre Porretta: il clima di festa, la musica nell’aria, le bancarelle, l’odore di carne alla brace verso la piazza centrale. Sul Rufus Thomas Cafe Stage, si alternano, una dopo l’altra, band e orchestre di rhythm & blues, sempre di livello: qui, ovunque, è la musica a farla da padrona. In ogni angolo della cittadina, si ascolta e si respira soul. A un certo punto, tra la folla, prima del concerto, intorno alle 19, un capannello di ragazzi richiama la nostra attenzione. MonoNeon, l’ospite speciale di questa edizione del festival, previsto come chiusura di questa serata di apertura, sta passeggiando tra i banchi dello street food. Il suo look è molto diverso dalla consueta eleganza, pur sempre sopra le righe, dei classici soulmen che hanno calcato, nel corso dei decenni, il palco del Rufus Thomas Park. E non passa certo inosservato: passo lesto e sguardo rivolto verso il pavimento, in dosso una trapunta patchwork dai colori sgargianti, non propriamente estiva, grossi stivali e cappuccio sulla testa. Non è una novità, la tradizione vuole che a Porretta pubblico e musicisti si mescolino in un tutt’uno. È una delle apprezzatissime tipicità di questo festival. La novità sta nei giovanissimi che, circondato il proprio beniamino per chiedergli autografo e foto di rito, ci danno un saggio, ancor prima di iniziare, di quanto sarà intergenerazionale il pubblico di questa serata. Siamo al 35° anno, un grande traguardo che ci racconta della longevità di questo festival e della caparbietà, della passione e della visione del suo creatore e direttore artistico, Graziano Uliani. Poche rassegne sono state capaci, negli anni, di fidelizzare il proprio pubblico quanto e come il Porretta Soul Festival. Prima ancora di passare in rassegna i vari artisti che si sono alternati sullo storico palco di Porretta, vale la pena fare una premessa: questa serata ha messo in scena un formidabile ed entusiasmante mix di soul classico e di contemporaneità. La musica rispecchia il pubblico. E viceversa. Mai, come in questo esordio dell’edizione 2023, ho avuto la percezione di un festival che sta davvero costruendo il proprio domani. Con intelligenza e qualità. Ma, soprattutto, con grande lungimiranza. Intorno alle 20.15, il gran cerimoniere, Rick Hutton, dà il via alle danze. Si apre con gli irlandesi Eamonn Flynn & Conor Brady, coadiuvati dalla solidissima sezione ritmica della Anthony Paule Soul Orchestra, formata da Kevin Hayes alla batteria e Endre Tarczy al basso. Il loro set è un omaggio alla colonna sonora del film The Commitments, della quale Flynn e Brady sono stati tra gli esecutori, e che ha venduto ben 14 milioni di dischi in tutto il mondo. Tra i vari pezzi in scaletta, una bella interpretazione di Jealous Guy di John Lennon, Try a Little Tenderness, il pezzo del 1932 assurto a standard della musica soul con la successiva versione di Otis Redding, caratterizzato da una bella intro di Flynn al tin whistle, in stile irish, e una Brickyard Blues, il pezzo del 1974 di Allen Toussaint, che ha messo in risalto le qualità pianistiche e interpretative di Flynn. In chiusura, all’immancabile one more time di Rick Hutton, il quartetto ha risposto con una trascinante Mustang Sally. A seguire, l’esibizione della Anthony Paule Soul Orchestra. Si tratta di una vecchia conoscenza per il pubblico di Porretta, da anni, house band del festival. In completo viola e nero, hanno eseguito The Memphis Train di Rufus Thomas, per poi dare il benvenuto sul palco a Terrie Odabi. Anche per Terrie, per l’occasione in abito nero, si tratta di un gradito ritorno e, lo si percepisce negli scambi tra un pezzo e l’altro, è legata da un rapporto di profonda intesa col pubblico di Porretta. Le sue sopraffini qualità di interprete trovano piena valorizzazione nelle esecuzioni della band diretta da Anthony Paule, capace di sottolineare i momenti di maggiore intensità emotiva con passaggi da forte a piano e viceversa e con intermezzi strumentali sempre al servizio della musica e del feeling. Particolarmente sentito il tributo a Wee Willie Walker, a lungo sodale di Anthony Paule e cantante della Soul Orchestra, con After a While e Hate Take a Holiday. Splendida, la versione di Why (Am I Treated so Bad), dei The Staple Singers, e il gran finale, con Gentrification Blues. A riguardo di quest’ultimo pezzo, Terrie ha raccontato di aver tratto ispirazione dal processo di impoverimento dei quartieri popolari della sua città, Oakland in California, in conseguenza della gentrificazione messa in atto dai milionari della vicina Silicon Valley. Insomma, il blues riportato alle sue origini. Canto di dolore, disperazione e, talvolta, denuncia sociale. L’uscita dal palco di Terrie e della Anthony Paule Soul Orchestra segna una sorta di passaggio di consegne: da venerdì, ad accompagnare gli artisti che si avvicenderanno sul palco, saranno gli altrettanto validi Bo-Keys. È la volta dei Lehmanns Brothers. Già ospiti della più grande vetrina musicale europea, il Montreux Jazz Festival, nel 2017, hanno aperto, tra gli altri, a Macéo Parker. Rick Hutton, scherzando sul loro nome, ci ricorda che non si tratta della società finanziaria americana, tristemente nota per la bancarotta del 2008. Sono un gruppo di giovani musicisti francesi provenienti dalla cittadina di Angoulême. La loro musica è un blend di funk e nu-soul con influenze house e hip-hop, un vero e proprio distillato di energia e ritmo. Il cantante/organista, capace di portare la propria voce su registri molto alti e di far pulsare il suono del suo Hammond con un groove davvero trascinante, ha infuocato gli animi dei più giovani e, nell’ultimo quarto d’ora del loro set, l’intero Rufus Thomas Park era in piedi a ballare. Anche questo sono le banlieu francesi. Avenue Lehmann come i sobborghi di Parigi. Le periferie d’Europa parlano una lingua giovane, fresca. MonoNeon (nella foto), invece, viene da Memphis. A Porretta non si era mai visto qualcosa del genere. Naturalmente, questa affermazione non intende connotare, né in positivo, né in negativo, l’esibizione dello stesso MonoNeon, né quelle delle tante leggende che si sono esibite a Porretta nel corso di tre decenni e mezzo. Si tratta, invece, di una semplice constatazione: non somiglia nessuno, o almeno non ai tanti illustri esponenti del Memphis Sound, che da sempre illuminano le serate d’estate sull’Appennino bolognese. MonoNeon è un fenomeno. Lo è per la sua apparenza alquanto eccentrica, e lo è perché suona il suo basso elettrico in maniera straordinaria. Lo è perché, come alcuni dei più grandi interpreti del 4 corde che, nel suo caso sono 5, il suo basso non si limita a scandire la ritmica. È un vero e proprio strumento solista, al pari, o forse anche più, delle chitarre e della tastiera. Eppure, la sua band ha qualità davvero eclatanti. I chitarristi, armati di una Telecaster e uno Strato, si sono lanciati in furiosi assoli. Le tastiere, durante le imprevedibili divagazioni del basso, hanno tenuto botta, insieme alla batteria, con parti ritmiche rocciose. Ma torniamo a lui, MonoNeon. Figlio d’arte – suo padre è Dywane Thomas, già musicista di Rufus Thomas e frequentatore di lungo corso di Porretta –, Dywane jr. usa il suo basso come fosse una magic box, dalla quale estrae i suoni più disparati, con ampio uso di effettistica. MonoNeon è stato definito, non a caso, il più grande fottuto bassista elettrico nientemeno che da Flea dei Red Hot Chili Peppers. Non male davvero. Nel complesso, la musica della band risulta sofisticata, con richiami che vanno da Frank Zappa, per le intenzioni improvvisative, a Prince (del quale MonoNeon è stato uno degli ultimi bassisti), in una costante rivisitazione tra alternative rock e fusion in chiave contemporanea. Il pubblico delle 1.30 è il suo: è giovane, ama ballare e, nonostante la tarda ora, si muove incessantemente al tempo del suo groove. La sua Invisible, brano del 2020, uno di quei pezzi che ti entra subito in testa e non ne esce più, è stato uno dei momenti più entusiasmanti della sua ora abbondante di show. Bellissimo. Porretta ci ha regalato, ancora una volta, grandi emozioni. E se, come si suol dire dalle nostre parti, la sete la si toglie col prosciutto, ci ha suggerito infinite varietà di salumi ed affettati, prelibati, da assaggiare. Ci ha dato spunti, a noi che ne cerchiamo disperatamente sempre nuovi, aprendo territori enormi da esplorare. L’occidente, quello delle grandi praterie ignote dell’America dei tempi che furono, è tutto da scoprire. Ha il suono del sud. Graziano e Porretta ci hanno indicato la strada. Noi, tornando verso casa, nella notte tiepida delle nostre montagne, ringraziamo di cuore. Evviva Porretta. Lunga vita al soul.
PISTOIA. La cosa veramente straordinaria è che i cinque acrobati, cromati in varie sfumature tutte tendenti al nero, sono del Kenia e nella storia circense, nonostante se ne sia quasi del tutto a digiuno, di geniali, inimitabili e incredibili saltimbanchi africani ne avevamo sentito parlare assai raramente. Ma di loro, Bilal Musa Huka, Rashid Amini Kulembwa, Seif Mohamed Mlevi, Mohamed Salim Mwakidudu e Peter Mnyamosi Obunde, anche Pistoia, d’ora in poi, potrà fregiarsi di averli visti all’opera e ne parlerà con accenti entusiasti. Anche Pistoia perché dei Black Blues Brothers e il loro spettacolo Let’s twist again, ne parla ormai tutto il Mondo, visto che prima di arrivare ieri sera alla Fortezza Santa Barbara, all’interno della rassegna estiva dei Teatri di Pistoia Spazi Aperti, i cinque kenioti sono reduci da ottocento esibizioni effettuate praticamente a ogni latitudine del globo, incontrando, tra le centinaia di migliaia di esterrefatti e incantati spettatori, anche applausi particolarmente pregiati, come quelli che hanno loro tributato il Principe Alberto e la Principessa Stéphanie di Monaco, la famiglia Reale Inglese e Papa Francesco. Ma al di là degli apprezzamenti dei Lord e del segretario di dio, vi possiamo assicurare che l’esibizione, anche da un’ottica anarcolaica, è veramente straordinaria. Sul palco, una riproduzione di una stazione ferroviaria, tra i binari 7 e 8, con tanto di passaggio a livello, una cabina telefonica, tavoli e sedie e un juke box. Siamo negli Stati Uniti, siamo negli anni ’50 e l’aria musicale è quella di quel meraviglio decennio: Twistin’ the night away, Blue Moon, Just a gigolo. Ma il minutaggio di quelle canzoni non basterebbe a colmare il sottofondo dell’intera rappresentazione. E allora, ancora tributi indimenticabili, con alcuni brani, suonati dall’unico elettrodomestico melodico, di stelle firmamentarie dell’olimpo delle note: Elvis Presley, Aretha Franklin, Chubby Checker, Glenn Miller ed Emerson Lake Palmer. Loro, i cinque B.B.B. si sono presentati abbigliati stile Bogart, con tanto di trench, cravatta, gilet, bretelle e cappello. Ma dopo essersi riscaldati, sono rimasti a torso nudo; lo han fatto per mostrare tartarughe impressionanti, anche, ma soprattutto, perché per andare a fare quello che han fatto successivamente, occorreva che fossero sufficientemente liberi di strabiliare. Corpi di rara elasticità, potenze impressionanti, incredibili muscolature e una sintonia ginnica da far accapponare la pelle. Sarebbe bastato un impercettibile contrattempo ritmico, un’invisibile sbavatura, una letale titubanza perché lo spettacolo, invece che raccogliere applausi a scena aperta come si conviene al Circo, si sarebbe inorridito al cospetto di una tragedia. Nulla, si sono arrampicati per circa un’ora uno sopra l’altro, abbattendo, sistematicamente, le leggi della fisica e della chimica, restando sospesi a tre, quattro metri d’altezza, confidando, unicamente, sui propri straordinari mezzi atletici. Lo spettacolo (termine che in questo caso ha tutta la ragione di essere scritto) è firmato da Alexander Sunny (produttore di show di successo e curatore di speciali TV sul Cirque du Soleil) e raccoglie, ovunque faccia sosta, naturali e insindacabili tutto esaurito: Pistoia, anche stavolta, si è dimostrata all’altezza della situazione, non lasciandosi ingannare dal plebiscito internazionale e lasciando metà poltrone della platea vuote.
di Simona Priami
PISTOIA. Per la rassegna Spazi Aperti, Estate da vivere, nella suggestiva Fortezza medicea Santa Barbara a Pistoia, Marco Marzocca ha presentato a un pubblico numeroso e partecipe uno spettacolo, piacevole e brillante, dal titolo Chi me lo ha fatto fare. L’attore romano racconta, senza filtri, la sua vita con entusiasmo, spontaneità, esuberanza e con quella sua comicità iperbolica e paradossale che lo caratterizza e nella quale, per citare un altro grande cultore delle sfaccettature dell’umorismo, ci sta come di casa (Italo Calvino). Marzocca attore, autore con lunga esperienza di vita artistica, mai scritta, ma vissuta profondamente nel cinema, nel teatro, alla radio, in televisione, racconta con estrema simpatia e coinvolgimento la sua vita, le sue trasformazioni, la sua crescita, le sue esperienze personali e lavorative, i vari lavori, gli studi, le amicizie, gli amori, i fallimenti, le vittorie e tutti i suoi espressivi e divertenti personaggi; grande e variegata esperienza, ma il suo elemento costante, il comune denominatore, è sempre stato il comico, la chiave di lettura delle menti brillanti. Lo spettatore, immerso nel fascino misterioso e accogliente della Fortezza, osserva la particolare scenografia dove un camerino, luogo simbolo dell’attore, è riempito di oggetti colorati vicini al mondo di Marco, posti in modo disordinato: un attaccapanni con vestiti curiosi di scena, una scala con tunica bianca, una valigia, uno specchio con luci e poi parrucche, occhiali, maschere. Arriva trafelato e stanco Marzocca che, dopo un ipotetico spettacolo, ringrazia il suo pubblico e definisce il suo lavoro uno dei mestieri più belli del mondo; così inizia una coinvolgente immersione nella sua eclettica vita, un percorso spontaneo, in cui i suoi atti puerili e le cadute vengono descritte con l’arma vincente dell’intelligenza, cioè l’autoironia; l’attore si confronta con gli studi e i vari lavori che ha fatto, riconoscendone il valore e l’importanza nel suo vario e disomogeneo percorso di formazione. Marco avrebbe dovuto diventare farmacista; studia elettronica in un istituto tecnico, la sua passione, diventa disc jockey per farsi notare e conoscere ragazze, si innamora poi, con gaudio della famiglia, diventa farmacista e qui parte la simpaticissima carrellata di clienti spontanei e strani con cui viene in contatto; comincia a giocare, fare TV e video poi arriva il mentore Corrado Guzzanti e la prima esperienza importante. Attraverso la sua eccellente dialettica e gestualità, il suo divertentissimo accento romano, ecco che arrivano i suoi famosi personaggi, il dolcissimo bambino Michelino; Cassiodoro, il picchiatore unico con la famosa società Ti devo menare SRL, tanta allegria e risate con il piatto vegano; il notaio burbero e moralista, brontolone, ai miei tempi …. Tra un’imitazione e l’altra emergono messaggi profondi e perspicaci: oggi non abbiamo più tempo, siamo stressati e l’ansia non serve a nulla. Inoltre l’attore instancabile ricorda programmi importanti che hanno segnato la nostra storia e quella della televisione italiana come Zelig, Distretto di polizia, l’Ottavo nano. Uno spettacolo aperto in cui l’attore interagisce costantemente con il pubblico che, ritrovandosi e sentendosi vicino alle cadute, alle sconfitte e alle delusioni descritte, interviene in uno scambio brillante di battute, durante quella che è stata una piacevole serata di condivisione e risate. Come diceva Freud: l’umorismo è il più potente meccanismo di difesa, ma è l’umorismo rivolto verso noi stessi che custodisce il segreto della felicità e inoltre beato chi riesce a fare autoironia, si divertirà tutta la vita!
di Chiara Savoi
FIRENZE. Un'ora e mezzo di musical vero seppur totalmente improvvisato. Si spengono le luci ed entrano gli attori rigorosamente vestiti di blu. Francesco Lancia (voce di Radio Deejay, del Trio medusa e chi più ne ricordi, ne metta) spiega al pubblico che gli attori stanno per mettere in scena uno spettacolo completamente improvvisato. Chiede quindi un luogo dove la storia si svolgerà e il pubblico del Teatro Puccini di Firenze, dopo una votazione con gli applausi tra sette luoghi diversi, sceglie il corso pre-parto. Bisogna scegliere anche il titolo: il pubblico ne propone tre e, sempre con gli applausi, ne sceglie uno: Stasera esco. E così Signore e signori, benvenuti alla prima e ultima rappresentazione di questo musical e lo spettacolo inizia. Quattro musicisti che improvvisano le musiche e sei attori che improvvisano tutto: storia, canzoni e coreografie. È a tutti gli effetti un musical ma è completamente improvvisato. I Bugiardini è la Compagnia che dal 2018 porta nei migliori teatri il primo musical improvvisato italiano, rifacendosi completamente alle atmosfere di Broadway. Ogni spettacolo non vedrà nessuna replica, ma nonostante il pubblico non conosca le canzoni, esce dal teatro cantandole.
di Chiara Savoi
SIENA. Marco Paolini è da sempre dalla parte giusta, quella del sociale, della difesa dell'ambiente, dell'analisi puntigliosa dei fatti, della ricostruzione senza sconti dei ricordi e anche questa volta si conferma istrione che incanta, fa pensare, commuove e fa anche ridere. Uno spettacolo che racconta la biomassa, quanto pesa, quanto andrebbe protetta e quanto invece stiamo distruggendo perché aumentiamo in modo esponenziale la zavorra inutile. Paolini interagisce con il pubblico e ci chiede se abbiamo una vaga idea di quanto sia il peso della biomassa sulla Terra. Anzi, ci chiede anche se sappiamo cosa sia davvero la biomassa. Pesa 1,3 milione di tera. Ma come si scrive? Quanti zeri ci sono? Come possiamo quantificarlo e capirlo veramente? E da qui, dalla biomassa, partono i suoi ricordi intrecciati con le storie di altri, compresa la Rosina una signora che lui, giovane volontario in Friuli dopo il terremoto, aveva scambiato per un oste e che era invece una signora qualunque che aveva offerto a lui e ad altri sette uomini quel poco che aveva: un caffè con la moka e la grappa. Quando gli otto avventori avevano capito di non essere in un'osteria, ma a casa di Rosina, erano scoppiati a piangere. E Paolini, anni dopo, la va a trovare e lei gli dice una frase semplice: mi hanno ricostruito la casa e hanno spostato l'interruttore della luce delle scale da destra a sinistra ed io continuo a cercarlo a destra dopo tutti questi anni, perché non è facile accettare i cambiamenti.
di Chiara Savoi
SIENA. Una delle cose belle dell'andare a vedere uno spettacolo di danza è che tra il pubblico, quasi sempre, ci sono dei ballerini; e si riconoscono subito appena entrano: camminano come se danzassero, schiene dritte e sguardo sognante. Lo spettacolo può iniziare. Sipario aperto, scenografia data solo dai teli bianchi lungo le tre pareti e nessun oggetto. Luci bianchissime. Arrivano i sette ballerini (Houssni Mijem, El Houssaini Zahid, Nadjib Meherhera, Mohammed Elhilali, Bendehiba Maamar, Badr Benrguibi e Oualid Guennoun) vestiti di bianco e, di spalle, si tolgono la camicia. Il testo di Chantal Thomas e del coreografo Hervé Koubi sottolinea i clichés da combattere, primo fra tutti: le ragazze cuciono e i ragazzi giocano a calcio e i ballerini si alternano in street dance, hip hop e danza contemporanea grazie alle musiche originale di Stephane Fomentin. Il coreografo ha lasciato poco spazio all'immaginazione perché attraverso il testo raccontato alternativamente dai sette protagonisti, riusciamo a capire tutto e a seguire perfettamente la storia del ragazzo che ama la danza e odia il calcio e ogni altro sport e per questo viene bullizzato a scuola e non difeso dal padre. Solo quando muoiono i suoi genitori può finalmente sfogare la sua vera passione e perdonare proprio loro che non lo hanno mai appoggiato.
PISTOIA. In quegli anni, indimenticabili, in particolar modo per noi, che c’eravamo e che oggi, se abbiamo avuto la fortuna di resistere, se non vecchi, siamo decisamente anziani, di Radio (Libere), ne nacquero a bizzeffe. Questa che vi racconto è la storia, bellissima, di Radio Pistoia Sound, che divenne, nel giro di breve, Radio Sound, ma solo perché sempre, quasi contemporaneamente, sempre a Pistoia, nasceva Radio Pistoia; quel sound, improvvisamente tardivo, andava anticipato, per motivi di riconoscibilità, soprattutto sulle modulazioni di frequenza. Una radio che, come le migliaia che nacquero in quel decennio magico 1970-1980, a un certo punto, smise di trasmettere. Ma quei pionieri, nostalgici di un’epopea inimitabile e fieri di aver portato alla luce un’esperienza collettiva, libera e terribilmente sociale come una radio, Radio Sound, hanno deciso di autocelebrarsi e per farlo hanno invitato tutti, ma proprio tutti, quelli che ne fecero parte nelle varie edizioni (tra appartamenti trasformati in campi di battaglie informative con mezzi di fortuna per andare in onda e i contenitori delle uova per insonorizzare le stanze. fino all’ultima stagione, quella della Sede ufficiale, dotata di tutti i crismi, Sant’Agostino), a una riunione particolarmente carica di affetto e indimenticabili ricordi.
PRATO. Certe volte bisognerebbe avere il coraggio di non applaudire. E dissentire. Apertamente. È quello che avremmo voluto e dovuto fare ieri sera, al Fabbricone di Prato, al termine del facoltosissimo videogioco Nottuari, fortemente reclamizzato dalla stampa qualificata e superprodotto dal Met in collaborazione sinergica con il Teatro di Roma, LAC di Lugano, Teatro Piemonte Europa, Emilia Romagna ed ERT, unanimemente convinti nell’esaltare tanto la fonte (Thomas Ligotti), quanto il suo interprete, Fabio Condemi. Nessuno ci ha però obbligato ad andarci, a vederlo, si potrebbe immediatamente chiarire. Ma dal nostro privilegiatissimo punto di osservazione (i posti migliori, offerti gratuitamente), non possiamo subdolamente scegliere solo quello che sappiamo ci piaccia e ci piacerà. Il confronto deve essere totale, figlio di una visione il più possibile larga, ampia, aperta a ogni infiltrazione e immediatamente disposta a percepire, capire, immagazzinare, reclamizzare e rivendere. Informare e formare: questo è il problema. Ma da storici e per nulla pentiti fricchettoni quali siamo per fortuna e per scelta orgogliosi di essere, inebriati dal colore, dal funk e soprattutto dalla joie de vivre, anche quando racconta il dolore, la rinuncia, la morte, al cospetto del mistero, del grigio, del dark, ci spazientiamo, soprattutto quando è figlio di sofisticate architetture che tendono, inevitabilmente, a spostare l’accento della forma, del corpo e della parola altrove, in una cascata di informazioni visive, sonore, emotive che allontanano la ragione, o meglio, la posizione, da un punto di vista che sia, se non incontrovertibile, per lo meno difendibile.
NON POTEVA che chiudersi ad Are, in Svezia, dove si era aperto, il 20 dicembre 2012, il cerchio magico dello sport, quando la divinità Mikaela Shiffrin, non ancora diciassettenne, ottenne, proprio sulle stesse pendici svedesi, il suo primo successo in Coppa del Mondo di sci. In questi dieci anni e pochi mesi di storia invernale, la stratosferica atleta statunitense ha inanellato altri ottantacinque successi (solo in Coppa del Mondo, eh; delle vittorie ai Mondiali, con relative medaglie, non ne parliamo nemmeno) e oggi, sempre in Svezia, ad Are, con la vittoria dello slalom gigante, ha eguagliato un’altra divinità, quella svedese, ironia della sorte, che risponde al nome di Ingemar Stenmark. Su questa rivista ho deciso, sin dall’esordio, di non occuparmi, volontariamente, di sport; ma il record ottenuto oggi da Mikaela Shiffrin va ben oltre il limite sportivo, i numeri, la perseveranza al successo, gli allenamenti, i materiali, le scioline, la condizione atletica, la tecnica professionale (scia con estrema naturalezza, senza mai aggredire pali stretti e larghi, senza mai dare l’impressione di essere in piena trance agonistica, senza mai dare l’impressione di essere, come le succede invece molto frequentemente, la più veloce): è un’altra cosa, che appartiene alle leggende, quelle che si tramandano, a grandi e piccini, di generazione in generazione per l’eternità e che rimarranno tali, sacre e inviolabili, nei secoli dei secoli.
di Chiara Savoi
SIENA. Jannacci vieni fuori, dai, non ti facciamo niente. Abbiamo capito. Dai, Jannacci, rientra nel sistema. Così Elio, grazie all'aiuto di un megafono rosso, inizia lo spettacolo Ci vuole orecchio con la regia di Giorgio Gallione e gli arrangiamenti musicali di Elio Silvestri. Lo spettatore non deve aspettarsi uno spettacolo documentario perché di Enzo Jannacci non si scoprirà niente di nuovo e non si conoscerà nessuna esegesi di nessuna canzone, ma uscendo dal teatro saprà chi era Jannacci e capirà la sua genialità. Jannacci era il comunardo, come lo chiamava il suo primario in ospedale perché visitava i bambini poveri meridionali, ma è anche l'artista che più di ogni altro ha saputo raccontare la Milano degli anni '60 e '70, quella delle periferie surreali e assurde: personaggi borderline, puttane con il mal di piedi (La luna è una lampadina) tossici e anche i tassisti (Aveva un taxi nero) con i loro drammi. In questo spettacolo le canzoni vengono annunciate da monologhi scritti da Dario Fo, Michele Serra, Beppe Viola, Cesare Zavattini, Umberto Eco, Emilio Gadda e che parlano di altro ma, attraverso un semplice link, anche una sola parola, sono connesse alla canzone seguente. Così, ad esempio, il discorso sul traffico che vuole andarsene da Milano, introduce la canzone del tassista Mario e una scritta sul muro Margherita perché introduce quella della prostituta. Quanto c'è di Jannacci in Elio? Tantissimo!
di Chiara Savoi
SIENA. Machine de cirque (Compagnia nata in Quebec nel 2013) stupisce anche questa volta nello spettacolo Galerie, proposto al Teatro dei Rinnovati, a Siena, unendo in modo sapiente la musica, la pittura, il teatro, la pantomima, la poesia, le acrobazie aeree e l'equilibrismo. Lo spettatore trattiene il fiato quando la colonna di 3 uomini, uno sull'altro, cade in obliquo e torna a respirare quando la vede frantumarsi un attimo prima di toccare terra. Impossibile elencare tutti i giochi acrobatici messi in atto, dalle capriole veloci alla camminata in aria durante una ruota sospesa, dalle colonne umane ai tripli se non quadrupli salti mortali atterrando in equilibrio sulla testa del compagno. Machine de cirque è un progetto straordinario che vede coinvolti artisti circensi provenienti da tutto il mondo, è mescolanza di culture e tradizioni per dare vita a spettacoli che coinvolgono sia il teatro che il circo senza dimenticare il Paese che potrebbe diventare ambasciatore nel mondo di questa antica e fantasiosa specialità: il Quebec. Equilibrismi vertiginosi, poesia, emozioni forti, creazioni ingegnose, intelligenza e grandissimo sense of humor, sono solo alcuni degli ingredienti più succosi della Compagnia. Cosa ci aspettiamo da un loro spettacolo? Ingegno, bravura, risate e profonde riflessioni. Uscendo infatti ci chiediamo cosa abbiamo visto, se frammenti di vita (sanno stare in fila gli uomini? sanno aspettare il loro turno?) oppure la nostra società (in cui l'anticonformista è pesantemente additato dagli altri) oppure esattamente quello che sembra dalla prima scena e dal titolo stesso: spettatori in una Galleria di arte in cui le opere sono grigie e anonime fino a quando arriva qualcuno a scomporre tutto, creando, a ogni spettacolo, una nuova opera pittorica coloratissima.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Mai come stasera sembra così calzante cadere in mille pezzi, giusto per avere poi la possibilità di ricostruirsi in un loop infinito, in ere infinite, in luoghi continui e senza tempo. La tela bianca del Funaro fa da sottofondo perfetto a un nuovo incontro di danza di questo acerbo 2023 che avanza. È un mosaico che, tassello dopo tassello, si mostra, ma che forse non si completa mai, lasciandoci la suggestione di una domanda aperta. Un iniziale assolo scomposto che catalizza tutta la nostra attenzione: Lukasz Przytarski si muove ora lento e morbido ora nervoso e spasmodico per tutto lo spazio che il palco può concedergli perché non rimarrà solo troppo a lungo; Damiano Ottavio Bigi lo cerca con gli occhi e con il corpo. Sorprende, poi, quando si trovano, perché si ha la sensazione che se da una parte una forza calamitante li sospinga l’uno verso l’altro, un’altrettanta opposta li allontani, come due biglie che scontrandosi con rapace velocità non facciano in tempo a toccarsi che già si ritrovano in direzione ostinata e contraria. Ed è appunto ostinata e contraria la storia che racconteranno. Un disaccordo musicale che cadenza i loro passi e i loro movimenti. È la mancanza del proprio spazio intimo, la volontà di stabilire la dipendenza da sé stessi per poi, inevitabilmente, capitolare nella ricerca dell’altro, del contatto, della solitudine condivisa.
di Chiara Savoi
SIENA. Sogno spesso di volare. Piego un po' le ginocchia, respiro lentamente, mi slancio in alto e prendo il volo. Quando mi sveglio, mi accompagna per tutto il giorno questa sensazione di leggerezza e, anche se non provo a saltare, mi resta dentro questa meravigliosa idea di poterlo fare, se solo volessi. In questo Inferno si vola e si esce da teatro leggeri e felici. Altamente consigliato a chi pensa che non sia possibile credere alle illusioni, perché cambierà idea, e ai sognatori, perché troveranno una grammatica condivisa. Ma di cosa si tratta? In poche parole è uno spettacolo di danza illusoria perché i performers non danzano veramente, o almeno non fanno solo questo, ma eseguono movimenti ginnici e acrobatici che danno origine a una danza lenta, molto lenta e impossibile se si facesse in piedi. Il palcoscenico dei Rinnovati, a Siena, è spoglio. Luci di traverso e nient'altro. Tutto nero. Ma anche questa è un'illusione perché in realtà c'è uno specchio, grande quanto un appartamento grande, disposto in obliquo sopra al palco, ma lo vediamo solo quando inizia lo spettacolo grazie ai corpi a terra che qui vengono riflessi. Per me si va tra la perduta gente/ Per me si va nell'eterno dolore citazione dantesca con la voce di Gassman Lasciate ogni speranza o voi che entrate ed è così che viene introdotto l'Inferno.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Siamo a metà di una mattinata che promette tempesta, nonostante un caldo sole che filtra dalle ampie finestre della sala. La salta Altana per la precisione che quasi suona come un medicamento ayurvedico e forse in qualche modo, un medicamento, lo è davvero. La Fondazione Pistoia Musei dunque accoglie e presenta Le parole di Hurbinek che farà da apripista a un percorso che dal 18 al 29 gennaio luciderà lo sguardo pistoiese. Una tavola rotonda che, in realtà è rettangolare, accomoda personalità disparate che unendo le forze cercano di creare, di coinvolgere e di innovare. Partendo da Lorenzo Zogheri, Giovanni Capecchi, Ezio Menchi, Gianfranco Gagliardi e Massimo Bucciantini insieme ad altri interessanti attori presenti alla conferenza, facciamo un breve viaggio in un futuro prossimo che profuma di un blando zefiro che sui flutti di un imminente novità spira. Un percorso che viene da un lungo incontrarsi e interfacciarsi per poi progettualizzarsi in quella che sarà una visione originale di un argomento così denso e pesante che corre un brivido al solo pensarci: la Shoah. E allora “Nel mondo che abbiamo oggi sotto gli occhi c’è ancora posto per una riflessione sulla Shoah? Quando tutti i testimoni ci avranno lasciato, ci resterà solo un lontano ricordo, come accade per tanti eventi del secolo scorso, che esauriscono la loro funzione nei piatti e ripetitivi riti della celebrazione? Quali parole, quali immagini, quali spazi dobbiamo inventarci perché tutto questo non accada? Come far sì che quel passato resti carne viva per il presente?
di Chiara Savoi
SIENA. Introduce il concerto l'arcivescovo di Siena Augusto Paolo Lojudice Spezziamo le spade e facciamo aratri. Stasera facciamo e cantiamo la pace. Tacciano le armi e si cerchino nuove condizioni per i negoziati di pace. La vera risposta non possono essere le armi, ma una nuova maniera di governare il mondo. Per il covid si è trovato un vaccino perché non lo troviamo anche per la guerra? Semplice, perché la guerra è nel cuore degli uomini e non è facile da estirpare. Poi prende la parola Giovanni Minnucci, Rettore dell'Opera della Metropolitana di Siena e fa un breve excursus sugli uomini del passato che hanno inseguito la pace e introduce Noa, testimone della pace come diritto delle persone, dei popoli e delle Nazioni. E il concerto può iniziare: entra il quartetto Solis String Quartet seguito da Gil Dor, lo storico chitarrista che l’accompagna da oltre trent’anni e poi finalmente lei, Achinoam Nini, in arte Noa, che inizia a cantare e le settecento persone ammesse all'evento smettono di respirare per godere in pieno della bellezza della sua voce. La prima canzone è una tarantella e durante il concerto ci spiega, infatti, che lei ama l'Italia e soprattutto la musica napoletana, una musica d'amore che ha molto in comune con la sua Terra di origine, Israele e lo spettacolo sarà tutto un mix di culture e ce lo spiega cantando a cappella. Shalom.
di Chiara Savoi
SIENA. Prego si accomodi. Il visore alla sua sinistra per favore. I posti sono liberi. Vada dove vede il visore, ma si sieda affinché il visore sia alla Sua sinistra. Il pubblico è sistemato solo in platea, i palchetti sono vuoti. I turni sono sold out. Devono fare due turni perché in ognuno non possono esserci più di cinquanta persone Poi capirà perché è meglio che non siate troppi. Mi siedo, visore a sinistra. Non prendetelo in mano fino a quando non ve lo diciamo noi. Siamo tutti molto diligenti e ci guardiamo intorno con grandissima curiosità, senza però sapere neanche cosa potremmo chiedere. Una cosa così a Siena non si è mai vista sicuramente. Adesso voi siete qui ma tra 20 minuti sarete tutti da un'altra parte. Sono le 18, arriva una coppia, ma non si siederanno vicini perché durante lo spettacolo non siamo insieme a nessuno, non potremo interagire tra noi e in ogni fila di dieci posti siamo al massimo in tre. Aspettiamo ancora qualcuno e sentiamo chi si mette a parlare di altro per ingannare l'attesa mentre le maschere aiutano gli ultimi due a trovare i loro posti. Finalmente possiamo iniziare. Arriva un operatore che ci spiega che saremo immersi in una realtà virtuale a trecentosessanta gradi e potremo guardare ovunque, ma è importante che i nostri movimenti siano lenti. Se durante la visione dovessimo avere problemi non dovremo toglierci il visore, ma alzare la mano e verrà qualcuno ad aiutarci. La cosa importante è non togliere il visore. Quando tutti vedranno una scritta rossa potremmo iniziare.
di Chiara Savoi
SIENA. Si apre il sipario e dieci attori stanno immobili con dei sorrisi finti, irreali, mentre dietro si muove qualcuno. Si capisce dopo, ma rappresentano i non pazzi, quelli che vivono fuori dal manicomio, che hanno le loro vite, false come i loro sguardi. E quest'opera giovanile, Ditegli sempre di sì, per la regia di Roberto Andò, prodotta da Elledieffe, la Compagnia di Teatro di Luca De Filippo e Fondazione Teatro della Toscana, di Eduardo De Filippo può così iniziare, con l'immancabile donna delle pulizie, pettegola e tuttofare che rimette a posto il divano usato per dormire. Certo che se la servetta dorme dove poi staranno seduti sia la padrona che gli ospiti vuol dire che la famiglia non se la sta passando tanto bene e infatti arriva Don Luigino, mancato dottore, mancato attore e mancato poeta che sta a pigione nell'appartamento di Donna Teresa, una non particolarmente convincente Carolina Rosi. Don Luigino incanta tutti con una magistrale lezione sulla risata: quella rosa dei poeti, quella sarcastica, da bonaccione e, soprattutto, quella satanica perché Dottore ma voi lo sapete cos'è più difficile per un attore? Ridere e piangere e riesce a convincere i suoi ascoltatori facendo credere loro di essere orfano e morto di fame. Donna Teresa è agitata e si scopre presto il motivo: sta aspettando il Dottore (quello vero) che riporterà a casa suo fratello dal manicomio.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Niente si nasconde in questo sabato sera; né l’aria vagamente pungente che pizzica il viso, né la prospettiva di un nuovo spettacolo al Funaro di Pistoia, tantomeno il palco che, nella sua nudità, si mostra contenitore di fantasie, storie e sogni. E sarà proprio a partire da un sogno, per sua natura visionario, che assisteremo allo snocciolarsi di frammenti che forse niente hanno a che vedere l’uno con l’altro. Il Funaro, dunque, apre di nuovo le braccia a Daniel Pennac, ormai elemento imprescindibile, per nostra fortuna, di questa associazione che da piccola si è fatta grande. La Compagnie Mia quindi si mostra nella sua progettualità, nel suo intreccio oltreconfine facendo calcare la scena a quattro personaggi che, in una composta fila indiana, si presenteranno al pubblico: Daniel Pennac, Pako Ioffredo, Demi Licata e Antonio Urso. Per la regia di Clara Bauer si insinueranno, parola dopo parola, nei corridoi onirici di Daniel Pennac, ora in francese, ora in italiano, ora in napoletano, riuscendo così a creare immagini vivide che si alterneranno a sorrisi beffardi e occhiate complici. Dal sogno alla scena appunto per questa prima regionale di poco più di un’ora che ci fa attraversare panorami e sensazioni disparate.
di Chiara Savoi
SIENA. Partiamo dalla fine. Virginia Raffaele entra in taxi dopo aver scattato le foto con tutti quelli che la stavano aspettando per farle i complimenti e ringraziarla per le due ore e un quarto di risate e bravura che aveva dispensato. E grazie de che: senza di voi non sarei nulla. E cominciamo dall'inizio. Teatro pieno, quello dei Rinnovati. Sold out per i tre giorni di repliche. Da quanto non succedeva una cosa così? Da troppo tempo. La gente non ha più voglia di uscire e men che mai in una serata che preannuncia pioggia. Dopo il caldo dei giorni, dei mesi passati, stasera, a Siena, fa davvero freddo. Una buona scusa per non uscire. Eppure il teatro è pieno, fino al quarto ordine e tutta la platea. È lo spettacolo che dà inizio alla nuova stagione teatrale di Siena con la Direzione artistica di Alessandro Benvenuti. Samusà, questo spettacolo è per te. Dignità - Sobrietà – Misura. Si apre il sipario e una stupenda ballerina brasiliana, impacciata con lo strascico dell'abito, canta in grammelot brasileiro e capiamo subito che siamo a vedere lo spettacolo giusto, che ci farà passare due ore spensierate. Ma Virginia Raffaele ci fa anche pensare e ci racconta chi sono i giostrai, ci parla nella loro lingua, una lingua tramandata oralmente in cui le parole hanno significato, altro, compresa quella del titolo SAMUSà, che vuol dire silenzio.
di Chiara Savoi
SIENA. Sipario aperto al Teatro dei Rozzi, a Siena. La scenografia è un’impalcatura che mette lo spettatore nella consapevolezza di stare per assistere a un Cirano particolare o, per lo meno, diverso dal solito. Iniziamo a occupare i posti in platea mentre sul palco due spadaccini, come un metronomo, scandiscono il tempo colpendo la spada dell'altro. Hanno entrambi due nasi lunghissimi. Chi di loro è Cyrano (Alessandro Bay Rossi?), chi è Cristiano (Giusto Cucchiarini?)? Sopra di loro una donna che immaginiamo essere Rossana (Paola Giannini) che li guarda in silenzio. Tic-toc-tic-toc-tic-toc. Rossana scende e loro continuano con il loro tic-toc-tic-toc; viene verso di noi, si ferma dietro a uno di loro e lo uccide colpendolo forte, con violenza. Stessa sorte per l'altro e inizia a raccontarsi. Chi è Rossana? Cosa pensa? Come vive l'amore dell'altro? Cosa vuol dire rappresentare l'amore? Cos'è un copione? Cos'è il teatro? Ce lo racconta cantando rap. Bravissima. Abbiamo chiesto al giovanissimo e innovativo regista, Leonardo Manzan, perché la scelta di questo genere musicale e ci ha raccontato che mentre stavano adattando il testo di Bergerac alla versione moderna che lui aveva in mente, si sono resi conto che quella rabbia e quella ferocia potevano essere espresse bene solo da rap. All'inizio questo spettacolo era composto da quadri staccati uno dall'altro e non erano cantati, anche se c'erano delle musiche di accompagnamento. Poi ci siamo trovati bene con questo cambio ed è così che lo stiamo presentando dal 2019.
di Dario Monticelli
PISA. Nell’azzeccata location pisana della corte interna del leggendario Palazzo Blu (al secolo il cinquecentesco Palazzo Giuli Rosselmini Gualandi, dal 2011 nota sede permanente di mostre ed eventi culturali), è andata in scena una ben studiata riduzione del Macbeth, opera lirica del maestro Giuseppe Verdi (personaggio che non richiede certo ulteriori approfondimenti), su libretto di Francesco Maria Piave (prolifico collaboratore del compositore emiliano). Fabio Midolo allestisce e contribuisce (sì, perché si presta anche a un autorevole ruolo attoriale quale narratore) alla messa in scena elementare, ma appagante, dal disturbante fascino retorico, dalle atmosfere vagamente stile littorio. Una pulizia formale essenziale ed efficace a tracciare con linee nette il pathos della tragedia incombente, merito anche delle scene e costumi di Chiara Spanò. Accompagnati da Andrea Gottfried (direttore d’orchestra prestato al management d’azienda, è il caso di dire), pianista vivace nonché curatore della direzione musicale, i cantattori si stagliano monolitici e austeri nel ristretto spazio scenico, che suggerisce all’immaginazione le prospettive della corte d’un palazzo nobiliare, quale in effetti ci troviamo.
PISTOIA. La stima e il consenso se li è guadagnati sulla strada; il piccolo schermo ufficiale, quello della Rai, gli ha dato quello che occorre per vivere sul mercato, la notorietà. La storia di Giuseppe Carmignano, da quando è passato dagli studi di Saxa Rubra, la sanno un po’ tutti: non ancora trentenne, siciliano di Niscemi, sposato con un’ucraina che le ha già dato in dono tre figlie (fino a quando non arriva il maschietto non ci fermiamo, ha detto sorridendo) ha trasformato il suo talento e la sua passione in un lavoro. È un cantante, che conosce perfettamente tanto le sue doti quanto i suoi limiti e che preferisce (per ora, perché se le cose gli dovessero andare per il meglio, non è da escludere che smetta di vagabondare) ai palcoscenici, agli studi televisivi, gli angoli delle strade. Lo abbiamo conosciuto, stamattina, in pieno centro a Pistoia, che pullulava, come ogni mercoledì e sabato, di acquirenti compulsivi. Era sull’angolo della centralissima piazza che coincideva, negli anni ’60, ’70 e ’80, con il punto di partenza e arrivo delle vasche dei giovani indigeni. Ha piazzato il suo microfono, le sue casse amplificate, collegandole al suo telefonino, che gli ha fornito, nel giro di un paio d’ore, le basi musicali di un numero imprecisato di basi musicali di grandi successi, tutti italiani.
PRATO. Lezioni da Buster Keaton non smetteremo mai di prenderne. Non solo per come si faccia a far ridere di gusto, ma soprattutto per come si possa e debba essere politicamente scorretti. A Prato, per questa duplice operazione, l’omonimo Comune ha deciso di delegare l’Associazione Zappa (un mix tra l’incommensurabile Frank e l’invito a riprenderci la terra, più che le piazze), che per portare a compimento l’evento (si replica il 9 luglio) ha chiesto e ottenuto la collaborazione del Terminale Cinema e quella del Tpo e occupando l’ex Fabrica (tra Fabbricone e Fabbrichino) ha mandato in onda, su uno schermo posto davanti al giardino (un po’ Woodstock, un po’ Berlino), One week, cortometraggio ideato e prodotto centodue anni fa. Non solo. Perché durante la proiezione dell’assurdo matrimonio tra Keaton e Seely (semplicemente memorabile il lancio delle scarpe, al posto del riso, all’uscita della Chiesa dei due sposini, con lui che se ne porta via un paio, che sembrano andare benissimo per i suoi piedi), ai lati dello schermo, Federica Camiciola, Francesco Fanciullacci, Alessia Castellano e Mirko Maddaleno hanno dato degna resurrezione sonora al capolavoro muto, allestendo una colonna musicale che più si confacesse alle tragicomiche immagini del cortometraggio, una casa di legno faidate come regalo di nozze composta da blocchi numerati che il vecchio fidanzato della sposina, ancora accecato dalla gelosia, contraffà, generando un’insana, pericolante e rotatoria architettura.
PISTOIA. Nel cuore di ognuno dei giovani, giovanissimi, protagonisti che hanno dato vita alla rappresentazione Che fine hanno fatto i Brooke, non è così difficile immaginare che un posto, più o meno grande, sia riservato a velleità artistiche. Del resto, lo spettacolo, mandato in scena nella sala delle grandi occasioni del Funaro, ha rappresentato l’atto finale del Laboratorio istituito dall’omonima Associazione che ha dovuto fare i conti con i miraggi teatrali di Rossana Dolfi, che ha reputato opportuno, con frutti evidenti, mettere alla prova i suoi discepoli con una confortante dimostrazione di lavoro dell’anno 2021-22. E così, Anita Bartolini, Niccolò Brogioni, Elena Capecchi, Mariasole Citi, Francesca D’Angelo, Miron Del Pero, Martina Faralli, Vanessa Giuntini, Giulia Gualtierotti, Edoardo Lucchesi, Sofia Maida, Francesco Mazza, Samuel Mazzei, Giulia Mazzoli e Gaia Pasquini (ordine semplicemente alfabetico), si sono esibiti in un giallo avvincente, con palpabili momenti emotivi e di suspence ad altri decisamente più rilassati e divertenti. Un intreccio per nulla elementare di continui arrocchi tra i numerosissimi personaggi che entrano ed escono dalla scena dove non si capisce, se non nelle battute finali, cosa sia mai successo alla coppia che festeggia i suoi dieci anni di matrimonio. L’accento, ovviamente, va messo altrove, nell’ordine e nella disciplina che un lavoro del genere richiede indispensabilmente, nei tempi, nei modi, nella passione con la quale ognuno di loro (ragazzi in età compresa tra i 14 e i 19 anni) indossa gli abiti di scena. Questo è il teatro, questo è e dovrebbe essere un motore accuratissimo di ricerca con il quale far viaggiare le nuove generazioni.
NON VI LASCIATE distrarre dalla sua bellezza, seppur la cosa risulti oggettivamente complicata. Se avesse voluto i riflettori sul suo corpo e basta, Veronica Mondini avrebbe scelto qualsiasi altro canale della comunicazione, tutti decisamente meno impegnativi, meno rischiosi e soprattutto più remunerativi. E invece, ha deciso di coniugare la sua mole giunonica con l’abbandono, la fatiscenza, il crollo. Lo ha fatto per denunciare l’incuria nella quale versano molti, troppi, siti del nostro passato, lasciati in balia delle intemperie che senza l’intervento umano restauratore sono destinati a una fine inesorabile, nella quale, oltre a venir cancellate sterpaglie, siringhe e carcasse di ratti, si passerà un velo d’oblio, casomai con le ruspe, anche e soprattutto sulla storia. Ma qualcosa siamo ancora in tempo per poterla fare. E per capire di cosa si tratti è sufficiente acquistare Urbex, la bellezza nell’abbandono (Golem, 24 euro), uscito proprio oggi, 12 maggio, scritto proprio da Veronica Mondini, dalle sue foto, fatte e ricevute, dai suoi racconti, dalle sue indagini su siti dimenticati e che proprio grazie al suo interesse potrebbero tornare a conoscere il loro antico splendore, anche se parte della loro bellezza e del loro fascino consista, anche e principalmente, nel loro declino, nella loro rovina, nella loro chute.
di Silvano Martini
FIRENZE. Improvvisa e inaspettata la scomparsa nel sonno del musicista fiorentino, ma cittadino del mondo, Leo Boni. Aveva iniziato la sua carriera alla Berklee School Of Music nel 1984, ha lasciato sconvolti i numerosi amici, appassionati e musicofili toscani. Leo non era solo un grande, enorme, chitarrista, ma era un artista che, una volta visto, non potevi certo dimenticare. I suoi lineamenti facevano della sua sagoma una maschera caratteristica inconfondibile, tanto che l'amico di sempre, il sassofonista Cris Pacini, l'altra metà dei Coguari di Cinta, duo che allietava le serate nei club toscani, si divertiva a caricaturizzare in tutte le maniere possibili sulle varie locandine che annunciavano le loro serate. Con quella sua criniera leonina, il suo inconfondibile naso e la sua voce cavernosa, che lo faceva addirittura sembrare un cantante di colore di New Orleans e un carisma da tipico artista d'oltreoceano da dove proveniva, era impossibile che, una volta visto appunto, venisse dimenticato.
SI SARA’ voluta ispirare a quella pianta medicamentosa che nei paesi tropicali raggiunge e supera i tre metri o all’unica comandante dell’impero di Serse? Non glielo abbiamo chiesto, a Silvia Rigoni, in arte Artemisia, appunto, a cosa si debba il suo pseudonimo. La risposta, tra l’altro, potrebbe essere assai più banale e per questo, la domanda, non gliela porremo. Ma l’abbiamo sentita cantare, abbiamo ascoltato le parole del suo testo, Essere umano, catapultato, tre giorni fa, dalla sua voglia di spaccare su tutte le piattaforme digitali, che sono la nuova frontiera della visibilità. Detto da noi, che ci avviamo, con estrema inconsapevolezza verso i sessanta, fa sorridere, ma Silvia Rigoni, anzi, la chiamiamo Artemisia, così il nome inizia a circolare, non è più giovanissima (37 anni; la cima si intravede, dopo, inizia la discesa), nonostante dalle foto, curate da uno staff di tutto rispetto (Matteo Abbondanza, un’istituzione lombarda delle immagini), sembri poco più che una ventenne. Vive al Nord, nel profondo Nord, nel Purgatorio di Mantova (Mantua me genuit) dove le generazioni si allevano, quasi da sole, alla ricerca della migliore condizione umana, che solitamente coincide con posizioni di prestigio, ricchezza e benessere.
FIRENZE. Ci aveva già provato Antonio Latella, riuscendoci perfettamente, a catapultare Eduardo De Filippo altrove. Lo aveva fatto decontestualizzando Natale in casa Cupiello e affidando e confidando nello sforzo titanico di un’esile, ma indistruttibile, Monica Piseddu la forza, meravigliosa, della tenerezza di quella poesia che ha dato addirittura nuovo lustro a una festività che è già di per sé leggendaria. A molti, quell’operazione, apparve sacrilega. A molti, non certo ad Anna Ammirati, che con ancor maggior superbia, se volete, ha trasformato la poesia di Eduardo De Filippo in una ballata dub. Napsound, questo il titolo del suo recital avanguardistico partenopeo, prodotto da Fondazione Teatro della Toscana e accompagnata sul palco del Saloncino Paolo Poli della Pergola, a Firenze, da Rocco Siliotto, attento consollista e abile agitatore del theremin, secolare strumento elettronico che lavora su oscillatori in isofrequenza: è uno strumento che si suona con il pensiero e con la sola presenza, in campo d’onda, delle mani del musicista. L’apocrifa provocazione non si ferma qui. Perché oltre a rinunciare al mandolino e alla melodia, la regista di Castellammare di Stabia ha chiesto ad Alessandro Papa di lavorare su videoinstallazioni e le poesie, improvvisamente, diventano novelle, storie, che si intersecano e si inanellano con incredibile naturale sequenza.
FIRENZE. L’unica cosa decifrabile e comprensibile, e per alcuni versi scontata e doverosa, è stato l’omaggio reso al dolore e al terrore del popolo ucraino, con il suono della sirena latore di imminenti bombardamenti, presagi atomici. Così la Pergola, a Firenze, ha smesso di confabulare con quello seduto accanto e si è accomodato nella poltroncina. Da quel momento in poi, la comprensione – scomodate pure tutti i piani semantici di vostra conoscenza che volete; non ne trarrete un ragno da un buco – è letteralmente scomparsa, completamente sostituita da un livello, indotto, di altissima emozione, articolato su una vastità di angolazioni difficili da memorizzare e soprattutto catalogare. Elenit, ideato e diretto da Euripides Laskaridis, non è una rappresentazione teatrale, ma una prova tecnica di trasmissione post bellica. Anzi, pensandoci bene e meglio, potrebbe addirittura essere un’alternativa lisergica alla distruzione totale, finale, quella che, nostro malgrado, potremmo essere costretti a vivere e subire. Non stiamo usando parole senza senso e luogo per aggirare l’ostacolo dei nostri limiti: non abbiamo capito nulla, ma nel senso più inverecondo del termine. In compenso, però, ci siamo lasciati trasportare, fidandoci ciecamente, degli omini sul palco, in questo viaggio spaziale, iperuranico, dove si perdono i connotati umani e le apparenti bestialità sono ormai parte integrante della comunità dei sopravvissuti.
di Chiara Savoi
SIENA. Una bicicletta, una batteria ridotta all'osso. Al centro, un'impalcatura coperta da due teli. Tre cavi che attraversano il palco e, sulla sinistra, uno strano marchingegno. La platea piano piano si riempie. I brusii aumentano mentre il Teatro, quello dei Rinnovati, a Siena, in una cornice che parla da sola, è pervaso da suoni cupi, premonitori di un'apocalisse, quella rappresentata dalla compagnia canadese Machine de Cirque, fondata, due lustri scarsi or sono, da Vincent Dubé, che arriverà poco dopo. Si spengono le luci, sul palco e in sala: lo spettacolo, che non ha bisogno di alcun orpello, tanto che si chiama come la compagnia che l’ha ideato e prodotto, può iniziare, la magia del teatro può incantarci ancora una volta. È rimasto un solo uomo sulla Terra. Si guarda intorno in cerca di altri simili e inizia a suonare delle percussioni casuali che attirano altre presenze: arrivano in cinque (Guillaume Larouche, Thibault Macé, Philippe Dupuis, Samuel Hollis e Laurent Racicot), sono tutti uomini, torniti alla perfezione, e dovranno cavarsela da soli, ma durante lo spettacolo si cacceranno in problemi diversi e inaspettati. È uno spettacolo circense a tutti gli effetti, politicamente più che corretto; non ci sono fiere lobotomizzate, ma solo attenzione, lavoro, sudore, muscoli e tanti, tanti sacrifici. Ogni scena parte leggera, apparentemente semplice: sì, va beh, questo lo so fare anche io viene da pensare.
di Federico Di Pietro
PISTOIA. Il 12 dicembre in Italia riecheggia di bombe, tritolo, neofascismo e silenzio. Il 12 dicembre di Pistoia, fortunatamente, ha un altro sapore: ha quell’aroma agrodolce di anniversario. L’anniversario del primo anno di vita della libreria-bacaro Lo Spazio. Sarà che sono di parte e che, per almeno 9 mesi, ho visto in prima fila l’avventura della libreria ergersi e camminare rettamente, ma posso annoverare, questo 12 dicembre, come uno dei giorni più belli dell’anno. L’apertura di una libreria, e non di un supermercato di libri come il 90% degli altri negozi pistoiesi, ha un significato profondamente civico, che si lega, indirettamente, allo sviluppo culturale di una città. Specie se la libreria in oggetto è uno spazio che favorisce lo scambio tra i clienti e il libraio, tra i clienti e i clienti, tra i clienti e i clienti del bacaro. In una giornata caratterizzata dall’assenza/presenza da remoto di Marco Balzano, atteso in libreria ma fermato dalla dose booster del vaccino (vaccinatevi, per dio!), la presenza di Antonino Siringo e Rebecca Scorcelletti, rispettivamente piano e voce, ha sicuramente dato lustro a un compleanno particolare. Il concerto, programmato per le 18, ha visto l’affluenza di molte persone che, accalcandosi sia al bacaro, che in libreria, hanno potuto ascoltare, per una mezz’ora, una serie di pezzi tutt’altro che scontati.
di Federico Di Pietro
ROMA. Non si può parlare e non voglio ballare. La rivolta ormai è un fatto personale Lasciatemi stare. Così canta Andrea Appino, leader degli Zen Circus nel brano Non voglio ballare, dell’album La terza guerra mondiale. Che la rivolta, che la rivoluzione (anche se concettualmente diverse) sia diventata una aspirazione personale, forse post-storica, ormai lo si può dare per assodato. Non bisogna essere boomer per ammettere, in primis a noi stessi, che forse, certe stagioni del passato, sono solo un flebile ricordo. Chi crede nell’eterno ritorno dell’uguale, temo, rimarrà deluso. Non so, esattamente, se è questo il messaggio di fondo dello spettacolo 89, nella cornice post-industrial del Teatro India di Roma (vi consiglio, nel caso vi trovaste nella capitale, di farci un balzo), ma sicuramente la dicotomia disillusione-commozione riveste un ruolo trascendente per tutta la pièce. Partiamo dall’inizio, come sempre. Cos’è 89? Uno spettacolo, teatrale, che parla di rivoluzione. Vengono prese in esame, almeno in apparenza, due rivoluzioni, per certi versi simili, per altri dissomiglianti. La prima, quella francese, 1789. La seconda, 1989. Sì, del 1989, quella particolare rivoluzione che portò le autorità della Germania est a decretare la fine strategica del muro di protezione antifascista.
PRATO. Ha iniziato omaggiando Frank Zappa, musicista senza tempo, regole, schemi; ha chiuso il suo concerto suonando, in versione grunge, La strada, quel motivo, inconfondibile, scritto da Nino Rota e che è stato la colonna sonora di uno dei tanti, tutti, capolavori di Federico Fellini. Pensate: l’esibizione del 69enne newyorkese (di Syracuse) Gary Lucas, unica data nazionale di questo tour che vedrà la chitarra prediletta di Jeff Buckley girovagare, dopo averlo fatto per una vita intera, l’Europa e il Mondo, motivo per il quale ieri sera, 30 ottobre, siamo andati al Beste di Prato, a conti fatti è stata la cosa meno (s)concertante dell’evento. Sì, perché lo straordinario è l’idea, geniale, che a Prato, il Comune omonimo, il Museo del Tessuto, la Fondazione CDSE, sotto la direzione artistica della Fonderia Cultart, si sono messi in testa e hanno realizzato: TIPO (Turismo industriale Prato), che è la cartina di tornasole che unisce e coniuga visite guidate in edifici di archeologia industriale della città con un calendario, a cadenza mensile, che si concluderà il 26 e il 27 marzo del prossimo anno, di laboratori creativi riservati a quelli (i grandi) che capiscono e vogliono capire di più e quelli (i bambini) che si vogliono solo divertire.
di Simona Priami
PESCIA (PT). La famosa commedia di Moliére venne rappresentata per la prima volta nel 1664. Il Tartufo, particolarmente avversa per il contenuto anticlericale, su un testo che analizza l’ipocrisia con tutte le sue possibili sfaccettature, è una brillante rappresentazione di caratteri, con duri attacchi al bigottismo. Altro titolo, era L’impostore, Tartufo; si trattava di un falso che nasconde, sotto un’apparente moralità e una eccessiva devozione, una impietosa disonestà e un animo cinico; il nome stesso è in uso nel linguaggio per rappresentare un viscido e vizioso ipocrita. Moliére, che allora aveva l’appoggio del giovane re di Francia, Luigi XIV, con questa commedia si presentò come anticipatore dell’Illuminismo, prendendo le parti del pensiero laico e andando contro la religione vista come superstizione, anticipatore anche del pensiero di Voltaire e Diderot. Il teatro Pacini di Pescia ha proposto una versione rivisitata in chiave più attuale, neoilluminista, con la traduzione di Cesare Garboli e l’adattamento e la regia di Roberto Valerio, che indossa gli abiti di Orgone. Il sipario si apre mostrando, su un inquietante sfondo nero, quasi apocalittico, e una musica assordante, due personaggi che dichiarano di essere angeli, entrambi vestiti di scuro.
di Simona Priami
FIRENZE. Il teatro riparte finalmente a pieno regime e lo splendido Puccini di Firenze riaccende i motori in grande stile, con uno spettacolo frizzante, divertente recitato da artisti di elevato spessore. Riccardo Rombi mette in scena una famosa commedia del XVII secolo dai contenuti ancora attualissimi, trovando consenso di critica e pubblico. Si tratta de Il malato immaginario di Molière. Il testo, rappresentato per la prima volta nel 1673, analizza attraverso un eccellente intreccio gli aspetti nevrotici dell’essere umano, dei quali l’autore era profondo conoscitore. In particolare, il personaggio principale ha una perversa fissazione per le malattie, per le medicine e per le varie cure; lo stesso Molière, definito lo scienziato delle nevrosi, sembra soffrisse della solita ossessiva tendenza a sopravvalutare i minimi disturbi; da ricordare che nel ‘600 il termine immaginario significava pazzo. All’inizio della rappresentazione lo spettatore si trova immerso in una simmetrica scenografia con sfumature dal rosso al blu, con ai lati scaffali pieni di boccette colorate. Al centro Argante, il malato immaginario, è seduto su una sedia che sembra un trono, sulla testa una coperta, un musico è sulla sinistra ma domina il silenzio; le luci sono basse e dopo poco una voce irrompe dall’alto elencando medicine e cure dai nomi impossibili, con i loro prezzi; un elenco assurdo, impossibile, ironico, ma anche inquietante: il malato immaginario pondera sul totale da spendere.
di Chiara Savoi
TORINO. Con vergogna confesso che questa è la mia prima volta e l’esperienza è stata bellissima. Siamo a Torino, al Lingotto, la ex fabbrica storica della Fiat trasformata in luogo che ospita varie Fiere durante l’anno e, soprattutto, il Salone del Libro, arrivato alla sua 33esima edizione. All’ingresso una fila composta e scorrevole e all’interno una buona distribuzione del pubblico tra i vari stand. Tre padiglioni comprensivi di tutte le espressioni possibili dell’editoria, dalla narrativa al comics, passando per i libri per bambini e guide per viaggiare. Non mancano i grandi nomi come Hoepli, Lonely Planet, Loescher e Sellerio, ma un ampio spazio è dato anche alle piccole case editrici come Keltia, Efesto, Fusta, Spartaco e Miraggi. Duemilacinquecento relatori impegnati negli incontri letterari della cinque giorni più attesa dal 2019. Il titolo di quest’anno è Vita supernova, come a esprimere l’esplosione di nomi importanti che stanno gravitando nei padiglioni del Lingotto. Il logo è infatti una supernova cavalcata da Artemide. Qualcuno ci vede anche una colomba, come quella che annunciò la fine del diluvio, che annuncia la fine della pandemia. I libri salveranno il mondo. E a stare qui, viene da pensarlo davvero.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Serata di fine estate, tranquilla e piacevole sul Parterre di piazza San Francesco a Pistoia: cornice affascinante, nonostante il ponteggio davanti alla bella struttura dedicata alla memoria degli Uomini Illustri di Pistoia, architettura ispirata al periodo illuminista di matrice francese. Ancora un po' ci vorrà per terminare i lavori e rendere finalmente questo ameno luogo al suo originario splendore ma, ci dicono, è questione di poco. Il Parterre, già palcoscenico per il Gad due anni orsono con La compagna dei gelosi, questo luogo ha reso al Gad ancora possibilità di esibirsi, stavolta ne Gli imbianchini non hanno ricordi, atto unico di Dario Fo, ancora per la regia di Enrico Melosi. Ambientato in una casa chiusa degli anni ‘50, nel periodo immediatamente successivo alla Legge Merlin, che ne decretava la chiusura, è dove si svolge il contesto, la trama. Il Gad - Margherita Bucciantini, Gennaro Criscuolo, Antonella Ferro (suoi anche i costumi), Riccardo Fontani, Deborah Guidi, Raffaella Maino, Andrea Rossini, Alessandro Soldi - compagnia carica di energie e intenzioni comiche esplosive – è in piena forma, che si butta a capofitto nel gusto puro, nudo e crudo della commedia in tutta la sua comicità.
di Simona Priami
A ISRAELE, nei pressi di Tel Aviv, ci sono tre piani di un elegante, tranquillo e ordinato palazzo; all’interno, però, ci sono tanti personaggi, diversi per età, vissuto e personalità. Tra loro, inoltre, vivono sotterranei contrasti, profondi dolori e irrisolti rancori; soprattutto ci sono tre voci, tre intime confessioni, come se raccontare fosse liberarsi da paure, tormenti, sensi di colpa. L’esterno è ordinato, silenzioso e preciso, all’interno dominano il caos, la tensione e il rumore, come una rappresentazione dell’essere umano, come l’ipocrisia che spesso domina la nostra società. Il numero tre si ripete, il numero simbolico e ricorrente nella nostra tradizione, il numero della famosa triade freudiana: Es, Io e Super-Io, modello strutturale dell’apparato mentale, chiara manifestazione della complessità della psiche. I tre protagonisti, tramandati ai lettori da Eshkol Nevo e il suo Tre piani, raccontano, si sfogano, come fossero nello studio dello psicologo, parlano a chi sta ascoltando, a chi non c’è più, scrivono lettere, si rivolgono sempre e comunque a qualcuno, perché tenendo tutto dentro e stando soli si rischia di impazzire.
di Chiara Savoi
FIRENZE. L'idea de Le ragazze di San Frediano è nata da una protesta chiamata Tournée in citta a teatri chiusi che si è svolta a Firenze per quattro domeniche a partire dal 7 febbraio scorso, quando in zona gialla erano chiusi i teatri, ma non i centri commerciali. E da lì è venuto fuori il progetto di rendere quelle letture uno spettacolo. E quello di ieri sera all'Anfiteatro delle Cascine, a Firenze, è iniziato con una richiesta di sensibilizzazione nei confronti delle donne afghane, sia di quelle che non sono riuscite a fuggire che di quelle che arriveranno presto a Firenze e a parlare è stata proprio la presidente di Cospe per la campagna emergenza Afghanistan perché simbolicamente le ragazze del titolo appoggiano la causa delle sorelle afghane. Aggiungiamo inoltre che le protagoniste divideranno il loro cachet con la ong di cui sopra. Che facciamo? si comincia. Sì ma si legge tutto questa volta! certo! Si fa la versione integrale di 5 ore! e così le voci hanno dato il via alle letture, accompagnate dalla musica leggera della chitarra. Daniela Morozzi e Anna Meacci interpreti del testo di Vasco Pratolini e Chiara Riondino a inframezzare le letture con canzoni di repertorio popolare (come la Fiera dell'est che è diventata la Canzone di San Frediano e che ha provocato l'ilarità del pubblico).
PISTOIA. È capitato anche a tutti quelli che in un modo o in un altro hanno fatto parte di Effetto 48 di sentire, a rassegna conclusa, un senso di meravigliosa nostalgia, quella che in Brasile chiamano, a Carnevale terminato, saudade? A noi, sì, e parecchio, tanto che non ancora smaltita la piacevole fatica di rincorrere eventi, allestire interviste, aspettando che i cani smettessero di abbaiare (quelli di Panicale, a parte Pirca – o con la k? -, son tutti molesti), ci siamo messi a pensare chi gradiremmo vedere esibirsi il prossimo anno, per la nuova edizione. Ma non è solo la nostra psicolabilità emotiva a glorificare Effetto 48, visto e considerato che per tre giorni ci siamo sentiti come se si fosse altrove e in un tempo lontano, dove la gente vale per il nome che porta, senza aver bisogno di sapere da dove venga, dove sia diretto e cosa faccia nella vita. L’evento, ideato da Ponte di Archimede Produzioni e che non ha potuto fare a meno del sostegno del Comune di Panicale, delle idee collaborative di Stazione Utopia e Arca Pan, di partner come la Compagnia del Sole e del contributo di I raccolti di Tobia e Bioteca, è stato un concentrato di circa quaranta spettacoli, tra rappresentazioni, balletti, concerti, studi antropologici, decantazione di versi, incontri e un’umanità trasversale di cui tutti, almeno quelli che hanno popolato il borgo in quei tre giorni, ne sentivano un gran bisogno,
PANICALE (PG). L’immagine che abbiamo deciso di mettere a rappresentazione di quello che è stato e, ci auguriamo sia, in futuro, Effetto48, offertaci da Imma Di Lillo, fotografa ufficiale della manifestazione, è, probabilmente, l’anima dell’evento, la sua giustificazione, il senso e la necessità di averlo ideato e l’indispensabile presunzione che continui a essere, fino alla ragionevole strafottenza, al punto di diventare un esempio, un’idea, una tecnica di appropriazione (in)debita di spazi che si propaga ovunque l’arte e i suoi discepoli decidano di dare rinascimento a borghi incantati come Panicale o ad altri, anche meno suggestivi, addirittura depressi o ad alta densità criminale, esclusi dalla mappa dei luoghi ufficialmente deputati a dare sollievo artistico, morale, umorale, esistenziale. Alla seconda edizione di Effetto 48, nata su uno sguardo indiscreto del versante umbro che sfida a duello il lago Trasimeno (il 23 luglio) e messasi in standby (il 25 luglio) fino alle prossime inarrestabili sollecitazioni, hanno partecipato un esercito articolato di professionisti della danza, del teatro, della musica, della poesia, delle installazioni, giovani e decani addetti alle luci, ai suoni, uno staff docilmente agguerrito alle riprese, che si sono ritrovati, tutti, in ordine sparso, a pranzo e a cena su quella lunghissima tavolata allestita e apparecchiata alle pendici delle mura di cinta del borgo medievale dove un’efficientissima équipe culinaria ha offerto loro appetitosi piatti vegetariani.
PISTOIA. La semplicità, a volte quasi banale, dei testi di Max Pezzali (nella foto di Gabriele Acerboni), divisi e condivisi per oltre dieci anni con il compagno di classe Mauro Repetto (compagno trovato solo per scarso rendimento liceale; lo ha conosciuto perché ripetente), che dal 1991 al 2004 (poi, Mauro, ha scelto il grande schermo) sono stati gli 883, è l’ennesima dimostrazione di come la sinistra non abbia saputo intercettare, perché tronfia e gongolante delle sue presunte superiorità intellettuali, in quegl’irripetibili anni ’90, quella massa informe di giovani che avevano solo e soltanto voglia di divertirsi, facendo leva sulla quotidianità, che sovente è stata poco più o poco meno decifrabile di una tabellina del due. La risposta, una delle tante che la storia ha già fornito, è arrivata ieri sera, in piazza del Duomo, a Pistoia, per il prologo di questo 42esimo Pistoia Blues, che ha aperto sipario, battenti e palcoscenico laterale, con il concerto di Max Pezzali. Spendiamo due righe, ma solo due righe, per zittire tutti quelli che sono già lì, pronti, a fare sofismi sulla purezza del Blues (quando la piazza gongolava di mostri sacri, loro facevano ulteriori distinguo anagrafici, latitando regolarmente) e il carattere incestuoso di alcuni visitatori; ne abbiamo già parlato chissà quante volte in una miriade di altre occasioni, ora anche basta.
di Letizia Lupino
PISTOIA. Sono emozionata. Molto tempo, d'altronde, è passato dall'ultimo spettacolo teatrale. Apro dunque la mia personale stagione al Funaro di Pistoia con Dal profondo del mio cuore, l’amore sbagliato che Oscar Wilde nutre e consuma con Lord Alfred Douglas (De Profundis) e che Dimitri Milopulos, il regista, affida ad Annibale Pavone. I miei occhi hanno fame, il corpo sussulta. Mi accomodo in sala, accompagnata da un crepuscolo che inconsapevolmente già mi prepara a quello che sarà. Mi siedo, mi sento gioiosamente agitata, mi guardo intorno assetata e lo vedo. Annibale/Oscar, anche lui seduto, di spalle, all'angolo parallelo al mio, un boxeur silenziosamente in attesa. Le luci si spengono, le sedie chiacchierano il loro ultimo cigolio. Un fascio di luce soffusa si accende, illuminando Annibale Pavone in piedi al centro del palco. Ci guarda, lo guardo. Un inaspettato indugio che mi inchioda a lui e una voce calda si leva, ci avvolge fin da subito, prendendoci quasi la mano e accompagnandoci in una visione. Una visione cadenzata dall'uso sapiente di luci e musica, da un clangore metallico che serra, che ci fa vibrare. Alchimia perfetta.
di Alessandra Poggi
CARRARA. L’arte contro il degrado. Parliamo dell’iniziativa Adotta un vicolo, progetto collettivo di riqualificazione promosso dal Circolo dei Baccanali nel cuore di Carrara, la piccola cittadina ai piedi delle alpi Apuane famosa in tutto il mondo per i suoi splendidi marmi. Il progetto partito a ottobre 2018 ha trasformato il vicolo San Piero (dove ha sede il circolo), immediatamente fuori dalle antiche mura della città, in una galleria di street art all’aperto. Oltre trenta gli artisti che hanno firmato a titolo gratuito un murales. Perché Carrara è sì famosa per i suoi marmi, ma lo è anche per la sua accademia delle Belle arti, che ospita studenti provenienti da tutto il mondo. Adotta un vicolo è un progetto indipendente realizzato dai soci del circolo dei Baccanali in collaborazione con i residenti, e a distanza di tre anni, ha dimostrato come l’arte sia la giusta medicina contro degrado e incuria, quelli che, ahimè, talvolta caratterizzano anche una città come Carrara.
PANICALE (PG). C’è poca gente, a Panicale. Borgo incantevole e incantato alla periferia di Perugia, che da uno dei suoi varchi guarda il lago Trasimeno come se fosse suo. In realtà lo è. Lo hanno capito perfettamente i molti statunitensi che lì, in quella stupefacente location (si può scrivere, parliamo di yankee), si sono assicurati un posto in paradiso, nel paradiso che esiste e per il quale non occorre essere stati buoni buoni, per meritarlo. C’è poca gente a Panicale, nonostante la giornata ultra primaverile battezzata dalla domenica delle Palme e dall’ora legale, perché la pandemia è ancora tra noi e i vaccini, invece, che ci dovrebbero essere, sembrano ansiosi di aspettare nuove varianti e ondate, per farsi inoculare. Ma quelli di Ponte di Archimede Produzioni e Stazione Utopia non si sono lasciati scoraggiare e seppur vigili sui probabili contagi e allertati da ogni misura cautelare, per l’ottantottesimo giorno dell’anno, il Piano Day, il Natale dei pianisti (ottantotto sono i tasti di un pianoforte), si sono fatti trovare pronti e sono riusciti ad allestire una delle celebrazioni rivolte al futuro più belle che si potessero pensare, anche al di là del Covid.
PISTOIA. Ci voleva poco a farlo incazzare, anche se si calmava con la stessa velocità con la quale perdeva la pazienza; bastava una battuta, anche già sentita e gli tornava il sorriso. Perché Enzo Marchettoni esigeva che i suoi clienti si comportassero a modo come si comportava lui. Da quelli anziani, con i quali aveva diviso e condiviso la giovinezza, a quelli delle generazioni successive. E quando qualcuno sgarrava, digrignava i denti e bofonchiava sottovoce, augurandosi che la volta successiva, per quegli ospiti sgraditi, non ci fosse posto. Nel suo locale non si urlava, non si usava un linguaggio scurrile e non si infastidivano gli altri clienti, anche se poi, quasi sempre, a pranzo e a cena, c’era la solita gente e tutti sapevano tutto degli altri, virtù e vizi. Sulle tavole apparecchiate della sua trattoria, quella di San Vitale, o degli Anarchici, scomodando una leggenda cittadina, insieme alla tovaglia, alle posate e ai bicchieri, il cestino del pane, con tanti sacchetti di grissini quanto il numero dei commensali, arrivava sempre dopo. Prima, occorreva ordinare, aprendo i menù conservati in vecchie cartelle in vilpelle amaranto e verde scuso e scritti, giorno su giorno, con la macchina da scrivere, corredati anche da qualche refuso, corretto con il bianchetto o con una X ribattuta sopra, se visto in tempo.
PISTOIA. Dopo aver fatto il giro dell’Europa, dell’Asia, degli Stati Uniti e vantare il primato di essere stato il primo ad illustrare i suoi scatti all’Ermitage di San Pietroburgo, anche Pistoia, sua città natale, si decide a immortalare le fotografie di uno dei suoi più importanti cittadini a cavallo degli ultimi due secoli: Aurelio Amendola. Che non ha bisogno di alcuna presentazione (figuriamoci la nostra!), ma di cui siamo piacevolmente costretti a parlarne perché da oggi, lunedì 8 febbraio e fino al prossimo santo patrono, San Jacopo (25 luglio), alcuni dei suoi ritratti sono custoditi nell’Antico Palazzo dei Vescovi, in piazza Duomo e a Palazzo Buontalenti, in via de’ Rossi, due siti preziosi della città divisi tra loro da poche centinaia di metri e che appartengono, entrambi e con lo stesso fascino artistico, alla storia della città. Due momenti specifici e al pari determinanti di questo straordinario artigiano dell’immagine che non ancora trentenne, dopo aver avviato la propria bottega fotografica, si imbatte nello storico d’arte Gian Lorenzo Mellini.
di Marcello Bugiani
DAVVERO INASPETTATA quanto ancora inspiegabilmente assurda la morte di Kim Ki-duk, arrivata oggi ad assestare un ulteriore duro colpo ai nostri fragili equilibri pandemici. Nei prossimi giorni forse sapremo qualcosa di più intorno alla vicenda, per adesso pochi dettagli. Sappiamo che Kim Ki-duk si trovava in Lettonia per questioni personali e lì abbia trovato la morte per complicazioni legate al Covid-19, non molto altro. Comunque sia andata, perdiamo davvero un grandissimo Regista; le sue ultime prove cinematografiche non erano state memorabili, per sincerità, ma per molti anni, in quello che ritengo sia stato il periodo migliore della sua produzione artistica, ovvero la prima decade del nuovo millennio, Kim Ki-duk ha impreziosito di alcuni capolavori i Festival cinematografici europei più importanti, quali Venezia e Berlino. Fin dal primo film che ebbi modo di vedere (L'Isola al Festival di Venezia nel 2000) colpiva l'intreccio profondo tra la violenza dei personaggi e il lirismo delle immagini, la provocazione insolente di questo alternarsi continuo di delicatezza e sangue, di prati in fiore e coltelli macchiati di rosso. Riconoscibile, sempre, è rimasto il timbro coreano del suo cinema.
di Olimpia Capitano
LIVORNO. Tra i film presentati in queste giornate di FIPILI Horror Festival c’è Samp. Un film nato dal connubio umano e artistico tra Antonio Rezza e Flavia Mastrella, presentato nell’anno corrente al Festival del Cinema di Venezia durante la Giornata degli Autori, dopo 19 anni di riprese, montaggio, momenti di abbandono e rielaborazione, discussione e riflessione sull’opera. Questo lungo processo è indicativo non tanto per la prassi in sé, quanto in relazione alla crucialità di quanto rappresentato: dopo quasi venti anni le tematiche, le visioni maniacali e i linguaggi che attraversano il film impattano con violenza sulla realtà dell’oggi, proprio perché sembrano emanare direttamente da essa. La mania è senz’altro e anzitutto una linea guida che orienta la scelta dell’esasperazione sostanziale e formale della pantomima, portando a superare una prima impressione di grottesco, la cui accezione manieristica non si sposa con la manifesta esigenza di mostrare al parossismo pulsioni umane rifiutate e nascoste sotto pesanti strati di forma e perbenismo.
di Olimpia Capitano
LIVORNO. Ieri sera, 9 ottobre, a Livorno è iniziato il FIPILI Horror Festival, alla sua decima edizione, rassegna che anche quest’anno presenta in cartellone offerte culturali variegate, tra cinema, letteratura, teatro e performances sperimentali, tematicamente costruite attorno al tema della paura. Occorre infatti sottolineare quest’ultimo aspetto: la paura è il fulcro di tutto ciò che abita il festival ma, al contempo, la pluralità semantica e interpretativa del concetto e del suo significato permettono di creare situazioni inattese, sfumate, affini tanto alla dimensione soggettiva e non banale della paura stessa, quanto al suo variare per forme e contenuti anche nell’immaginario collettivo. Segnali d’allarme. La Mia Battaglia, di Elio Germano (tratto dallo spettacolo teatrale La mia battaglia scritto da Elio Germano e Chiara Lagani; diretto e interpretato da Elio Germano; regia, Elio Germano e Omar Rashid; aiuto regia, Rachele Minelli; luci, Alessandro Barbieri; fonico, Gianluca Meda; fotografia, Luigi Ruggiero e Filippo Pagotto; post-produzione, Sasan Bahadorinejad; produzione, Pierfrancesco Pisani, Gold e Infinito), presentato nella prima giornata, è stato emblematico in questo senso, elegantemente figlio di un tempo che è quello contemporaneo, ma che non si separa astrattamente da eredità e genealogie storiche. La riflessione si muove su molti piani, di carattere storico, politico, strategico-comunicativo da un lato; materiale, mediatico e meta-teatrale dall’altro.
di Olimpia Capitano
PRATO. In occasione del Contemporanea Festival a Prato, Alessandro Sciarroni, ieri, 27 settembre, ha portato in scena al Teatro Fabbricone, CHROMA_don’t be frightened of turning the page (invenzione, performance, Alessandro Sciarroni; luce, Rocco Giansante; drammaturgia, Alessandro Sciarroni e Su-Feh Lee; musica originale, Paolo Persia; styling, Ettore Lombardi; promozione, consiglio, sviluppo, Lisa Gilardino; amministrazione, produzione esecutiva, Chiara Fava; direzione tecnica, Valeria Foti; tecnico di tournée, Cosimo Maggini; ricerca, comunicazione, Damien Modolo; produzione, corpoceleste_C.C.00#. MARCHE TEATRO Teatro di rilevante interesse culturale; coproduzione, CENTQUATRE-Paris, CCN2 - Centre chorégraphique national de Grenoble, Les Halles de Schaerbeek), concludendo così la rassegna, dopo giornate di spettacoli che hanno coinvolto altri noti artisti, tra i quali Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Kinkaleri e Luna Cenere. La pratica performativa che sta dietro al lavoro di restituzione è ancora profondamente germinale ma, nonostante ciò, estremamente curata e ben costruita, dando già in premessa il senso della meticolosità e della ricerca dell’autore sul dettaglio. L’idea strutturante la pièce è quella di un viaggio psicofisico in cui il corpo ti porta, grazie allo strumento della rotazione e alla forza di una presa di posizione di difficile conduzione tecnica: la resistenza del danzatore che sceglie di lavorare sulla pratica e il concetto del turning è un atto totale, un porsi di fronte all’assenza del limite, partendo da una scelta di indagine e portandola a compimento, senza interruzioni, senza indecisioni e nonostante l’evidente complessità fisica della messa in pratica.
di Olimpia Capitano
FIRENZE. Ieri sera, 25 settembre, a Firenze presso il PARC-performing arts reasearch center e in occasione del Festival Fabbrica Europa, il coreografo e danzatore Andrea Zardi ha portato in scena una sua recente ideazione: GRNDR _Date no one (ideazione, coreografia esecuzione, Andrea Zardi; suono, Federico Dal Pozzo; grafiche, Andrea Maurizio Berardi; costume, Federico Pozzzato; promozione, Valentina Barone; coproduzione, Za DanceWorks e Compagnia ArtGarage e con il sostegno di PARC Performing Arts Research Centre, Casa Luft/Zeogrammi). Entrare nelle suggestive stanze del centro è di per sé un’emozione, un catapultarsi in un flusso denso di stimoli, tanto più in occasione di Festival quali quello attualmente in corso che, di anno in anno e pure nel corso di questo più delicato periodo, riesce ogni volta a ospitare occasioni di scambio e presentazione artistica mai scontate e piene di senso. Un senso anche fortemente politico, rimarcando la dimensione interculturale dello spazio artistico e toccando sovente temi cardinali, che legano corpo e società in un intreccio stretto, pieno di nodi problematici talmente assorbiti nel quotidiano da essere continuamente banalizzati e dimenticati ed è bene che qualcuno si assuma il compito di ricordarlo. Anche per quanto concerne la pièce di Zardi, suggestioni e riflessioni si muovono sulle stesse linee, tra spazio e corpo, tra dentro e fuori, tra individuo e società. È una performance che, con insolita eleganza e originalità tematica e stilistica, si propone di indagare il fenomeno delle dating app per incontri e il rapporto controverso tra dimensione corporea e digitale.
di Olimpia Capitano
LIVORNO. Si è concluso, ieri, 23 agosto, il primo lungo fine settimana della manifestazione livornese Effetto Venezia e dintorni, che proseguirà con un calendario altrettanto ricco e variegato tra il 27 e il 29 agosto. Dopo aver rivolto alcune parole e il pieno sostegno a una iniziativa che ha saputo riportare l’arte tra le strade, colorando le vie dei quartieri del centro cittadino con brulicante vivacità e in taluni casi con ottima offerta artistica, ripopolando luoghi importanti e quotidiani con i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, vorrei adesso volgere l’attenzione verso alcune delle ultime scelte espressive che sono state presentate. In particolar modo ho trovato di estremo interesse quanto proposto nel quadro del Deep Festival, specifica rassegna con la direzione artistica di Alessandro Brucioni, che ha preso atto all’interno del calendario di questa trentacinquesima edizione di Effetto Venezia. Gravitando tra gli spazi del Museo della Città di Livorno, del polo culturale dei Bottini dell’olio e di Piazza del Luogo Pio, ho avuto occasione di vivere alcuni ambienti abitati nella prassi in tutta altra maniera (emerge il passato ricordo di Piazza del luogo Pio come parcheggio e fortunatamente ormai non più tale), osservando alcuni lavori di rilievo, tecnico ma, soprattutto emozionale. Durante entrambe le serate ho avuto modo di muovermi tra corpi e voci, tra comunicazione verbale e non verbale, tra molti registri.
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di Olimpia Capitano
LIVORNO. Anche quest’anno, a Livorno, la manifestazione culturale Effetto Venezia c’è e giunge alla sua trentacinquesima (e particolare) edizione, organizzata in due lunghi fine settimana dal 21 al 23 e dal 28 al 30 agosto e strutturata attraverso più luoghi della città, dal quartiere storico della Venezia, a Piazza Garibaldi, Piazza della Repubblica e Piazza XX settembre. La scelta che fa da cornice a Effetto Venezia e dintorni acquista oggi un senso ulteriore, permettendo di abitare diversi spazi della nostra realtà urbana tra suoni, voci, colori ed echi di una plurale e multiforme espressione artistica che ci è mancata e si riaffaccia, viva, nelle nostre quotidianità. E senz’altro, se al fondo della creazione artistica poniamo l’esigenza dell’espressione e l’aver poi di fatto qualcosa da dire, è probabile che il peso di un inespresso condiviso sia a oggi cresciuto. Al netto di ciò e del momento delicato, quando non catastrofico, che stanno attraversando i lavoratori dello spettacolo (e che si prospetta lungo e difficile), la scelta di portare avanti una manifestazione che mobilita sinergie tra arte e territorio, che investe nel sostegno del settore della cultura, con tutte le dovute norme di sicurezza, è un atto politico importante.
CECINA (LI). Da Saigon, al di là della considerevole distanza (9.680 chilometri), siamo convinti di poter dubitare, quasi con assoluta certezza, che in questi undici anni, da quando a Cecina mare, lungo il Viale della Vittoria, ha aperto L’Imperfetto, un cambogiano sia mai andato a trascorrerci qualche ora. Se fosse nelle nostre possibilità, comunque (e visto il nome della nostra testata, in Cambogia, qualcuno, potrebbe anche esserci, che ci segue), glielo suggeriremmo volentieri. Anche islandesi e canadesi, comunque, sempre stando alle indicazioni chilometriche affisse all’ingresso, non crediamo siano mai abbondati, nel locale. Sì, perché è un posto obliquo, più che Imperfetto, dove oltre che mangiare (benissimo) e bere, si può aspettare la notte senza patemi d’animo, senza ansie da prestazione e consapevoli e inermi al cospetto dell’inderogabile principio che tutto passi, si può anche prendere la modesta rivincita e stabilire che, fino a quando ci siamo, cerchiamo di vedercene di bene. Non conosciamo così bene Luigi, Michele ed Emanuela Guardascione, i fratelli napoletani che a un certo momento della loro vita, trascorsa a spaccarsi le ossa per gli altri, hanno deciso di lavorare per loro, ma siamo pronti a scommettere che la pensino all’incirca così.
PISTOIA. Hanno aspettato il giorno del suo compleanno, il 2 luglio e invece di celebrare un mesto e irragionevole funerale un paio di mesi prima, hanno preferito farle la festa. È stato bello esserci, nel giardino dietro Villa Rospigliosi, ieri, nel pomeriggio, per ricordare con tanta emozione e commozione, ma senza lacrime, anzi, con il sorriso stampato sulle labbra e con l’impegno, tacito e profuso, di farla continuare a vivere davvero, la vita teatrale, fusa e confusa con quella umana, di Cristina Pezzoli, la regista morta lo scorso 22 maggio. A organizzare tutto, Gigi Croce, il primo marito, coadiuvato da alcuni amici, suoi e di Cristina - in particolare Saverio Cona e il suo staff -, che sono riusciti con un semplice passaparola a rinviare, rimandare e trasformare l’inevitabile e grigio ritrovo funebre in una imprevedibile e coloratissima festa. Ognuno con i suoi propri indelebili ricordi, ognuno con i propri indimenticabili e leggendari aneddoti, ognuno con ancora stampate nel cuore le fantastiche litigate al ritmo di verità, deambulazioni, prove interminabili, improvvisazioni. Quando la calura ha iniziato a dare un po’ di tregua, gli invitati, gli autoinvitati di Villa Rospigliosi, quelli che per nessuna ragione al mondo avrebbero voluto non esserci, i vecchi compagni di avventure teatrali iniziate alla Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi e proseguite,
PRATO. Tre mondi diversi, lontani, nel tempo, nello spazio e nelle culture, ma tutti e tre ospitati, con cura, all’interno di una stessa struttura, il Museo d’Arte contemporanea Pecci, a Prato. Succederà per tutta l'estate e nonostante in molti, indistintamente, si scalpiti per il mare, l’aria, la libertà, indossate ancora quelle maledette/benedette mascherine e questo trino in uno, cercate di non perdervelo. Con onestà, la cosa che più ci attirava era proprio quella che, a conti fatti, è risultata meno importante. Ci riferiamo ai Nudi di Ren Hang, che seguendo una logica toponomastica della visita, è quella nella quale vi imbatterete per ultimo. Sì, perché salita la rampa di scale che vi conduce al primo piano, quello espositivo, sarà naturale svoltare a destra e iniziare questo triplice percorso partendo da The missing planet, una raccolta sovietica e post sovietica di cimeli, propaganda, installazioni, video installazioni, fotografie decadenti e rinascimentali, sogni sfumati, disillusi, ma anche nostalgici, della Russia leninista fino a Putin, passando per quella Rivoluzione implosa e teleguidata dall’Occidente statunitense che ha consentito a molti intellettuali inesplosi di poter raccontare al resto del mondo escluso dal patto di Varsavia quello che è successo al di là della coltre di silenzio e regime.
di Francesca Infante
È GIUSTO aver lavorato senza ricevere riconoscimenti? È giusto essere considerati disoccupati dallo Stato, quando tu non ti senti affatto disoccupato? È giusto essere invisibile per ogni Istituzione? È un giusto che i giovani siano appesi a un filo, che rischia di rompersi e rompere ogni loro sogno? Un filo che se prima era sottile, adesso è quasi trasparente. I dimenticati, ho deciso di dare questo nome a chi, come me, ha lavorato come uno schiavo, ha fatto salti mortali per formarsi e sopravvivere, e che adesso è disoccupato, quasi invisibile, come se, visto che il mondo si è fermato, abbia smesso di muoversi anche lui. Ma quanti tipi di dimenticati ci sono in questa situazione? Forse troppi. E visto che nessuno ci chiede niente, perché per molti siamo niente, abbiamo decido di chiedercelo da soli, perché dopo anni di studi, fatica e tanta voglia di fare (forse anche meglio di chi è a fare in questo momento), siamo stati ridotti a quelli che non possono chiedere nemmeno 600 euro, in questa situazione d'emergenza, perché il nostro capitale lavorativo non esiste. E questo ci fa sentire come se non esistesse nemmeno il nostro capitale umano. Siamo invisibili per molti, siamo quelli che possono essere sacrificati, anche se facciamo più fatica degli altri a farci spazio in questo mondo. Il mondo dell'Arte. Ce lo siamo scelti, sapendo che niente sarebbe stato semplice.
di Luna Badawi
ALICIA TARDE Nash, nel film A Beautiful Mind dice: ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile. Sì, è vero. Tutti abbiamo un bisogno irrefrenabile di credere che qualcosa di straordinario sia possibile. Ho pensato a questa frase quando mi sono imbattuta casualmente nell’iniziativa di Tik Tok, riguardante l’hashtag #DenimDay. The Denim Day è un trend che sta spopolando sul crescente social network Tik Tok. Dove adolescenti, ragazze e ragazzi, raccontano degli abusi sessuali subiti da amici, parenti e conoscenti. Alcuni dicono di non essere stati creduti, alcune mostrano le gonne e i pantaloni che indossavano quel giorno, altri toccano il proprio corpo con vernice colorata, proprio dove il molestatore li ha toccati in passato. Molti sorridono, piangono, ballano e si sentono liberati da un peso immane, nel raccontare e condividere l’accaduto. Il tema della violenza sessuale è un tema molto attuale e purtroppo coinvolge il mondo intero. Il Women peace and security index, infatti, affermava che nel 2019, 15 milioni di ragazze tra i 15 e i 19 anni sono state vittime di abusi sessuali e spesso il violatore era un partner o un ex partner. L’iniziativa del Denim Day nasce da una sentenza, avvenuta in Italia, nel 1998, dove la Corte di Cassazione annullava la condanna per stupro di un istruttore di guida nei confronti di una sua allieva, per presunto consenso da parte della ragazza stuprata. La tesi era che la ragazza indossava dei jeans denim, appunto, molto stretti per cui sarebbe stato improbabile riuscire a spogliarla senza la sua approvazione.
di Federico Martini
Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono. Fu con queste parole che Ezio Bosso, musicista, pianista e direttore d’orchestra, decise di esordire al festival di Sanremo all’edizione del 2016. Nato a Torino il 13 settembre 1971, Ezio si innamorò della musica all’età di quattro anni, l’unica disciplina che riusciva a coinvolgerlo a pieno. Per seguire la sua passione, a 16 anni sceglie di andare via di casa e debutta come solista in Francia, ove incontra Ludwig Streicher, contrabbassista dei Wiener Philharmonic. Il musicista austriaco, avendone notato l’innato talento, lo indirizza all'Accademia di Vienna, dove studia contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra. Appena uscito dall’Accademia, da contrabassista, suona in importanti formazioni, tra cui la Chamber Orchestra of Europe di Claudio Abbado. È proprio con questo luminare della musica italiana e internazionale che nasce una grande amicizia. È dopo la sua morte che, nel 2017, Ezio diventerà testimonial dell’eredità della sua ultima creatura, l’Associazione Mozart14, nata a Bologna per portare la musica nelle carceri e negli ospedali.
di Luna Badawi
SILVIA ROMANO, la ragazza italiana rapita in un villaggio del Kenya quasi 18 mesi fa e liberata in una zona limitrofa di Mogadiscio, la capitale della Somalia, è rientrata ieri in Italia. La liberazione di Silvia Romano doveva essere un evento di infinita gioia. E Invece, c’è chi non riesce a pensarla così. In poche ore si è scatenato il web con condivisioni social e commetti al limite dell’impensabile:
Si è pure convertita all’islam?
Perché non ha portato pure il marito?
Ma è incinta?
La vedo in forma per essere stata stuprata per 18 mesi
Dopo diversi accoppiamenti si è pure convertita all’Islam? Non li ha visti in faccia, ma riconoscerebbe gli uccelli
di Giorgio Trinci
PISTOIA. Da qualche giorno il mio babbo e la mia mamma hanno iniziato a portarmi fuori. Malgrado i cappellini un po’ ridicoli che mi mettono in testa, è bello sentire l’aria fresca sulla pelle, il caldo del sole, il rumore delle persone, come bello è ammirare il mondo dal basso all’alto mentre c’è chi ti porta in giro. Il cielo è azzurro e grande, anche quando ci sono le nuvole. Andarsene per strada e prendersi pure i primi complimenti, specie quelli delle donne, è un vero spasso ma - come ho presto imparato - ogni cosa ha uno scotto da pagare. Così, passeggiando, io e il mio babbo ci siamo imbattuti nello Scardigli che ha proposto queste righe. E siccome il babbo è un po’ pigro, eccomi qui. Hic! Ogni tanto singhiozzo: dice che sia segno di crescita. In altra sede racconterò come ho fatto a imparare a scrivere e usare il pc alla mia età. Per adesso, da bravo bambino, mi limiterò alle poche riflessioni richieste. Che dire, termini di paragone con il mondo com’era prima non ne ho. Sono nato la sera dell’11 marzo, proprio mentre in televisione Conte chiudeva tutto. La quarantena, dice. Del prima ho soltanto ricordi confusi di voci, suoni, alternanze di buio e luce e un senso di benessere assoluto.
Leggi tutto: Stanno tutti a parlare di questo baco che c'è in giro
di Monica Arcangeletti
ROCCA DI PAPA (ROMA). Descrivere stati d’animo in un periodo unico nel suo genere senza cadere nel generico e nell'ovvio è praticamente impossibile. Lavoretti di casa, riflessioni, noia, malumori… Poi, però, mi rendo conto di quanto sia stato terapeutico, a livello individuale e nel contesto familiare. È un'ulteriore opportunità per conoscere noi stessi e gli altri in momenti estremi, perché così sono questi giorni di paura e insicurezza. È retorico dire che viviamo di fretta e non abbiamo tempo di approfondire. Adesso non ci sono scuse e possiamo farlo, dobbiamo farlo. La sorpresa più grande è stata la reazione dei miei figli; loro non hanno mai superato la soglia della tolleranza, non hanno mai chiesto ciò che non era permesso, non hanno mai osato, pur avendo di fatto rinunciato alla loro vita: Paolo, ventiquattro anni, tornato da Milano dove lavora, un mese in solitudine nel suo appartamentino e poi il bisogno di casa e di famiglia. Bisogno del FARO. Il sentirgli dire che non si sarebbe visto in altri luoghi se non a casa con la sua famiglia mi rende fiera; Riccardo, quattordici anni, una vita strapiena di scuola, sport, compagni e ragazze, ma lui è l’ottimismo in persona, quello che nei momenti tragici ti dice andrà bene vedrai. Quattordici anni di pura filosofia e buon senso. Entrambi mai una parola fuori posto, mai.
di Claudia Pelosin
MILANO. Radio accesa H24 in cucina, news e classica; passi dal salotto dove c’è la tele accesa e non perdi niente; il corridoio non è lunghissimo: c’è un uomo che conosci bene, parla al telefono a viva voce passeggiando avanti e indietro. Ognuno ha i suoi percorsi e le sue celle, eufonia, sovrapposizioni di litanie, che si ripetono, sussurrate, luci basse che si risparmia, frigo pieno, dispensa anche, gatto stranito, sempre affamato, ansia che contagia.
Ma quanta polizia c’è in giro oggi?
Hai firmato per il commissariamento della Regione?
no ho firmato la petizione però, più tamponi per tutti!
Che nessuno mai, come ora, ha desiderato essere tamponato, industrializzato, occupato, contattato, spronato, informato, motivato, fortunato, guardato, leccato, palpato, rasato, pagato, liberato, consolato, invitato, baciato, carezzato, coccolato, cioccolato, sformato, brasato rosolato, bicarbonato. E Pomellato!
di Massimo Talone
AGLIANA (PT). Quando mi sono auto-domiciliato all'inizio di marzo lo ricordo come un momento d'impasto emotivo d'ogni genere. Ma soprattutto per giorni e giorni ha vinto in me la sensazione di stupore: ero allibito, incredulo di ciò che sentivo dire, di ciò che leggevo, di ciò che facevo, forse per la prima volta ho visto chiaro il concetto di globale e locale - Tutti contro tutti e diffidenti di tutti e sorpresi di tutti - Mi sono limitato a leggere, rimanere in silenzio, nascosto, più che auto-recluso, per non espormi all’isteria digitale delle prime settimane. Mi sono limitato a scambiare qualche battuta con le persone care. Poi ho cominciato a credere di non essere di fronte a sequenze di un cinema muto, bensì silenzioso. Uno scenario realista, preso dai giorni nostri, senza audio, suoni, senza parole, senza i rumorosi itinerari giornalieri mossi dalle frenesie e le arroganze delle auto in doppia fila, sui parcheggi dei disabili, dei clacson smisurati, dell'incuria, delle buche a centro strada, e via e via, nella ripetitività aggressiva del quotidiano. Una narrazione decisamente più profonda e spietata di qualsiasi modalità narrativa abbia avuto il tempo, la fortuna e la caparbietà di incontrare nei miei anni vissuti. Una realtà che si fa dominante per la sua staticità e gravità, che sorprende tutti perché impone un rigore globale, che ferma tutto e tutti senza repressioni, eserciti o barricate, tac!
di Barbara Perluigi
ROMA. Io scrivo sempre. Scrivo per lavoro: discorsi, documenti, articoli. Mi segno frasi, perfino parole che incontro e che mi colpiscono, mi incuriosiscono. Scrivo quando sono nelle riunioni, appunti mescolati con i miei stati d'animo, che a leggerli si capisce quanto siano state utili o inutili, certe riunioni. Scrivo da sempre: diari di crescita, di viaggi, di nascite, di banalità. Scrivo racconti e favole, che tengo ben custoditi nei cassetti. Quando è iniziata questa quarantena, mi immaginavo a scrivere pagine e pagine di memorie o di ricette, di storie di usi e costumi dal balcone o di riflessioni sull’irrompere nelle case dell’era digitale. Invece niente. Questo silenzio nuovo che riempie le giornate, che non ha nulla a che vedere con la serena quiete dei pomeriggi di vacanza al mare; mi ha zittito. Non scrivo, se non quello che devo per lavoro, e con un’inedita noia. Fatico anche a leggere, io che in genere macino tra i tre e i quattro libri al mese, nei vagoni strapieni della metro di Roma o nelle pause pranzo alla scrivania. Invece in questi giorni pieni di tanto tempo di niente, leggere e scrivere mi risultano una fatica enorme. Molto più delle massacranti sedute di ginnastica cui mi costringo tutti i giorni, contro ogni mia atavica pigrizia.
di Federico Maria Martini
CREMA (CR). Quando madre natura presenta il conto, anche la regione più frenetica d’Italia non può che chinarsi e pagare di conseguenza. Questa volta anche più degli altri. Ho 18 anni e frequento un liceo a Bergamo, una delle città considerate focolaio del virus. Se c’è una cosa che ho imparato nella vita è che le sorprese, positive o negative che siano, non finiscono mai. Ma chi avrebbe potuto pensare di dover affrontare un esame di maturità dalla scrivania di casa indossando un pigiama anziché la solita divisa? Sdrammatizziamo, non ci resta che pensare alle cose meno preoccupanti, ma dobbiamo ricordare che la realtà è ben altra. Vivo a pochi chilometri dalla città di Crema, in provincia di Cremona. Da un paio di mesi il famigerato COVID-19 sta attanagliando il territorio sotto un’oscura e invisibile morsa. Gli organi di stampa comunicano che la figura con la falce ha ormai chiamato a sé circa 11.600 persone in questa zona su un totale di circa 22.170 decessi a livello nazionale. Ma la realtà è completamente diversa. Il fatto realmente inquietante e preoccupante è che, ad oggi, non si conosce ancora il numero reale delle vittime poiché non si è mai svolto, o comunque reso pubblico, un conteggio dei morti in casa o nelle strutture di riposo.
di Marta De Sandre
SAN VITO DI CADORE (BL). La mia generazione non ha avuto prove da affrontare. Ci hanno dato in mano un paese con una costituzione, pagata lacrime e sangue dai nostri nonni e una libertà individuale, figlia del ‘68, della quale dobbiamo ringraziare i nostri genitori. Abbiamo subìto il rinculo, molto ovattato, degli anni di piombo e l’eco, lontano, delle bombe fasciste. Abbiamo subìto il ventennio berlusconiano senza lamentarci più di tanto perché i fondamentali erano acquisiti e inalienabili. Questa è la prima prova che affrontiamo da protagonisti perché siamo noi il fulcro della società, siamo noi la forza lavoro, gli educatori, i politici. Non abbiamo nessuno davanti a farci strada. Questa prova la stiamo fallendo clamorosamente. Il fallimento è nel nostro individualismo: non sappiamo fare gruppo, avere idee costruttive, svincolarci da appartenenze politiche che mai, come ora, non hanno senso alcuno. Siamo un popolo di delatori, di sceriffi da balcone, pronti a denunciare lo sconfinamento del povero pellegrino (parlo da veneta, il nostro raggio di azione esterno sono 200 mt; per chi non è ferratissimo nelle misure piane, Zaia ha specificato 263 passi).
di Saverio Cona
FIRENZE. Mi chiedo quanto sia necessario scrivere adesso di arte, cinema, letteratura o musica; o se invece, a pensarci bene, non ci sia momento migliore di questo, in cui sembra che tutte le più fantasiose distopie letterarie trovino la loro realtà. La pandemia ci ha catapultato in un futuro che continuavamo a sospingere un po’ più in là. Questo mi pare un momento di crisi anche antropologica: ci rivela il lato debole e vulnerabile della formidabile potenza umana. Una nota su Facebook ha annunciato pochi giorni fa che le Trasmissioni sono giunte al termine. Neil Andrew Megson ha lasciato questa dimensione in uno dei momenti più difficili per l’umanità. Nelle sue progressive trasformazioni, la lingua italiana ha lasciato per strada un elemento essenziale che il latino possedeva: il pronome neutro. L’inglese, invece, l’ha mantenuto, rendendo sicuramente più agevole la descrizione di Genesis P-Orridge. La sua parabola artistica nelle molteplici incarnazioni assorbe tutto il marcio dell'ultimo mezzo secolo, ed è questo a renderla nella sua totalità così peculiarmente nomade: il pensiero di John Cage e gli esponenti di Fluxus nelle sue primissime sperimentazioni; tutto ciò che oltrepassa i limiti della decenza di quello che è stato prodotto in musica, performing art, comunicazione nei primi anni ‘70 lo si ritrova nei COUM Transmissions e nei Throbbing Gristle;
di Martina Pia Montano
SALERNO. Fisso, ora dopo ora, una clessidra ferma; la sabbia al suo interno ormai raddensata, raggrumata. Della sabbia sottile e fluente che prima scendeva inarrestabile non vi è più traccia; quelli che vedo, solo grumi, una falla nel sistema che rende lo scorrere irritante ed estenuante. Ripenso alla sabbia bagnata sulla riva, densa, cremosa, cemento dei miei migliori castelli, quelli che non cadono, perché i castelli fatti di sabbia asciutta non reggono lo sfilarsi del secchiello, lo sappiamo tutti. Ripenso ai grumi nella mia clessidra, ai castelli compatti e rivedo lo scorrere delle mie giornate di quarantena. Compatte, raddensate, raggrumate, vedo il tempo scorrere, ma non le giornate. Non ricordo il giorno in cui tutto ciò ha avuto inizio, ma non ho la più pallida idea di come possa già essere il 26 marzo. La reclusione non mi spaventa, non ho mai amato il mondo al di fuori delle mie quattro mura e questa non è altro che, egoisticamente, una giustificazione che non richieda troppa fantasia.
di Ivano Montano
SALERNO. In tutto il mondo è notte polare. Una notte buia, che dura mesi; le nostre vite congelate, cristallizzate. Stalattiti e stalagmiti di progetti futuri che diventano sogni. Chi ha spento la luce? Faccio fatica a pensare che sia stata Madre Natura che, seppur talvolta matrigna, non sarebbe mai capace di creare un killer invisibile, dopo aver dato vita a capolavori da togliere il fiato. Michelangelo Buonarroti non esultò certo con una bestemmia, quando portò a termine La Pietà. Il virus senza pietà sarà roba da laboratorio chimico di qualche base militare. Intanto, anche qui in Terronia, siamo in piena resistenza; sono barricato in casa con la famiglia; la porta di casa è ormai adibita a porta da calcio. Le interminabili sfide a rigori con mio figlio scandiscono il tempo, rallentato come il motore del Paese. In porta entrano i gol, solo loro. Tutti gli altri, amici, parenti, rappresentanti del Folletto e postini, fuori. Nella vita prima della guerra, stavo cominciando ad apprezzare l'utilità del mio acufene, che da due anni mi ha ovattato l'orecchio sinistro: almeno, mi faceva ascoltare solo la metà delle cazzate della gente.
di Andrea Massai
PISTOIA. Ero in Portogallo, per un trekking lungo la costa del Pacifico, a sud di Lisbona, quando un sms inviatomi dalla solita compagnia aerea low-cost mi avvisava che il mio volo di rientro previsto dopo qualche giorno era stato annullato e che mi sollecitava a cercare un modo per come rientrare in Italia. Solo in quel momento ho capito che a casa accadeva qualcosa di veramente grave. Mi sono adoperato subito per cercare un altro volo. La compagnia di cui sopra non offriva niente, se non dopo il 15 aprile; quindi, tramite Lufthansa e a prezzo non certamente low-cost, sono riuscito a rientrare a Firenze, facendo scalo a Francoforte il giorno dopo l’avviso di cancellazione ricevuto. Che incredibile senso di disagio leggere il tabellone delle partenze/voli dell’aeroporto di Lisbona e non trovare nemmeno un volo diretto in Italia! Dentro di me, però, nonostante le notizie che consultavo tramite telefonino, pensavo, speravo, probabilmente, che fosse un'esagerazione tipica della teatralità di noi italiani.
SIAMO COSI’ abituati a vedere una televisione anfetaminica, seppur vuota, che quando abbiamo la fortuna di imbatterci in un programma ricchissimo, ma senza filtri di acido lisergico, stentiamo a capire. Certo, la colpa è di coloro i quali ci hanno pressurizzato fino all’esasperazione con il nulla facendoci credere che fosse quello di cui avevamo bisogno; e nostra, che non abbiamo fatto nulla per invertire la rotta: in alcuni casi, sarebbe bastato spegnere la tivvù. Ma giovedì sera, per fortuna, ci siamo messi sul divano e abbiamo aspettato, con trepidazione, Skianto, un'ode alle donne, alle madri, alle sorelle, alle amiche, alle mogli, alle amanti, trasposizione teatrale al tubo catodico, sulle note di Sanremo 1967, dell’omonimo spettacolo (riproposto, recentemente, e recensito al Niccolini di Firenze) di Filippo Timi, del quale siamo ciechi furiosi esaltatori, spesso perdendo l’obiettività, di cui ci fregiamo. Lo preferiamo a teatro, il joker umbro, naturalmente, dove lo abbiamo visto vestire e smettere mille abiti e centinaia di scarpe, spesso tacco dodici, entrare e uscire da una miriade di personaggi portando, in ognuno e puntualmente, dentro il suo, che combatte, ridendo a crepapelle, ogni battaglia, su più fronti. Anche negli studi televisivi le cose non sono cambiate molto, ma lontano dalle telecamere, casomai drogati da qualche spazio pubblicitario.
di Laura Sestini
CASTRO (CILE). Instabili Vaganti portano in Cile Made in Ilva, invitati alla XVIII edizione del Fitich - Festival Internacional de Teatro Itinerante por Chiloé Profundo. Tre le repliche dello spettacolo nella prima settimana di dicembre, per poi proseguire il percorso artistico con workshop originali, indirizzati a Università e contesti culturali che rimangono ancora rigorosamente chiusi o occupati - viste le proteste di queste ultime settimane nel Paese latinoamericano. L’opportunità di un’intervista ad Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola (cofondatori della Compagnia teatrale italiana Instabili Vaganti) è apparsa unica e irripetibile, mirata a comprendere meglio l’entità delle manifestazioni di massa in Cile - e i loro effetti sulla società - direttamente dai luoghi scossi dalle violenze. Alle loro dichiarazioni, affianchiamo quelle della direttrice del Festival, Gabriela Recabarren Bahamonde, molto impegnata a livello sociale e che non ha mai abbandonato la lotta per un Cile migliore. Ma facciamo un breve inciso per chiarire la situazione nella quale si sono mossi Instabili Vaganti. Cento giorni di proteste: 27 morti, oltre 20.000 arresti, 13.000 feriti, il coprifuoco, la legge anti-barricate e anti-sciopero, 113 casi di tortura, 24 di violenza sessuale contro donne documentati da esperti Onu.
di Francesca Infante
PISTOIA. Quando siete a teatro, o al cinema, durante la visione, provate a guardare le persone che avete attorno. Fra di loro ci sarà sempre almeno uno spettatore che farà quel movimento in avanti: si staccherà dal suo comodo schienale e si protrarrà verso ciò che sta guardando. In quell'istante lui non esiste più, è parte di ciò che vede. Ecco: quella è la potenza con cui l'arte può coinvolgere (e stravolgere). Accoglienza: è quello che senti quando varchi quel cancello. Forse sono le lucette che vanno da un tetto all'altro, sovrastando dolcemente il cortile interno, o quell'aria vintage che ti fa entrare in un'altra epoca dove tutto sembra un po' più sereno, o quelle locandine appese, che ti fanno respirare aria di teatro, e amore per il teatro. O forse è tutto questo. Nel 2003, Antonella Carrara, Lisa Cantini, Mirella Corso e Francesca Giaconi, organizzavano sul territorio di Pistoia laboratori e attività teatrali con l'Associazione Culturale Studio Blu. Nel 2004 avviene un incontro decisivo, quello con il produttore teatrale Andres Neumann. Il gruppo iniziava già ad allargarsi, prendendo una formattazione internazionale. A lui si vanno ad aggiungere Enrique Vargas (regista e antropologo, fondatore del rivoluzionario Teatro de los Sentidos), Juan Carlos Corazza (formatore, maestro di Javier Bardem e di molti attori di fama) e Jean-Guy Lecat (storico scenografo di Peter Brook). Questi maestri del teatro internazionale hanno nel tempo condiviso il progetto e deciso di collaborare attivamente alla creazione di un vero e proprio Centro Culturale con caratteristiche innovative: l'attuale Funaro, che nasce nel 2009.
di Raffaele Ferro
UN ALTRO GIGANTE della musica ci ha lasciato. Ginger Baker? È un caposaldo, cosa c'è da dire? Non si possono fare confronti con nessuno. E questo lo dico senza voler giudicare o pesare avvenimenti e situazioni più o meno spiacevoli, sia nella sua vita in generale, che è una vera avventura, che qui in Italia. Situazioni e fatti che hanno visto Ginger trascorrere in un quasi totale anonimato i giorni in cui io, bambino e poi adolescente, ho avuto l’onore di frequentarlo come discepolo di batteria. È Enrico Cecconi che parla, sempre ospitale e fraterno con noi che di musica ne facciamo e ne respiriamo da sempre. Lui, miracolato dal destino, toccato dalla fortuna di aver avuto proprio lui come maestro, dove nel senso più ampio del termine, maestro significa qualcuno da rispettare o, addirittura, da temere, con riverenza e soggezione. Non c'è bisogno descrivere l'importanza di Ginger Baker nel batterismo e nella storia del Rock. Lui, fondatore dei Cream (in soli due anni, 1966-68, rivoluzionarono il blues e il rockblues) a fianco di Eric Clapton (alla chitarra, ma occorre dirlo?) e Jack Bruce (al basso; qualcuno non lo sa?), dove invece la nostra conviviale, ma rispettosa e anche commossa chiacchierata con Enrico è senz'altro un contributo prezioso alla conoscenza di questo grande musicista. Infiniti articoli e interviste, in questi giorni, ne stanno celebrando il talento, in tutto il mondo. Anche noi, stasera, siamo qui a parlarne, a cena, osservando filmati e interviste, filtrati dall’esperienza diretta, più che dai ricordi, del suo prezioso allievo, ripercorrendo ricordi e aneddoti della sua permanenza in Toscana. Nelle colline di Larciano, dove si era stabilito nei primissimi anni ‘80 e aveva scelto la vita semplice dell'agricoltore, del muratore, ma soprattutto di colui che dopo decenni di fatiche, successi e fama aveva preferito l’anonimato.
PISTOIA. Anni fa, per rovinare una festa, ci saremmo alzati di notte, uscendo di casa anche in pigiama. Ma siamo invecchiati e da un po’ di tempo a questa parte ci accontentiamo di scrivere, per provare a rovinare le feste. E poi, al cospetto di una vera e propria istituzione cinematografica popolare come Carlo (Gregorio) Verdone, ospite onorato - al Cinema Roma d’essai di Pistoia -, gradito e applauditissimo della V edizione di Presente Italiano, i nostri dissensi on line sarebbero stati fraintesi con protagonismo gratuito; per questo, ci siamo limitati a prendere appunti. E a scrivere: che non siamo affatto d’accordo. Vero che il cinema è cambiato, che le sale ormai non traboccano di spettatori, che i giovani, soprattutto loro, i film, li scaricano più o meno legalmente, guardandoseli poi sui telefonini o sulle tivvù domestiche, collegate ai computer, ma la verità vera è che scarseggiano i fuoriclasse e quando ne esce uno, salvo giuramento di allinearsi, prima di morire, le major, lo boicottano. Però, Quentin Tarantino, il prologo della propria antologia, Le Iene, e l’opera prima Pulp Fiction, le ha composte, rispettivamente, a 29 e a 31 anni e Xavier Dolan, collega francocanadese ancor più ispirato dell’americano, il suo capolavoro Mommy, a 24. Senza dimenticare il sudcoreano Kim-Ki-duk, che da Ferro 3, la casa vuota in poi, ha solo e soltanto inanellato capolavori, quelli che dopo averli visti stai male, fisicamente.
PISTOIA. Parrebbe un’offesa se scrivessimo che Giorgio Tirabassi che abbiamo incontrato nel tardo pomeriggio a Pistoia, in via dell’Ospizio, davanti alla libreria Lo Spazio, atteso da colleghi (nostri), curiosi e appassionati a presenziare la V edizione di Presente Italiano, è lo stesso che abbiamo applaudito a teatro, trascorso in ciabatte sul divano della sala le serate in televisione e con il quale, da quarant’anni a questa parte, dividiamo e condividiamo sorrisi al cinema. Lo scriviamo perché siamo convinti che lui non si sognerebbe mai di fraintendere e non traviserebbe il nostro complimento con l’accusa infondata di possedere un debole pallone prossemico. Alla naturale tragicomicità del suo viso, keatoniano seppur provvisto di pizzo, educato all’umorismo inglese da Gigi Proietti e fortificato a trecentosessanta gradi da Dino Risi, Ettore Scola, Sergio Citti, Claudio Caligari, Carlo Mazzacurati, Francesca Archibugi, Ascanio Celestini e altri autori di prestigio, rispondono perfettamente i ruoli e i personaggi che gli sono stati affidati nel tempo, fino alla sua ultima scommessa, la regia, proposta con coscienza e dignità, ma senza fare proclami e soprattutto senza voler accontentare nessuno di quelli che vorrebbero intiepidire l’arte.
LIVORNO. Ha preso qualche chilo e si è tagliato i riccioli che gli coprivano gli occhi. L’aria, ora, è un po’ meno maledetta, rispetto a prima, ma il risultato è lo stesso. Soprattutto a casa sua, a Livorno, tra la sua gente, quella di Shangay (è del Pontino, lui, ma quelli di Shangay gli han dato la cittadinanza onoraria), dove ieri sera, in via Turati, per l’esattezza, in uno dei giardini incastonati tra le abitazioni che risentono di architetture di regine, Bobo Rondelli ha inaugurato la quarta edizione di Scenari di Quartiere, l’iniziativa figlia di Fabrizio Brandi e Marco Leone, organizzata dalla Fondazione Teatro di Goldoni di Livorno e dal Comune stesso, con il contributo dell’Associazione Quartieri Uniti di Livorno. Nove appuntamenti on the road tra le case della città labronica, tra i quartieri di Shangay, Garibaldi, Collinaia, San Jacopo, Antignano, Benci centro, Sorgenti, Ovosodo e Fabbricotti che si chiuderanno con l’esibizione di Giobbe Covatta (La Divina Commediola) il prossimo 22 settembre. Nove appuntamenti (tutti gratuiti, con inizio previsto alle 19, così dopo fate quel che volete) di arte per strada, tra i quali vi raccomandiamo, sentitamente, quello in programma giovedì prossimo, 12 settembre, in via Fortunato Garzelli, in Collinaia, di e con Oscar De Summa, meraviglioso monologhista compulsivo, Diario di provincia.
di Raffaele Marseglia
FIGLINE VALDARNO (FI). Metti un giorno al Palagio per una lunga attesa per il Wine Party che organizza ogni anno un famoso personaggio della zona di Figline Valdarno, contribuendo a farla rivalutare turisticamente e con prodotti agricoli di ottima qualità. Togliamo questo mistero e diciamo subito che il personaggio in questione è Gordon Matthew Thomas Sumner, adorabilmente conosciuto con lo pseudonimo di Sting, icona della musica nel Mondo, artista unico, un bassita/cantante unico, compositore e autore di successi cantati in tutto il Mondo e in varie lingue. Il suo dizionario musicale è sempre stato molto marchiato, perché ha lasciato il segno indelebile del suo marchio di fabbrica. Dicevamo di un pomeriggio pieno di attesa, giornata caldissima che non ha scoraggiato fans e curiosi per questo evento, un susseguirsi di auto e persone che iniziavano a tastare il terreno fantasticando sul suo arrivo. L'anno scorso, per il medesimo ritrovo, era arrivato a piedi con la chitarra a tracolla, con Zucchero ospite.
L'aria si surriscalda per questa attesa. Alle ore 18 ha inizio il party con il suo vino, prodotto appunto nella Tenuta Il Palagio, un bianco, un rosato e un rosso. Bianco e rosato battezzati Beppe; il rosso, When We Dance, famoso successo di una raccolta di inediti, che consentì, nel 1996, al baronetto inglese, di vincere un Grammy Awards, nella categoria miglior interpretazione vocale maschile, un fiume di vino e un buffet per gli ospiti invitati, produttori di vino, fans e amici e amiche di Sting e dell’inseparabile moglie, Trudie Styler. Ci sono anche i loro figli, non tutti, in verità, ma al Party non si fanno vedere; aspettano papà e mamma alla festa che si consumerà poco più tardi, nella villa, dove non c’è posto per gli ultrà e gli amici, ma solo per pochi intimi. Come se non bastasse un incontestabile diritto alla privacy, è il giorno del loro anniversario di matrimonio: chi non fa parte della cerchia ristretta di casa, che resti fuori, grazie. Sting e signora arrivano alle 19, ma questa volta sorprendendo tutti, perché lo fanno a bordo di un fuoristrada, con al volante la guardia del corpo personale del fuoriclasse anglosassone. Appena arrivato, è stato invitato subito sul palco, per due importantissimi attestati; il suo vitale contributo per la non chiusura dell'azienda Beakert e la concessione, a Sting e consorte, della cittadinanza onoraria di Figline Valdarno, sotto lo sguardo, felice fino all’imbarazzo, del primo cittadino del comune fiorentino, Giulia Mugnai. Terminati i convenevoli, che convenevoli non sono stati, impreziositi dalle parole, sentite e commosse dei coniugi, la musica – e come sarebbe potuto succedere altrimenti – ha preso il sopravvento; Sting ha imbracciato la chitarra e ha cantato tre dei suoi immortali e indimenticabili successi. L'euforia, oltre ogni ragionevole dubbio, immortalata dall’esibizione, si è ulteriormente amplificata grazie alla voglia, letteralmente inarginabile, di tutti i presenti, di cantare insieme a lui, trasformando la festa, la cerimonia, l’attestato urbano in un vero e proprio evento.
di Francesca Infante
CI SENTIAMO di avvertire chi legge che in questo articolo non parleremo di artisti conosciuti, convenzionali o arrivati secondi a Sanremo. Si prega quindi di aprire le vedute e guardare un po' più in là del proprio naso. Sapete chi sono gli Yawning Man? Nemmeno noi lo sapevamo fino a ieri. Provate ad andare su Youtube, scrivere il loro nome e cliccare sul loro ultimo album, Macedonian Lines. Se quello che sentite ha catturato la vostra attenzione, la loro storia lo farà anche di più. Gli Yawning Man sono un gruppo musicale nato alla fine degli anni ‘80 in California. La loro musica è un incrocio fra l'hard rock, il punk e lo psichedelico, ovvero lo Stoner, del quale loro sono fra i fondatori (spiegato in termini molto profani) e sono considerati la principale fonte di ispirazione del genere Desert rock. Ovvero, questi quattro sconsiderati erano soliti prendere il loro furgone, caricarci sopra strumenti, generatori (e birra), portare tutto in un deserto e lì, dopo aver montato il palco, suonare, per il piacere di farlo. Sì, facevano dei rave nei deserti della California. Forti vero? Sarebbe bello poterli ascoltare dal vivo. E se vi dicessimo che esiste un Festival, che li ha ospitati domenica 21 luglio e non in un deserto californiano, ma in un prato, dietro ad un orto, a Tobbiana (Prato)? il Santa Valvola Fest.
ELBA (LI). Il Golfo di Procchio, nel Comune di Marciana, all’Isola d’Elba, finisce lì, attorno all’ultima insenatura rocciosa. Non sappiamo come, men che mai da quanto, qualche indomito freakettone probabilmente (ma questa è solo una nostra supposizione: l’ideatore del progetto potrebbe essere stato animato, allora, da tutt’altra ideologia morale) abbia deciso di incastonare, proprio sul limitare della piccola insenatura, tra le pietre e il mare, un angolo che rispondesse a un ristorante. Lo ha chiamato La Guardiola e lo ha fatto davanti a una specie di parcheggio per piccole imbarcazioni, delimitato, in acqua, da una corda che divide l’area balneabile da quella dei motori. Avrà pensato, l’ideatore, che la gente che preferisce bagnarsi proprio in fondo alla baia anziché prima, dove ci sono stabilimenti e confort d’ogni genere, dovesse essere se non strana, almeno poco convenzionale. E così è. O meglio: a La Guardiola, così, i bagnanti ci diventano. Perché ne scriviamo? Perché crediamo che ne valga la pena farlo, proprio come Ernest Hemingway decise di fare con la Bodeguita del Medio, a L’Avana.
di Raffaele Marseglia e Giada Giannini
CALCINAIA (PI). Ieri sera, a Calcinaia, si respirava un’atmosfera magica, fuori dal tempo. Scorci di campagna pisana, temperatura perfetta, chiacchiere, attesa. Poi il sole che scende. Si accendono le luci calde e soffuse del ristorante Cavatappi Spirito Jazz che non lasciano spazio a distrazioni, tutto intorno buio. L’attenzione degli ospiti è tutta sul palco, per il grande evento della serata: il concerto di Jimmy Cobb (foto Giada Giannini). Sì, proprio lui, il drumming di Kind of blue di Miles Davis, di Sketches of Spain (Miles Davis, Gil Evans). Cobb si è esibito in trio, accompagnato da Massimo Faraò — pianista genovese che vanta grandi collaborazioni e composizioni nel panorama jazzistico (Archie Sheep tra i tanti) — e Paolo Benedettini, pisano, al contrabbasso, anche lui con nomi importanti in curriculum (Archie Sheep, Eliot Zigmud e molti altri). Faraò e Benedettini, che collaborano insieme da molti anni — si vede e soprattutto si sente! — hanno suonato con un gusto e un’espressione raffinata, grande concentrazione e coinvolgimento; erano palpabili e travolgenti. Palpabile anche l'emozione di suonare con un colosso dello swing, anche se non era per loro la prima volta con Cobb.
SI POSSONO dare per scontate parecchie cose, del Porretta Soul Festival: la prima, indiscutibile, è che anche stavolta, da domani, 18 luglio, fino a domenica, 21 luglio, per la 32esima edizione, chiunque, tra gli spettatori, tornerà alle proprie cure quotidiane un po’ più felice, sereno. Certo, è la magia del soul, magia che nessun altro genere musicale possiede, ma Porretta gioca un ruolo decisivo. Delle decine e decine di artisti che occuperanno, strapazzeranno e renderanno felici gli indigeni e tutti quelli che avranno l’opportunità di starci, in questi quattro giorni nel primo comune del bolognese risalendo la Strada statale 64 da Pistoia, non stiamo a farvi l’elenco: da mesi, sui muri della città e da oltre cinque lustri, sulla pagina ufficiale della manifestazione, Graziano Uliani, qualcosa di più che l’inventore di una rassegna imparagonabile a qualunque altra, informa e ragguaglia tutti gli appassionati sui cartelloni che verranno. Scriviamo – ma lo facciamo da quando è nata, questa formula meravigliosa – della lieta, corretta e meravigliosa ospitalità che tutta la città offre, indistintamente, agli addetti ai lavori e ai suoi utenti.
PISTOIA. Ci vorrebbe un locale così, a Pistoia, casomai nell’emisfero occidentale della zona a traffico limitato, ossia dalla parte opposta rispetto a dove già si trovi il Megik Ozne. Si potrebbe allestire in via della Madonna, perché no, usando con cautela i sistemi di amplificazione, visto che la strada pullula di abitazioni e residenti. E come si potrebbe chiamare? Bonnie & Clyde, che ne pensate, immaginando la leggendaria scia che si sono lasciati, per sempre, i due banditi statunitensi che fecero letteralmente impazzire gli agenti e suscitarono, inconsapevolmente, quel misterioso fascino che si abbina ai supereroi, come lo sono stati, seppur solo nei fumetti, Diabolik e Eva Kant. Nella città del Blues, però, non potrebbe sorgere un nuovo locale su quelle caratteristiche musicali; ci vuole qualcosa di nuovo, tipo Bonnie & Clyde Rock Club, con una frequenza strumentale di artisti però non necessariamente legati al R&R e ai suoi derivati più prossimi.
di Raffaele Ferro
PISTOIA. Se esiste un posto dove di sicuro non ti disturba nessuno, e soprattutto nessuno chiama le forze dell’ordine per denunciare musica a alto volume, o per i cosiddetti schiamazzi, è una zona industriale. Noi, a Pistoia, per fortuna, abbiamo la zona di Sant'Agostino dove in fondo, oltre le ultime fabbriche e aziende, c'è un posto meraviglioso chiamato la Segheria. Di solito, questi luoghi riabilitati a realtà artistiche espositive teatrali, come appunto la Segheria, sono locali dismessi, aziende cessate. In questo caso, no: alla Segheria si lavora ancora il legno! Ieri sera di fatto è stata la serata di chiusura estiva (una vera e propria fiesta, con tanto di musica, alcol, carote meno avvizzite del solito, gara di bocce e lotteria annessa, con ricchi premi e cotillon) di questo luogo laicamente sacro dove proprio da quest’inverno, oltre a lavorare il legno e ad aggiustar ciò che si rompe sono stati allestiti spettacoli, seppur per pochi intimi (è questione di spazio, non di snob), di indubbio prestigio, sotto la direzione artistica degli occupanti autorizzati il covo: Gli Omini.
di Samuele Manduca
VA BENE SOPRATTUTTO per coloro che passano l'estate a casa, Leon Redbone, classe (innata) 1949, vero nome Dickran Gobalian, armeno come Charles Aznavour, per via di alcuni suoi stilemi e gorgheggi, secondo me, cugino di Frank Zappa (1940), trapiantato prima a Cipro poi a Londra, da ultimo in Canada a Toronto, nella fine degli anni '60 del secolo decimonono. Addirittura Bob Dylan ne fu molto colpito quando lo vide per la prima volta esibirsi al Mariposa Folk Festival del 1972, tanto che ne parlò in un'intervista a Rolling Stones poco dopo. Vi consiglio il suo primo album, On The Track, 1975 by WB, ma anche il meraviglioso Double Time, del 1977, sempre dalla Warner. Inevitabili i rimandi cinematografici a Buster Keaton, in cui i viaggi sul vapore sono un tema ricorrente sin dai suoi albori e che culminano con la pellicola di Gerald Potterton, The Railrodder, del 1965, in cui le scanzonate note di Ossorosso sembrano fare idealmente da colonna sonora.
PISTOIA. Il palco di piazza del Duomo sta per essere smontato, proprio in queste ore. Il Festival Blues di Pistoia, la 40esima edizione di uno degli appuntamenti più importanti nel mondo delle note, ha chiuso i battenti. La musica no; e ci mancherebbe altro. A poche decine di metri dalla piazza (usavamo le stese parole ai tempi di Tito’s), però, prima, durante e dopo l’evento, al di là di ogni ragionevole suggerimento atmosferico, utilitaristico e opportuno, quel covo di sfrassolati che risponde al nome di Megik Ozne imbastisce concerti. Concerti, in tre metri quadrati? Andateci e vedrete. E soprattutto, udite udite, perché su quel palco claustrofobico dove è vietato fare qualsiasi movimento che non sia consono alla più alta eleganza ginnica, ci suonano pezzi da novanta.
QUANDO SI PARLA di Blues, abitualmente, si pensa alla musica, ai Festival, ai concerti; quasi sempre. A un Campus, oggettivamente, lo si associa con minor disinvoltura, men che mai alla danza. Finalmente, qualcuno, qualcuno degno di farlo, ha deciso di tornare alle origini, abbinando quel genere musicale ai corollari dei propri antenati. Così è nato e si consumerà il Seravezza Blues Camp, quattro giorni (dall’11 al 14 luglio prossimi) di laboratori, feste, conferenze, jam session, esibizioni e ovviamente concerti, in due siti particolarmente adatti all’esperienza: le Scuderie granducali di viale Leonetto Amadei e piazza Giosuè Carducci, entrambi a Seravezza (Lucca). Due ambienti nei quali i professori impartiranno lezioni e gli allievi cercheranno di farne il miglior uso possibile, ma soprattutto, professori e allievi faranno in modo e maniera che entrambi possano uscirne arricchiti.
PISTOIA. È un locale che non ha alcun bisogno di effetti collaterali: si mangia in modo incantevole al ristorante Lago Lo Specchio, ma quando la calura opprime la valle, rifugiarsi a Spedaletto, subito dopo il traforo sulla Porrettana (venendo da Pistoia), per cenare con il gusto di farlo, è un’equazione alla quale in molti si sottomettono con piacere. Non contenti di dispensare cibo e bevande pregiate che si coniugano appetitosamente al fresco delle primi pendici appenniniche, la direzione dell’esercizio ha deciso di impreziosire ulteriormente l’offerta commerciale con un ricco cartellone di appuntamenti musicali, dal titolo, sintomatico e double face, Note allo Specchio. Le prime sei serate sono già state consumate, ma ora che il caldo è finalmente entrato nella bolla dell’estate vera, le serate-live si moltiplicano. A partire da domani sera, venerdì 14 giugno, alle 21, con la prima delle quattro serate in programma di Pistoia Country Dancer (le altre, nell’ordine, si consumeranno, sempre di venerdì, il 28 giugno, il 12 e il 26 luglio.
di Samuele Manduca
PISTOIA. Tornare a Pistoia non perché ci sia già stato ma perché lo storico di Monticiano di Siena ha antichi avi servi della gleba del cardinal Forteguerri, storico quanto ideale padron di casa stamattina in questa affollata sala Gatteschi, al secondo piano della famosa biblioteca che gli deve il suo nome e da cui si diparte, come un perno di un'antica ruota fatta di testi e libri rari, tutto il rilevante sistema bibliotecario della vostra città. Una delle città del silenzio, come la definisce questo omonimo del filosofo di Nola per caso, il cui battesimo ricade nella responsabilità dei due nonni che non si trovavan d'accordo, nel 1950, sul nome del nascituro: uno lo voleva chiamar Giordano, l'altro Bruno, e finiron per chiamarlo con questo binomio senza manco saper chi era il più famoso frate domenicano del suo tempo, morto sul rogo nel ‘600. Ma, non son certo questi umili, analfabeti natali, della cui ignoranza Giordano non si vergogna affatto sciogliendosi la cravatta blu e posandola sul tavolo davanti a tutti, a impedirgli di fare un primo, sottile riferimento a quello che è il personaggio centrale della sua ultima storia, Gabriele D'Annunzio e la vicenda della città di Fiume, nel biennio 1919-20: è infatti nel suo libro Elettra, del 1903, secondo tomo delle sue Laudi, in cui sbocciano appunto Le città del silenzio, una raccolta di poesie dedicate a quei centri storici italiani che furono un tempo sede di raffinata civiltà e in cui, assieme a Lucca, Pisa, Prato, Ferrara, spicca anche Pistoia, l'aspra Pistoia, città di crucci, come la definisce il Vate nel suo primo capoverso.
di Samuele Manduca
PISTOIA. Nel giorno delle elezioni europee, nelle aspettative di molti il preludio di un grande cambiamento, arrivano nell'ultima mattinata dei Dialoghi pistoiesi, Ritanna Armeni e Michela Murgia, la prima giornalista di grande popolarità, soprattutto per i suoi trascorsi televisivi con Giuliano Ferrara, con il quale condivideva la presentazione di Otto e mezzo, tra il 2004 e il 2008 (non molti ricordano le sue simpatie giovanili per la formazione extraparlamentare Potere Operaio nonché la sua collaborazione con Noi donne, la storica rivista mensile del femminismo italiano fondata nel 1944), la seconda invece, presentata ai più come scrittrice e critica letteraria, nonostante la giovane età (Cabras, 1972), è stata ed è al contempo molte cose: blogger di fama (dai suoi scritti telematici sulla sua esperienza professionale come operatore di telemarketing nei call center, trae spunto il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti del 2008), educatrice per l'Azione Cattolica, ideatrice di spettacoli teatrali, insegnante di religione, conduttrice televisiva e molte altre cose ma, soprattutto, autrice di Accabadora (Einaudi, 2009), tradotto in oltre trenta lingue e di Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018), tradotto in cinque lingue straniere.
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