di Samuele Manduca
PISTOIA. Per la decima volta consecutiva, la balena bianca dei Dialoghi, spiaggia nella piazza del duomo di Pistoia e, alle 21:15 di ieri, 24 di maggio, spalanca le fauci e fa entrare il pubblico, a dire il vero un po’ vetusto, che si dispone ordinatamente su lunghe file di denti sedili, le quali, inaspettatamente, non ci conducono a Giona, il profeta ebraico, ma a un omone bonario, di nome Marco, che vien da Torino dov'è nato nel 1956, che ha lavorato in fabbrica mentre ultimava gli studi universitari in antropologia, che ha viaggiato in molti paesi e che, oltre ad insegnare all'Università di Genova, ha scritto anche tanti libri. Senza troppi fronzoli, ci racconta una storia, dal titolo Dalla comunità al muro, perché a volte i razzismi vincono? che parte da un ponte, quello di Mostar, costruito su commissione del sultano Solimano il Magnifico, da Mimar Hayruddin, nel 1566; e finisce, sempre sullo stesso ponte, in Bosnia Erzegovina, distrutto dalle forze croato-bosniache la mattina del 9 novembre del 1993 (il muro di Berlino cadde un nove di novembre di qualche anno prima, era il 1989). Tra questi due ponti, uno costruito l'altro demolito a cannonate, Aime colloca alcuni concetti: comunità, essa nasce dalla volontà di non pensarsi diversi e si realizza attraverso un progetto, quello di darsi un domani assieme agli altri su un territorio comune che, da solo, non basta a definire la comunità che ci vive.
Città: un luogo che nel tempo si è esteso ipertroficamente, in cui non si intravvedono più i confini che lo delineano e in cui ognuno di noi è costretto a vivere una realtà frammentata rispetto alle altre che compongono la città stessa. Movimento: sempre più veloci ci spostiamo tra un luogo e l'altro, al punto tale che non esiste più un attraverso. Informazione: i flussi informativi sono iperaccellerati come il nostro modo di muoverci tra due punti; il web, luogo dove questo scorrere di informazioni si realizza, è una bolla di eterno presente che sbiadisce le altre due dimensioni: il passato e il futuro. Memoria: non è più una dimensione che pesa nelle nostre realtà. Smartphone: con questi aggeggi siamo tutti connessi a internet al costo di perdere la fisicità del reale e la capacità empatica verso l'altro. Con questi dispositivi abbiamo creato una nuova forma di linguaggio, la scrittura orale, una scrittura che imita il parlato e in cui la mimica facciale è un emoticon. Conversazione: quando avviene tramite le app e i social è più facile, perché ti deresponsabilizza da ciò che dici, perché posso interromperla quando voglio, non c'è campo. Condividere: con un click condivido la mia vita, non è convivere, per convivere occorre tempo, un tempo lungo, dilatato, faticoso. Ideologia: un'idea di società che vorrei nel futuro, oggigiorno ha una connotazione negativa. Identità: grazie al venir meno dell'ideologia, di un'idea di società che ha da venire, tende a essere un qualcosa di naturale, che sboccia nel momento in cui nasci in quel determinato luogo, è un fatto casuale, che non deriva da una serie di scelte come invece è la cultura, che è il frutto di una costruzione fatta di intenti. Insomma, secondo Marco Aime, la modificazione nel tempo dei concetti descritti, prepara il terreno utile all'annullamento della memoria, della storia da un lato e della percezione del prossimo dall'altro. È l'habitat tribale in cui siamo regrediti oggi, in cui l'altro è un nemico perché concepito come un diverso che irrompe nella purezza del mio presente, sotto controllo telematico. In questo modo ci siamo costruiti un muro attorno, che ci isola e da cui bisogna uscire anche al costo dell'illegalità, del contrabbando, che in questo caso sarebbe contrabbando di coscienza e umanità. Perché la storia, se ci pensiamo, è la storia di uomini che cercano di sviare dai confini che gli hanno costruito attorno: i lampedusani tendono la mano all'africano che rischia l'annegamento in mare perché lo vedono davanti a loro, nelle regioni settentrionali invece, lontane, dove certe scene si vedono solo attraverso i media, si ergono muri. La narrazione dell'antropologo piemontese, che non scevra da una certa propensione alla prescrizione a sfondo moralistico, si conclude poi con una filastrocca di Roberta, una giovane studentessa: c'era una volta, un piccolo paese, di cui scusate, non ricordo il nome, c'erano le case, le strade, le botteghe; quel che mancava, erano le persone, piano piano, erano andati via tutti, chi per terre nuove, chi per la strada nota. Sembrava proprio un nido senza passerotti, sembrava proprio una conchiglia vuota. Un giorno, vennero qui da tutto il mondo, per vedere cosa c'aveva regalato il mare e poco a poco, tra le molte differenze, quel paesino tornò a essere vivo: finestre aperte, viuzze piene di gente, la pietra sembrava essere rinata. Erano giorni di luce colorata. Un giorno poi, per l'invidia di certa gente, si svuotò la piazza, la scuola, i banchi. Non tutti amavano le differenze, volevano stare solamente tra bianchi, ma son sicura che in qualche angolo di mondo, i bimbi giocheranno ancora in qualche piazza, forse faranno un gran girotondo, senza sapere cosa vuol dire razza. E mentre scroscia l'applauso della folla, noi usciamo dal ventre della balena bianca con un po’ d'inquietudine, non tanto dovuta al fatto che al fondo di quel grosso leviatano non abbiam intravisto un profeta ebraico di cui si narra sia nella Bibbia che nel Corano ma, dal fatto che, in questa narrazione antropologica, ribadita anche nella presentazione dei Dialoghi 2019, decima edizione, si scandiscano continuamente parole come comunità, convivenza, ospitalità, dialogo, tolleranza, rispetto; senza però mai nominare, neanche una volta e per errore, quell'unica parola che avrebbe assolto il professor Marco Aime dal farci un meraviglioso monologo; questa parola si chiama famiglia, accomuna tutte le società di questo mondo, le unisce attraverso il mare delle informazioni, giuste o sbagliate che siano, necessita di un luogo natio per potersi accrescere in salute e, sorprendentemente, costituisce anche il tema portante del film di Luchino Visconti, del 1960, Rocco e i suoi fratelli, che andremo a vedere subito dopo per l'ennesima volta nel vicino Teatro Mauro Bolognini, in via Del Presto e che, invece, nella brochure di presentazione dei Dialoghi 2019, è presentato da Paola Jacobbi come il film definitivo sull'immigrazione interna in Italia. Un'interpretazione questa che, probabilmente si picca, senza muoversi da lì, sulla sequenza iniziale della pellicola, quando i Parondi, provenienti dalla Lucania, appena arrivati a Milano, non trovando ospitalità dai parenti che li hanno preceduti nella migrazione dal sud, si ritrovano a cercar due stanze per dormire nello scantinato di un caseggiato popolare dove, appena varcata la cancellata, due signore anziane, guardandoli sospettose, li definiscono in dialetto, africani. Da quel fotogramma in poi, si irradia, nella vulgata, contaminando anche i Dialoghi sull'Uomo e i suoi curatori, l'interpretazione secondo cui quell'opera cinematografica sia metaforicamente un film sul dramma di tutti gli immigrati. È in realtà una storia che narra il dramma di una famiglia in cui, Rocco e il fratello Simone, attraverso la loro contrapposizione caratteriale, polarizzano tutte quelle domande che, questa volta sì, ci mettono finalmente in condizione di far dialogare almeno qualcosa con qualcos'altro, nel nostro caso, una conferenza a tema con un film:
- fino a che punto bisogna aiutare un fratello in difficoltà?
- quando bisogna rinunciare a redimere una persona che non vuole essere salvata?
- può una famiglia che vuole definirsi onesta, arrivare a denunciare alla polizia il sangue del suo sangue?
In questo modo, con queste domande, il dramma dei Parondi, famiglia di immigrati, il dramma di tutti gli immigrati, perché tutti gli immigrati vengono da una famiglia prima ancora che da un territorio, diventa opera d'arte, diventa l'oggetto di una conferenza, diventa l’argomento di un saggio. Abbiamo trovato finalmente il dialogo, quello che ieri sera ci mancava, fuori dalla balena bianca, dentro la sala di un cinema, vicino a dove si era spiaggiata.