di Martina Pia Montano

SALERNO. Fisso, ora dopo ora, una clessidra ferma; la sabbia al suo interno ormai raddensata, raggrumata. Della sabbia sottile e fluente che prima scendeva inarrestabile non vi è più traccia; quelli che vedo, solo grumi, una falla nel sistema che rende lo scorrere irritante ed estenuante. Ripenso alla sabbia bagnata sulla riva, densa, cremosa, cemento dei miei migliori castelli, quelli che non cadono, perché i castelli fatti di sabbia asciutta non reggono lo sfilarsi del secchiello, lo sappiamo tutti. Ripenso ai grumi nella mia clessidra, ai castelli compatti e rivedo lo scorrere delle mie giornate di quarantena. Compatte, raddensate, raggrumate, vedo il tempo scorrere, ma non le giornate. Non ricordo il giorno in cui tutto ciò ha avuto inizio, ma non ho la più pallida idea di come possa già essere il 26 marzo. La reclusione non mi spaventa, non ho mai amato il mondo al di fuori delle mie quattro mura e questa non è altro che, egoisticamente, una giustificazione che non richieda troppa fantasia.

Credo, tutto sommato, di trovarmi bene così, sola e all’inseguimento dei miei pensieri in corsa libera. Non nego: vorrei si fermassero, di tanto in tanto, anche solo per rendere la sfida un po’ meno prevedibile. Non li ho mai battuti, né raggiunti, a dire il vero. E prima che io me ne accorga, mi hanno seminata di nuovo. In ordine di apparizione, come fossero gironi del mio personale inferno dantesco: la malattia, il terrore, la preoccupazione per quelli che sono i membri più deboli della mia famiglia; la mia propria salute; lo studio, la ricerca di un equilibrio che mi permetta di reggere i ritmi e tenere il passo; realizzare di non esserne in grado, rimandare al giorno successivo quando, ti prometti, sarò più tranquilla e rilassata e riuscirò a fare tutto ciò che mi ero ripromessa di fare; svegliarsi, rendersi conto che il da farsi è raddoppiato, che i pensieri sono raddoppiati, che la loro velocità è raddoppiata. Insomma, un tapis roulant alla sua massima potenza da cui è tempo immobile. Un tempo, inarrestabilmente, fermo. Disarmante, ma inerme. Come dei criceti su di una ruota: correre, correre e correre per restare fermi. Ed è un macigno da portare sul petto, un nodo alla gola impossibile da sciogliere, perché tutti vorremmo solo staccare la spina, magari cambiare canale, ridere, distrarci, fingere di non star scrivendo una pagina di storia allarmante e spaventosa, ma questo non è un film di fantascienza, e non sta a noi cambiare la pellicola per far partire una commedia romantica. Eppure, anche il nero altro non è che la sintesi di tutti i colori e, nel buio che ci circonda e ci priva anche solo di un abbraccio di conforto, è possibile trovare la luce. E gli italiani, nella loro passionalità e nel loro coraggio, come sempre, l’hanno trovata. Senza toccarci, senza stringerci, senza guardarci negli occhi abbiamo reso la distanza scudo, la musica ponte, semplici balconi teatri e la paura spettacolo. Nella lontananza più dolorosa, non siamo mai stati più vicini di così. La verità è che la clessidra è ferma, la sabbia è bagnata, ma non basta solo un po’ di sole perché la sabbia si asciughi e torni a scorrere? La clessidra è ferma, ma la clessidra c’è.

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