di Laura Sestini
CASTRO (CILE). Instabili Vaganti portano in Cile Made in Ilva, invitati alla XVIII edizione del Fitich - Festival Internacional de Teatro Itinerante por Chiloé Profundo. Tre le repliche dello spettacolo nella prima settimana di dicembre, per poi proseguire il percorso artistico con workshop originali, indirizzati a Università e contesti culturali che rimangono ancora rigorosamente chiusi o occupati - viste le proteste di queste ultime settimane nel Paese latinoamericano. L’opportunità di un’intervista ad Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola (cofondatori della Compagnia teatrale italiana Instabili Vaganti) è apparsa unica e irripetibile, mirata a comprendere meglio l’entità delle manifestazioni di massa in Cile - e i loro effetti sulla società - direttamente dai luoghi scossi dalle violenze. Alle loro dichiarazioni, affianchiamo quelle della direttrice del Festival, Gabriela Recabarren Bahamonde, molto impegnata a livello sociale e che non ha mai abbandonato la lotta per un Cile migliore. Ma facciamo un breve inciso per chiarire la situazione nella quale si sono mossi Instabili Vaganti. Cento giorni di proteste: 27 morti, oltre 20.000 arresti, 13.000 feriti, il coprifuoco, la legge anti-barricate e anti-sciopero, 113 casi di tortura, 24 di violenza sessuale contro donne documentati da esperti Onu.
Tutto ciò ha costretto il governo di Sebastián Piñera a firmare un Accordo per la pace e una nuova Costituzione e a indire un referendum che si dovrebbe svolgere il prossimo aprile. In Cile, nonostante i media italiani non se ne occupino più da settimane, le proteste continuano, seppur meno partecipate, e tuttora i manifestanti subiscono repressioni da parte delle forze dell’ordine che, dal 6 ottobre scorso - giorno di inizio degli scontri con gli studenti che contestavano il rincaro dei mezzi pubblici - utilizzano differenti metodi di dissuasione armata e violenta: dai proiettili di gomma ad altezza occhi, che hanno privato della vista almeno 300 persone, ai lacrimogeni in quantità talmente inverosimili che, in qualche giorno, sono terminate le scorte; fino agli idranti, contro gli attuali cortei, che contengono sostanze chimiche urticanti per la pelle e che hanno causato ustioni a centinaia di persone. Eppure il Cile è stato a lungo considerato un modello positivo di crescita economica in America Latina. Nonostante ciò le disuguaglianze tra i ceti sociali, in un Paese basato su un’economia neoliberista di stampo statunitense, che predilige i servizi privati in settori fulcro dello Stato - quali educazione, sanità, sistema pensionistico - sono nettissimi e laceranti. Le proteste di massa sono rivolte a una redistribuzione equa delle risorse sociali ai cittadini delle classi più popolari - e della classe media - che, in gran parte, non riescono a vivere con gli attuali stipendi. In questo contesto estivo australe, rivoluzionario e infuocato, il duo Instabili Vaganti ha presentato per la seconda volta nel Paese andino Made in Ilva - espressamente richiesto dalla direttrice del Fitich; spettacolo che porta in scena la tematica universalmente omnicomprensiva dell’alienazione dei lavoratori e delle morti sul lavoro. Un ponte invisibile collega Taranto, l’Ilva, i lavoratori in lotta - dei quali proprio in questi giorni, in Italia, si deciderà la sorte di cassaintegrati in stato di oblio o di licenziati tout-court a seconda degli accordi che le parti riusciranno a raggiungere - e lo spettacolo Made in Ilva, che avete messo in scena in una nazione scossa da violente proteste proprio per la precarietà e le diseguaglianze sofferte da molti cittadini. Se il mondo del lavoro ha, trasversalmente, punti comuni un po’ ovunque, non vi sembra che questo parallelo sia un’incredibile coincidenza? “Potremmo dire che non si tratta solo di coincidenza. Anzi, possiamo parlare di volontà sia da parte nostra che della direttrice del Fitich, Gabriela Recabarren Bahamonde. La presentazione dello spettacolo al Festival è stata fortemente voluta da entrambi. Gabriela conosceva già il nostro lavoro; ci aveva invitati due anni fa sempre con Made in Ilva e ha pensato di riproporlo proprio per la sua tematica, chiaramente in città diverse, dato che il Festival ha nella sua mission quella di portare il teatro in luoghi differenti, anche tra i più remoti del sud del Cile. Made in Ilva è stato spesso ospite in Paesi e contesti che, in qualche modo, erano connessi alla vicenda dell’Ilva di Taranto, o a problematiche inerenti le condizioni di lavoro in fabbrica o il processo di disumanizzazione prodotto dal sistema capitalistico in generale. In Italia siamo stati a Taranto, a Genova - dove c’è lo stabilimento di Cornigliano - a Trento, dove i temi potevano ricondurre anche alla vicenda della SLOI, e a Ravenna - in un’azienda che si occupa di sicurezza sul lavoro; oltre a molti altri contesti in cui sentivamo che era necessario presentarlo. All’estero siamo stati in diverse città dell’India tra cui Bangalore, nota come la Silicon Valley indiana; in Cina, a Tianjiin, dove l’esplosione di una fabbrica ha causato un grave disastro ambientale; in Argentina e in Uruguay, Paesi in cui abbiamo presentato lo spettacolo in diverse ex fabbriche, dismesse o gestite dagli stessi lavoratori. In ogni situazione, sia gli organizzatori che gli spettatori, hanno sempre trovato delle connessioni con alcune vicende locali e, spesso, è stato grazie alla lungimiranza dei direttori artistici dei vari Festival che queste coincidenze si sono potute realizzare. Ciò che ci appare strano è, al contrario, che lo spettacolo non continui a girare in Italia, dove sarebbe molto utile capire ciò che sta accadendo a Taranto. Per questa ragione, siamo contenti di presentarlo il 7 marzo al Teatro del Lemming, che ha accolto la nostra proposta di continuare a parlare di Ilva attraverso un lavoro ormai consolidato e riconosciuto a livello internazionale”.
Lo spettacolo tratta dell’alienazione del lavoro in fabbrica - tema che rimanda al liberismo sfrenato di cui soffre la Terra, anche a livello ambientale. Una situazione che ha originato anche il forte malcontento dei ceti operai cileni e che si riflette nelle ampie disparità sociali che hanno innescato le manifestazioni di protesta. Ci sarebbe bisogno di scendere ovunque in piazza? “Rispondendo dal Cile, quello che più ci terrorizzava era la presa di coscienza che se è possibile per dei governi che si definiscono democratici rimanere sordi a sessanta giorni di proteste e manifestazioni massive e, soprattutto, se è possibile per altri governi internazionali non intervenire in situazioni di violazione dei diritti umani, forse anche scendere in piazza non è una soluzione. O meglio, è l’ultima speranza possibile, è quella che porta tuttavia, in extremis, alla guerriglia urbana - dato che, come espressione pacifica di un malcontento popolare, è completamente ignorata da chi governa. Forse la soluzione migliore sarebbe possedere tutti una maggiore coscienza politica, ritornare ad avere ideali e a lottare attraverso le idee prima di arrivare agli scontri in piazza. Votare con coscienza, occuparsi del bene comune, perché l’indifferenza ci ha portati, un po’ ovunque, a queste conseguenze. Avere memoria storica e sentirsi parte attiva di un mondo che non può più essere nazionalista - perché è già il risultato del processo di globalizzazione - potrebbe aiutare un minimo a cambiare le cose. Quello che avviene dall’altra parte del mondo non può non interessarci in quanto ci coinvolge comunque, in un modo o nell’altro. Permettere a livello internazionale che in Cile si arrestino, si torturino o si ammazzino i manifestanti significa, in qualche modo, permetterlo in assoluto in ogni democrazia contemporanea”. Il pubblico sembra rispondere sempre positivamente alle rappresentazioni di Made in Ilva - opera pluripremiata - tanto che in un articolo che riporta di una vostra precedente tournée in Cina si legge che sentivate alcuni spettatori piangere: segno di grande coinvolgimento e immedesimazione. Come ha reagito il pubblico cileno? “Anche in Cile, dove Made in Ilva torna per la terza volta (nel 2015 è stato presentato al Parque Culturale Ex Carcel di Valparaiso, nell’ambito del Primer Encuentro Fronterizo e nel 2017 ha intrapreso una tournée in Patagonia, sempre nell’ambito del FITICH), la reazione del pubblico è stata molto emotiva e di forte ritorno energetico, tanto che al termine della prima replica si è sviluppato un dibattito con gli spettatori ricco di spunti e suggestioni. In un periodo storico in cui, a causa dei recenti avvenimenti, molte manifestazioni culturali sono state sospese, gli abitanti di Castro, capitale dell’arcipelago di Chiloé, sono rimasti sorpresi di poter fruire di uno spettacolo dai contenuti fortemente politici. Il parallelo tra la situazione dei lavoratori dell’ex-Ilva - status symbol dell’operaio che vive il ricatto lavoro/salute in una situazione di costante precarietà - e i lavoratori cileni intrappolati in un sistema neoliberista che non permette di arrivare a fine mese, si è instaurato in sala fin dai primi minuti di spettacolo al suon di Lavora, produci, opera! Durante l’incontro col pubblico, una maestra ha confessato di vivere la stessa situazione, le stesse frustrazioni e sensazioni, lavorando nel sistema cileno dell’istruzione, un settore in rivolta da molto più tempo e che ha portato recentemente a scioperi e occupazioni in molti Istituti scolastici e Università del Paese. Gli insegnanti, infatti, non hanno condizioni salariali adeguate e sono soggetti a continue violenze psicologiche. Qualche giorno prima del nostro arrivo a Castro, abbiamo incontrato gli studenti di un liceo occupato di Puerto Montt, che si ribellavano al regime dittatoriale dei dirigenti, accusati di aver causato patologie psichiche agli insegnanti. Venire a sapere che quel liceo, il più antico della città, era usato come luogo di tortura durante la dittatura, aggiunge quel non so che di sconcertante a una situazione che è già di per sé disastrosa. Le attuali rivolte scoppiate a Santiago e in altri centri del Paese non sono che il culmine di anni e anni di proteste dei lavoratori, degli studenti, dei popoli nativi. Vorrei aggiungere un altro aneddoto: un signore si è complimentato con noi dicendoci che quello che abbiamo comunicato in maniera così universale rappresenta la situazione in cui il popolo cileno si trova in questo momento e ci ha ricordato come, nello specifico, anche gli abitanti di Chiloé abbiano vissuto una situazione analoga a quella dell’ex-Ilva, nelle industrie salmonere e con le proteste esplose nel 2015 nell’arcipelago”. La seconda parte della vostra permanenza in Cile prevedeva dei workshop con studenti universitari, artisti e intellettuali al di fuori dei luoghi istituzionali - come le università, chiuse per lo stato di emergenza. Immaginiamo che la politica sia stata l’argomento al centro del dibattito culturale anche dei vostri workshop, a causa del momento storico. D’altronde, la drammaturgia di Instabili Vaganti contempla sempre temi sociali. “Abbiamo deciso di incontrare gli studenti dell’Università di Playa Ancia, così come gli attori, danzatori e artisti di Valparaiso, per condividere con loro la nostra metodologia di lavoro sviluppata in particolare nel corso del progetto Megalopolis. Ci sembrava importante avere un momento di scambio che potesse servire anche a esorcizzare tutto quello che sta accadendo in Cile. Ci siamo subito resi conto di trovarci in una situazione davvero forte a livello emotivo. Alcuni dei ragazzi che hanno lavorato con noi erano in prima linea durante le proteste e ogni giorno affrontavano una situazione di guerriglia urbana. Abbiamo dedicato il nostro tempo non solo al lavoro fisico, come sempre nei nostri progetti, ma anche all’ascolto delle esperienze di vita di ognuno in quel particolare momento. È stato molto potente percepire, in tutti i ragazzi, un forte dissidio tra il voler continuare a vivere normalmente e, quindi, anche a fare teatro, e l’essere a tempo pieno parte della lotta, scendendo in piazza e dedicandovi tutte le proprie energie, essere parte attiva di questo momento storico e farlo attraverso ogni mezzo a propria disposizione. La politica è stata al centro di tutto il lavoro, così come la cruda realtà che ha divorato ogni tipo di energia lasciandoci esausti al termine del workshop, quasi che, nelle ore di lavoro, avessimo assorbito ciò che i ragazzi hanno vissuto in sessanta giorni di lotta sociale. Il tutto è stato ancora più chiaro e travolgente per noi quando, al termine dell’intensa esperienza, abbiamo condiviso con i nostri cari colleghi della compagnia Performer Persona Project - che hanno organizzato l’evento - un normalissimo momento conviviale, una cena, durante la quale – improvvisamente - la normalità è stata spezzata dal lancio di lacrimogeni contro alcuni manifestanti. Il locale è stato chiuso con noi dentro, mentre fuori la guerriglia andava avanti e noi stessi, camerieri e clienti, continuavamo a tossire e a spruzzarci in viso acqua e bicarbonato per alleviare gli effetti dei lacrimogeni. Da due mesi si vive così a Valparaiso, da due mesi si vive alla giornata, sognando un Cile migliore”. Confermare la vostra presenza al Fitich è stato sia un atto coraggioso che un atto politico, così come la decisione del Festival stesso di non recedere e andare avanti con la programmazione, nonostante la situazione di repressione. “Da parte nostra abbiamo fortemente desiderato far parte, con il nostro lavoro, di questa rivoluzione che sta avvenendo in Cile. Non ci siamo lasciati dissuadere dalle incertezze o dalle paure e abbiamo aspettato pazientemente che la direttrice del Festival prendesse la decisione di portare avanti questo meraviglioso progetto in ogni modo”. Cosa si percepisce camminando per le strade cilene? Paura, violenza, speranza, un nuovo futuro? Cosa hanno visto i vostri occhi di artisti e di stranieri? “Le sensazioni che abbiamo provato attraversando il Paese da nord a sud sono tante e contrastanti. Ci siamo sentiti parte di un fenomeno sociale importante, di un momento storico che si stava scrivendo contemporaneamente al nostro viverlo. I ragazzi erano pieni di speranza e questo era inebriante: molti di loro non hanno paura di scendere in piazza, di stare in prima linea - che è come essere in guerra”.
Gli Italiani non sembrano propensi a scendere in piazza per contestazioni di massa o per rivendicare cambiamenti necessari anche da noi, mentre le lotte operaie degli anni 70 paiono ormai un ricordo lontano. Italia e Cile, due popoli entrambi latini ma profondamente differenti? “Il nostro rientro dal Cile non è stato facile, a livello emotivo: avremmo voluto rimanere lì e vivere insieme ai nostri amici e colleghi questo momento storico così importante per il Paese. Ci siamo sentiti parte di una lotta che, come dicevamo prima, non può più essere considerata relativa a un singolo contesto ma globale. Credo che i cileni abbiano preso coscienza di ciò, mentre noi italiani non riusciamo ancora ad avere una tale visione, siamo ingabbiati nelle nostre piccole insoddisfazioni quotidiane, prettamente individuali e individualistiche e non riusciamo a sentirci parte di qualcosa di più grande. La stessa questione dell’Ilva è emblematica in tal senso: interessa solo i tarantini, dal punto di vista della salute e delle condizioni di lavoro e gli stessi tarantini pensano che sia solo una faccenda legata alla loro città. Pochi giorni fa hanno postato un commento su Facebook a un nostro articolo che raccontava del Cile e dello spettacolo: Questo non riguarda Taranto! Io non credo che gli italiani non abbiano il coraggio di scendere in piazza ma che, per riprendere uno slogan cileno, non si siano ancora risvegliati e non abbiano compreso la portata di alcune macro-tematiche che riguardano la nostra era contemporanea. Credo che non siamo ancora in grado di capire, attraverso un’esperienza diretta, cosa sta cambiando a livello generale in tutto il mondo. L’informazione in Italia è sempre circoscritta al nostro Paese. In generale si conoscono poche lingue e c’è poca mobilità a livello internazionale. Purtroppo ci capita sempre più spesso, lavorando con i giovani, di notare un venir meno degli ideali e, senza una forte motivazione, credo sia difficile decidere di alzarsi da un divano oppure scendere in piazza per dire e fare qualcosa di concreto. Ci hanno colpito molto, al contrario, le parole di alcuni giovani cileni, incontrati nei licei e nelle università occupati, e che hanno preso parte al nostro workshop Megalopolis#Valparaiso: Adesso è il momento di essere presenti, di cambiare la storia, di lottare”! Passiamo la parola a Gabriela Recabarren Bahamonde, che ci regala una testimonianza di cilena che vive, lavora e s’impegna nel e per il proprio Paese ogni giorno.In una situazione così instabile e violenta come quella attuale, dove trova il coraggio e la determinazione per mantenere i suoi impegni di cittadino e responsabile di un Festival teatrale? “Sono figlia della dittatura, vivo in un ambiente con un clima avverso, con una geografia smisurata e gestisco il Festival da 18 edizioni nel territorio dalle caratteristiche più complesse. Il coraggio e la determinazione si trovano nel rigore della mia formazione e nell'esperienza vissuta: per le generazioni future e per il futuro del nostro Paese, dobbiamo più che mai resistere”. Sui giornali europei si è letto molto - specialmente all’inizio delle proteste - di violenza e sparizioni di donne impegnate socialmente, tanto che in seguito è nato il movimento El violador eres tu, che sta facendo il giro del mondo. Quanto è stato ed è reale tale fenomeno di violenza contro le donne quale strumento di repressione governativa? “La repressione contro le donne limita le possibilità di azione. Nel nostro Paese la repressione della violenza di genere colpisce sotto vari punti di vista: vi è violenza sistematica nella disparità di retribuzioni tra uomini e donne, nei piani sanitari con l’Isapres (un’istituzione sanitaria privata) che puniscono, ad esempio, le donne in gravidanza. Gli aggressori in Cile sono puniti raramente, la giustizia è latitante ed è sessista. Le donne sacre del nostro territorio indigeno (Machi) sono violate ogni giorno nella lotta per essere riconosciute, fin da prima della Costituzione, quale popolo originale che merita rispetto e dignità. Le madri del nostro territorio sono ancora alla ricerca di risposte circa i loro bambini, detenuti e dispersi. È un lungo elenco di abusi che copre anni di sottomissione: uno strumento di repressione perpetrato dall'azione sistematica dello Stato”.