di Samuele Manduca
PISTOIA. Nel giorno delle elezioni europee, nelle aspettative di molti il preludio di un grande cambiamento, arrivano nell'ultima mattinata dei Dialoghi pistoiesi, Ritanna Armeni e Michela Murgia, la prima giornalista di grande popolarità, soprattutto per i suoi trascorsi televisivi con Giuliano Ferrara, con il quale condivideva la presentazione di Otto e mezzo, tra il 2004 e il 2008 (non molti ricordano le sue simpatie giovanili per la formazione extraparlamentare Potere Operaio nonché la sua collaborazione con Noi donne, la storica rivista mensile del femminismo italiano fondata nel 1944), la seconda invece, presentata ai più come scrittrice e critica letteraria, nonostante la giovane età (Cabras, 1972), è stata ed è al contempo molte cose: blogger di fama (dai suoi scritti telematici sulla sua esperienza professionale come operatore di telemarketing nei call center, trae spunto il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti del 2008), educatrice per l'Azione Cattolica, ideatrice di spettacoli teatrali, insegnante di religione, conduttrice televisiva e molte altre cose ma, soprattutto, autrice di Accabadora (Einaudi, 2009), tradotto in oltre trenta lingue e di Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi, 2018), tradotto in cinque lingue straniere.
Due personaggi del gran circo dell'industria culturale italiana molto diversi dunque, se non altro per il profondo solco generazionale che le divide, ma legate da un filone molto forte che comunque le unisce culturalmente e politicamente: il movimento femminista, di cui, durante questa conversazione sulla falsariga dell'ultimo libro di Murgia, Noi siamo tempesta (Salani, 2019), emergono tutte le affinità e contraddizioni. Tra le affinità, affiora sin dall'inizio del dialogo la preoccupazione politica e mediatica per il ripetersi dello schema, popolo bue/uomo forte al comando, nella cui narrazione il secondo salva il primo e che, come auspicato da entrambe, ha come contrapposto il modello del gruppo che collabora, in cui non si necessita di eroi dotati di intrinseci superpoteri. È chiaramente questa una concordia tra Armeni e Murgia che propende per una realtà che si ispiri non tanto alle singolarità eccezionali, le eccellenze, quasi sempre di segno maschile ma, alle qualità risultanti dei cosiddetti gruppi creativi (Domenico De Masi, L'emozione e la regola. L'organizzazione dei gruppi creativi, BUR saggi, 2015). La seconda affinità tra queste due portatrici della cultura femminista consiste nella convinzione che fare narrativa sia un atto politico perché contribuisce ad accrescere l'armamentario mentale con cui immaginare e, quindi, modificare il mondo, un'operazione a detta della scrittrice sarda che è resa possibile dal fatto che l'organizzazione umana del mondo è fatta soprattutto di cultura e non di natura: in natura il debole viene sacrificato nella rupe Tarpea degli eroi greci e romani ma, nel sistema democratico degli umani emancipatisi dall'età degli eroi omerici, gli ultimi non vengono sacrificati in favore dei primi. Se questo è vero, se questo è nelle nostre intenzioni politiche, il concetto di eccellente è, quindi, fortemente eugenetico e dunque, in questa visione, negativo, per non dire reazionario. Da cui l'elogio di Michela Murgia per il modello scolastico svedese, sicuramente influenzato dal suo sistema politico storicamente di provenienza socialdemocratica e dai suoi trascorsi quelli sì, veramente eugenetici (tra il 1934 e il 1976, nel paese scandinavo si portò a compimento la sterilizzazione di almeno 60.000 persone, quasi tutte donne, perché, per vari motivi, giudicate come devianti dalla normalità); in cui l'eccellenza è combattuta con tutte le forze possibili: si tratta di una società organizzata per alzare la media delle persone e non per enfatizzare lo svettare delle sue punte talentuose. Mentre nelle società mediterranee, o comunque non appartenenti al ceppo scandinavo, la nostra organizzazione sociale è piramidale, atenea, partenonica, in cui più alta è la punta massima e più grande è la base sociale su cui debba scaricarsi il suo peso, con tutte le conseguenze di emarginazione per i meno dotati a livello economico, culturale, professionale, geografico; nelle società nordeuropee, nelle socialdemocrazie settentrionali, ad un certo punto della loro storia, quella della fine del ‘900, si è operata una riflessione in cui si è arrivati alla conclusione che non ci si poteva permettere economicamente un’organizzazione piramidale della popolazione: l'eccellenza, intesa come l'emergere della punta (il sospetto che sia un fallo per chi non è femminista è forte), è un danno, non ci interessa il genio, l'eroe, ci interessa avere una popolazione mediamente alta in tutti i campi, economicamente sostenibile per la maggior parte delle persone (le persone, in questa chiave economica, sono essenzialmente i contribuenti). In questa ottica economico-sociale, che poi diventa politico-culturale, la media, cioè i più, sono assistiti dal welfare sociale, chi sta sopra questa media, fa da sé, è in grado di provvedere a se stesso da solo (la logica della meritocrazia è invertita: se hai preso sessanta all'esame di maturità, non solo paghi l'immatricolazione al primo anno di studi universitari ma la paghi di più di chi se l'è cavata con un misero 38). In questo modo, il sistema nazionale complessivo svedese, non si sviluppa più come il nostro, in esso non esiste il bravo impiegato o il bravo studente che si ricorda meglio degli altri la lezione sui sumeri che l'insegnante ha tenuto la settimana precedente, il voto individuale allo studente in età formativa nemmeno si dà, si dà invece un voto collettivo al gruppo classe (facevamo questo anche in Italia nel 1968, però all'università.. ), per il quale lo svantaggio di uno, il voto insufficiente del nostro somarello collodiano, è e deve essere percepito come lo svantaggio di tutti e, conseguentemente, l'insegnante percepisce il proprio fallimento educativo e non il fallimento di un ragazzino di sei anni che non riesce a ricordare qualcosa. Secondo Murgia e gli svedesi quindi, l'eccellenza ha senso perché è frutto di un sistema eccellente, la punta di diamante è tale perché dietro ha un diamante. Siccome in Italia l'organizzazione non è questa, tutte le volte che un politico pronuncia la parola eccellenza, si capisce che in realtà sta intendendo la parola eccezione. Cioè, la parola giusta per qualcuno che ce l'ha fatta non grazie al sistema ma, nonostante il sistema, in cui è costretto a comportarsi. Da questo punto di vista quindi, per evitare queste conseguenze insite negli ordini a struttura piramidale, secondo Murgia e gli svedesi, è più conveniente economicamente investire nei sistemi collettivi, perché altrimenti, la comunità demograficamente microscopica degli eccellenti, dovrà farsi carico economicamente e paternalisticamente anche di quelli che eccellenti non lo diventeranno mai (?). Da queste affinità, da queste concordie delle due relatrici, si dipana poi tutto il filo del dialogo condotto, che tocca, in successione, la struttura anch'essa piramidale dei partiti politici italiani (Forza Italia, Partito Democratico etc…); il sistema politico-elettorale, che negli ultimi decenni passa da un sistema proporzionale a quello del bipolarismo e poi del tripolarismo; il ruolo dell'intellettuale che, in senso rigorosamente gramsciano, aveva il compito di mediare l'elemento intellettuale complesso della politica semplificandolo, rendendolo, quindi, popolare; il ruolo del partito, in cui il popolo poteva allora organizzarsi e riconoscersi politicamente, mentre adesso esso si riconosce nel suo leader partitico (secondo Armeni, il partito allora era l'organizzazione della comunità, un concetto questo di Armeni, per noi francamente discutibile); la contrapposizione fra le idee forti (anch'esse parte di quest'epica eroica), i grandi partiti nazionali, con i comitati del no; la tensione all'uno descritta da Etienne De La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria (1549); le rabbie in politica che nascono dalla deprivazione di rappresentanza; il timore per il modello di potere rappresentato dall'eroe, intrinsecamente bellico, belluino e ipermaschile secondo Michela Murgia, che contamina anche le donne (Margaret Thatcher). Un turbinio di argomenti e preoccupazioni insomma, che convergono tutte verso un'unica domanda: esistono modelli di leadership alternativi rispetto a quello dell'eroe, cioè, esistono leadership che anziché porsi e porci gli uni contro gli altri, siano capaci di disegnarci come potenti insieme? Armeni e Murgia ammettono di non sapere rispondere a questa domanda, e per questo motivo, avviano ad articolare la loro retorica sulla minorità del ruolo femminile nella storia e nella politica (Theresa May, Virginia Raggi), che poi si allarga anche a quella di tutti i gruppi minoritari, in un ragionamento che si conclude con il seguente asserto: siamo in grado di collettivizzare aspetti singolari ma solamente quando vogliamo marginalizzarli; l'immigrato che salva un altro che sta annegando è eroe individualmente ma, l'immigrato che si macchia di uno stupro è l'insieme di tutti gli stupratori in lui sintetizzati. Questa operazione ci serve per costruire il nemico, che necessariamente diventa la marginalità contro il quale la massa si contrappone e fa sistema, elettorale. Ma nel momento esatto in cui Ritanna Armeni interviene in questo dialogo con Michela Murgia, di cui, francamente, abbiamo perso un po’ il filo, con la frase improvvisa: io per esempio, sul fascismo, non come ideologia, ma rispetto al fatto che sono molto preoccupata che vedo la disuguaglianza che aumenta, vedo un mondo nel quale essere donna è ancora meno che essere uomo, essere ebreo è di nuovo un pericolo, essere nero ed essere ammazzato nel Mediterraneo rientra tra le cose normali, io di questo sono molto spaventata", in quell'esatto momento, tanto inspiegabilmente quanto piacevolmente, rivolgiamo lo sguardo fuori dal tendone bianco dei Dialoghi e, nel farlo, non possiamo fare a meno di rievocare mentalmente, maschilisticamente, la frase dell'ultimo rappresentante dell'epica eroica nella narrativa occidentale, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, il quale, sostituendo furtivamente e per un attimo solo la sua vecchia lancia spuntata con l'acume delle sue battute, a un certo punto, ci punzecchia sul culo e alle 12:45, sull'ora di pranzo, ci sospinge fuori, per la prima ed ultima volta, da questa manifestazione giunta alla sua decima edizione, con il sussurro acuminato delle seguenti parole: sii breve, che un discorso lungo non può mai dar piacere. Usciamo nella piazza del duomo di Pistoia, accanto a noi sotto un'altra tenda più piccola, vicino al fallico e puntuto campanile, che un tempo era torre di avvistamento longobarda quindi il prodotto di un'architettura bellica, alcuni librai si apprestano ad accogliere la scrittrice sarda che, di lì a poco, si siederà dietro a un tavolino per firmare le copie dei numerosi suoi libri che se ne stanno impilati su un banco, in attesa di esser venduti. Piove, governo ladro. Dopodiché, andremo a votare.