di Andrea Massai
PISTOIA. Ero in Portogallo, per un trekking lungo la costa del Pacifico, a sud di Lisbona, quando un sms inviatomi dalla solita compagnia aerea low-cost mi avvisava che il mio volo di rientro previsto dopo qualche giorno era stato annullato e che mi sollecitava a cercare un modo per come rientrare in Italia. Solo in quel momento ho capito che a casa accadeva qualcosa di veramente grave. Mi sono adoperato subito per cercare un altro volo. La compagnia di cui sopra non offriva niente, se non dopo il 15 aprile; quindi, tramite Lufthansa e a prezzo non certamente low-cost, sono riuscito a rientrare a Firenze, facendo scalo a Francoforte il giorno dopo l’avviso di cancellazione ricevuto. Che incredibile senso di disagio leggere il tabellone delle partenze/voli dell’aeroporto di Lisbona e non trovare nemmeno un volo diretto in Italia! Dentro di me, però, nonostante le notizie che consultavo tramite telefonino, pensavo, speravo, probabilmente, che fosse un'esagerazione tipica della teatralità di noi italiani.
Ero partito che dalle maggiori reti televisive, radiofoniche e sui più importanti quotidiani della stampa nazionale lanciavano inviti a riprendere la vita di sempre, fatta di incontri professionali, cene fuori e aperitivi, dopo i primissimi giorni farciti invece di appelli allarmistici, com'era possibile che in quattro giorni fosse successo tutto quello che leggevo? Ecco, questo è stato il mio impatto con il Covid-19. Ora lavoro da casa, home working per chi parla bene questo lessico internazionale; esco per fare la spesa, portare fuori il fido Gaspare e, sì, lo ammetto, per fare qualche corsettina di un’ora (tranquilli, la faccio lontano da tutti e tutto). Siamo, credo, di fronte a un'incredibile, per molti versi inaspettata, crisi sanitaria; non me ne intendo:dunque, nessuna filippica da virologo dell'ultim'ora, pneumologo in pensione o chirurgo improvvisato e credo di fronte ad ancora una assai più profonda crisi economica. Anche qui, nessuna ricetta, non essendo un fine economista. Cosa ci lascerà oltre a quanto sopra questa esperienza? Vorrei augurarmi di poter tornare presto sulle mie adorate montagne, perdendomi nuovamente nei profumi e nei suoni di faggete, abetaie, boschi di castagno; vorrei augurarci molte cose: rispettare sempre qualsiasi lavoro (gli infermieri la vita la rischiano ogni giorno e non solo durante questa pandemia, ad esempio), riappropriarsi del proprio tempo e del proprio spazio (siete così sicuri che serva correre come matti da una parte all’altra della vostra città chiusi nelle vostre macchine ogni giorno della vostra vita)?, mantenere un senso di comunità e di fratellanza che nasce sempre in occasioni come questa (ma basta, per carità, canzoni dal terrazzo, vi prego o altri tipi di flash-mob). Ma non sono granché ottimista. In una delle mie escursioni, mi imbattei in un cartello, lasciato non so da chi, ma ben piantato lungo il sentiero, che riportava una parte del discorso che Seattle (Capriolo Zoppo), capo indiano pellerossa, fece a Franklin Pierce nel 1854, quando era Presidente degli Stati Uniti d'America: Questo noi sappiamo, la terra non appartiene all’uomo, è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi sappiamo. Tutte le cose sono collegate, come il sangue che unisce una famiglia. Qualunque cosa capita alla Terra, capita anche ai figli della Terra. Non è stato l’uomo a tessere la tela della vita, egli ne è soltanto un filo. Qualunque cosa egli faccia alla tela, lo fa a se stesso.