di Massimo Talone
AGLIANA (PT). Quando mi sono auto-domiciliato all'inizio di marzo lo ricordo come un momento d'impasto emotivo d'ogni genere. Ma soprattutto per giorni e giorni ha vinto in me la sensazione di stupore: ero allibito, incredulo di ciò che sentivo dire, di ciò che leggevo, di ciò che facevo, forse per la prima volta ho visto chiaro il concetto di globale e locale - Tutti contro tutti e diffidenti di tutti e sorpresi di tutti - Mi sono limitato a leggere, rimanere in silenzio, nascosto, più che auto-recluso, per non espormi all’isteria digitale delle prime settimane. Mi sono limitato a scambiare qualche battuta con le persone care. Poi ho cominciato a credere di non essere di fronte a sequenze di un cinema muto, bensì silenzioso. Uno scenario realista, preso dai giorni nostri, senza audio, suoni, senza parole, senza i rumorosi itinerari giornalieri mossi dalle frenesie e le arroganze delle auto in doppia fila, sui parcheggi dei disabili, dei clacson smisurati, dell'incuria, delle buche a centro strada, e via e via, nella ripetitività aggressiva del quotidiano. Una narrazione decisamente più profonda e spietata di qualsiasi modalità narrativa abbia avuto il tempo, la fortuna e la caparbietà di incontrare nei miei anni vissuti. Una realtà che si fa dominante per la sua staticità e gravità, che sorprende tutti perché impone un rigore globale, che ferma tutto e tutti senza repressioni, eserciti o barricate, tac!
il giorno dopo di una apparente e normale conferenza stampa, tutti a casa in silenzio. Per averci chiesto di rimanere in silenzio, all'interno delle nostre abitazioni, con le raccomandazioni che fin da subito, ci hanno martellato di buone prassi, anzi no, di obblighi sociali, che ancora oggi rispettiamo con senso civico, timore, oppure, non si capisce con cosa, c'è voluto un attimo. Essere è essere percepiti, dunque è una rappresentazione del sentirsi seguiti e seguire allo stesso tempo. In teatro, uno dei primi esercizi che viene proposto agli allievi dei corsi per attori-interpreti per acquisire coscienza dello spazio che ti sta intorno, e delle relazioni tra personaggi, è quello della zattera: in gruppo si cammina nello spazio prendendo direzioni personali, ma mediate silenziosamente e quindi condivise con il resto del gruppo. Lo scopo è tenere sempre in equilibrio la disposizione e una certa equidistanza delle persone nello spazio/zattera, così da non sbilanciare lo stesso spazio con assembramenti e far capovolgere la zattera appunto – e nello stesso tempo, non perdere la propria identità i propri percorsi, è veramente un bell'esercizio. Ecco, da quel giorno, quando esco per qualche necessità (lavoro, spesa), essere in quel momento, si manifesta dal primo atto: l'uscita. Camminare negli spazi urbani vuol dire iniziare il gioco della zattera con le poche persone che incontrerò, dunque è essere percepito, quindi condurre il gioco, indirizzare con garbo e rispetto le mie intenzioni/direzioni verso l'altro che occasionalmente può trovarsi su una mia traiettoria, cambiare la mia direzione in maniera repentina, osservarne le reazioni, osservarne l'organizzazione di qualcosa in quel momento è comunicazione pura, spontanea, non prevista e quindi non premeditata, direi che così si possono incontrare le persone e non le loro sovrastrutture e poi, prima di innescare un dramma, tornare sui miei passi con semplicità, rispetto, ridando al dialogo mimico (mimĭcus) la sua naturale evoluzione, cercando magari lo sguardo dell'altro per sorridere e condividere, quella goffaggine appena vissuta. Eppure, all'inizio di questa domiciliazione forzata, quell'improvviso silenzio ci ha reso attoniti, sorpresi, allibiti, spiazzati, in evidente stato di imbarazzo e confusione, non siamo stati zitti un attimo. Abbiamo utilizzato tutti i mezzi della comunicazione attuale per dire, per cantare, per urlare, suonare suonare, per leggere a voce alta, per recitare a tutti, quanto ci stiamo trovando in silenzio! Che strana condizione quella del silenzio! Qualcuno è dovuto arrivare ad averne paura e urlarlo dalle finestre, dai balconi, tutti insieme appassionatamente. Pazzesco quanto siamo stati e siamo ancora messi alla prova! È iniziata così, il 7 marzo 2020, la riscrittura di - Film - Un occhio si apre. Lui sdraiato nel letto intento a decidere se, come, quando e soprattutto perché alzarsi. Troppo silenzio, si alza, si prepara pensa di essere e quindi essere percepito esce, cammina per una via praticamente deserta, in una città vuota, seguito da un’altra persona, vera. Entra in un portone, sale le scale di un edificio, entra in una stanza che conosce bene, il suo ufficio. Chiude con cura la porta, chiude con cura la tenda della finestra, oscura lo specchio, cerca un'agenda, tra gli scaffali trova una scatola, è piena di foto, inizia a strapparle cestina il suo passato, lo fa anche con l'archivio fotografico digitale, si stanca sa di essere e quindi di essere percepito. Si addormenta, con il viso sul tavolo. Quando si risveglia si trova di fronte il suo percipiente. Indossa i guanti, la mascherina, scappa, esce, lascia il portone aperto, corre in strada, sparisce dietro l'angolo. Torna verso la sua casa, chiude la porta, si affaccia alla finestra, guarda fuori, è solo stato percepito. Ecco senza girare troppo intorno a cosa sta accadendo credo che ognuno di noi, mi viene da dire, è un pochino Buster Keaton in FILM soprattutto Oc e Og, due personaggi di FILM, l'unico lavoro cinematografico di Samuel Beckett. Ma Oc e Og sono la stessa persona (percepito e percipiente), per noi quella stessa sensazione di percepirci diversi, estranei, altro da noi, poi accorgerci che questa condizione e tutto l'uragano di supposizioni, chiacchiere vere, verosimili, folli, strategiche, non ci hanno/stanno aiutando a tenere uniti in noi Oc e Og in una unica creatura. Ci accorgiamo che spesso nella separazione, nella divisione vive la paura, l'imbarazzo, la solitudine e quindi tutto si fa più complicato. Rimaniamo in soggettiva su noi stessi, osservatori poco attenti di corpi, i nostri, che cambiano e raccontano altre storie in soli due mesi, sembrano altri corpi, su altre zattere, in altri film. Cerchiamo di tenere vicine - ma a distanza - le persone troppo positive, quelle isteriche, quelle impaurite, quelle annoiate, quelle fataliste, quelle catastrofiste, gli apocalittici e gli integrati e ci accorgiamo che la distanza diventa sociale. In questo momento non sono queste le persone che vogliamo, di cui abbiamo bisogno, no: sono altre, quelle che sanno stare in silenzio, quelle che malgrado la mascherina hanno emozioni importanti, forti, profonde, capaci di forarla questa mascherina e guardarci negli occhi anche a 180 cm di distanza, sono quelle le persone che chiedono al proprio corpo mimico di esserci e lasciarsi percepire, sono quelle che malgrado i guanti, portano sottopelle una felicità che possono barattare condividere e allora diventano nostri complici, non percipienti, ma umani sensibili, Oc e Og uniti in forma armonica, capaci di scambiare senza profitto alcuno sensazioni ora necessarie per aiutarci a capire. In ogni caso potremmo farcela. A condizione che a tutte le anime e le sensibilità tutte, veramente tutte, venisse somministrato un antivirus capace di debellare arroganza, ignoranza e individualismo feroce. Sarei felice se questo potesse accadere anche attraverso laboratori scientifici, luoghi dove generalmente si cerca altro. So invece che queste cose generalmente si cercano a scuola, in teatro, in biblioteca, a casa, nei luoghi della formazione dell'individuo e questo mi fa percepire che ci vorrà un enorme sforzo da parte di tutti, globalmente: cambiare, cambiare, cambiare, abbandonare le abitudini e smettere di conservare posizioni di rendita, modelli comportamentali ormai appartenenti a un passato che nessuno si augura torni, e soprattutto che ci lasci in fretta. - Silenzio – per dirla con Beckett - comment dire -.