di Olimpia Capitano
LIVORNO. Si è concluso, ieri, 23 agosto, il primo lungo fine settimana della manifestazione livornese Effetto Venezia e dintorni, che proseguirà con un calendario altrettanto ricco e variegato tra il 27 e il 29 agosto. Dopo aver rivolto alcune parole e il pieno sostegno a una iniziativa che ha saputo riportare l’arte tra le strade, colorando le vie dei quartieri del centro cittadino con brulicante vivacità e in taluni casi con ottima offerta artistica, ripopolando luoghi importanti e quotidiani con i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, vorrei adesso volgere l’attenzione verso alcune delle ultime scelte espressive che sono state presentate. In particolar modo ho trovato di estremo interesse quanto proposto nel quadro del Deep Festival, specifica rassegna con la direzione artistica di Alessandro Brucioni, che ha preso atto all’interno del calendario di questa trentacinquesima edizione di Effetto Venezia. Gravitando tra gli spazi del Museo della Città di Livorno, del polo culturale dei Bottini dell’olio e di Piazza del Luogo Pio, ho avuto occasione di vivere alcuni ambienti abitati nella prassi in tutta altra maniera (emerge il passato ricordo di Piazza del luogo Pio come parcheggio e fortunatamente ormai non più tale), osservando alcuni lavori di rilievo, tecnico ma, soprattutto emozionale. Durante entrambe le serate ho avuto modo di muovermi tra corpi e voci, tra comunicazione verbale e non verbale, tra molti registri.
È proseguita l’iniziativa Incontri, continuando a mettere in relazione improvvisazioni danzate e musicate, nella splendida e in qualche modo estraniante cornice della chiesa del luogo Pio, rendendo una vivida e umanissima contraddizione di per sé: tra spiritualità e materialità corporea, tra ricerca, istintualità e orizzonti intangibili. Il 22 sera è stata la volta di Irene Russolillo, danzatrice nelle compagnie Roberto Castello, Lisi Estaras, Abbondanza|Bertoni, accompagnata dal pianista e compositore Simone Graziano. Un’ottima sinergia, una narrazione in crescendo, molto intima, talvolta quasi distante, postasi altrove rispetto allo spettatore, scioltasi in un percorso autonomo ma altresì coinvolgente: la danzatrice, partendo da un movimento tenue, accompagnato da una sonorità altrettanto delicata e molto fruibile (pure un po’ pop), compie un percorso in ricerca di sintonia con sé, con lo spazio, con il suono, lasciando emergere una progressiva accettazione, un sentirsi a proprio agio, che traspare da un movimento sempre più fluido e armonico, da una evidente mimica facciale e da un riappropriarsi di ogni parte del sé. In questo senso l’indagine espressiva raggiunge anche la voce, che si fa corpo con un urlo liberatorio, intrecciato alle note, riverberato nell’eco dello spazio: giunge quasi tangibile allo spettatore. Questo gioco tra corpo, mente, comunicazione e percezioni è stato curato in modo ancor più dettagliato e raffinato, certamente complice anche la struttura non improvvisata oltre che le note sensibilità artistiche degli autori che hanno presentato in anteprima lo spettacolo RIFLESSIONI come s/comparire davanti ad uno specchio?. La lavorazione ha coinvolto la danzatrice Claudia Caldarano che collabora a spettacoli di danza e teatro con (tra gli altri) Compagnia Virgilio Sieni (dal 2014 ne è danzatrice, anche solista e nel 2017 è assistente per l’Accademia sull’arte del gesto”), Claudia Catarzi (artista associata a La Manufacture Centre Chorégraphique National Bordeaux), Teatro dei Gordi (compagnia sostenuta dal Teatro Franco Parenti di Milano), mo-wan teatro (di cui è socia fondatrice e con cui organizza il Deep Festival), Company Blu, Aldes, il danzatore Maurizio Giunti, che attualmente lavora presso la Compagnia Virgilio Sieni Cango e vanta collaborazioni e percorsi di studio all’accademia Codarts a Rotterdam e alla Scuola Del Balletto Di Toscana e il contrabbassista Gabriele Evangelista che attualmente fa parte del quartetto di Enrico Rava e di molte formazioni di spicco nel panorama nazionale (Evangelista ha suonato nei più importanti festival e jazz club italiani ed europei, negli Stati Uniti, in Canada, in Marocco, Tunisia, Israele, India, Cina).
La sera del 23 dunque la chiesa si è deformata, assieme al rapporto complesso e conflittuale tra la razionalità e la materialità corporea: lo spazio buio, già di impatto considerando la luminescenza usuale di tale luogo, attraversato da un telo nero su cui la danzatrice, immobile, osserva lo spazio riempirsi di sguardi. Dinamica e movimento partono con l’energico trascinar via di questo manto d’ombra che svela un corpo nudo e inerme, sdraiato sul bordo di una installazione di materiale riflettente e deformante tutto l’ambiente che ivi si riflette: una chiesa, la distorsione e l’osservarsi deformati, due corpi, un contrabbasso sincopato a ritmiche crescenti e splendidamente disarmoniche. Il dialogo tra suoni e corpi si è articolato seguendo un filo conduttore di estrema forza umana prima che narrativa, poiché condizione oltremodo comune e intensamente problematica che si snoda attorno alla percezione come espressione del paradosso di essere e avere corpo. Il corpo nudo viene inizialmente trascinato dall’altro, vestito, della danzatrice, quasi informe, posto forzatamente in posizioni di differente equilibrio, per poi essere ripreso e condotto attraverso lo spazio alla ricerca di continui e precari, mai statici, mai risolutivi, punti di stasi; come se la razionalità cercasse di condurre e controllare quella realtà così fortemente corporea e materiale, istintuale ed emotiva che ci connota, in una battaglia tanto necessaria quanto mai finita (e forse vinta anche per questo, poiché la sua fine potrebbe essere la nostra sconfitta e l’annullamento nell’automatismo auto e socialmente imposto). Dopo questo scambio, i due performer si ritrovano nella scena, deformata da questa sorta di specchio, entrambi a torso nudo e cambia la logica: i due corpi, distanti, si muovono contemporaneamente, ma a ritmi alternati, uno sullo sfondo, lento, sinuoso e l’altro al centro, frenetico, disarticolato; poi viceversa. L’impressione è quella di una costante ricerca di equilibrio tra corpo e mente, strutturata nell’arco di una vita, complessa e da accettare in tutte le sue contraddizioni, poiché viva e forte in quanto tale, incontrollabile e talvolta umanamente dolorosa nella sua difficile sostenibilità. Tuttavia, e ciò sembra evincersi alla fine, nella cura di sé, nell’ascolto di sé, un equilibrio precario, ma onesto, lo si può trovare: i due corpi, il corpo e la mente, si congiungono in figure uniche, tutte giocate sull’equilibrio, su un tremore affascinante, sull’incontro disarmonico tra i due cardini ossimorici dell’umano: razionale e irrazionale, spirituale e materiale. Questi concetti si ritrovano assieme nell’accettazione del loro dialogo non sempre coerente (quasi mai verrebbe da dire), ma vivo in quanto tale, rifiutando il controllo sull’inconcepibile vastità che ci attraversa e ci compone. Il controllo, tra gli altri temi, è stato al centro anche del Recita di Stefano Massini, scrittore famoso in tutto il mondo, con pubblicazioni tradotte in oltre ventiquattro lingue e personalità trasversale della televisione, nonché consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano. Dalla comunicazione visuale e non verbale della costruzione sonora e coreografica mi sono dunque immersa in un flusso di parole magnetico, strutturato su una ritmica assolutamente pregnante, coinvolgente, capace di creare un canale diretto tra spettatore e autore in un flusso di interazione continua, dalla parentesi tanto divertente quanto dolce e mai scontata, alla sostanza intensamente triste e anche sottilmente arrabbiata, rivolta a denunciare il carattere (dis-)umano e illogico della crescente smania di controllo della contemporaneità, su di sé, sull’altro, sulla propria (persino) emotività ed emerge di tutto: la disonestà intellettuale rispetto all’intangibilità della complessità del sentimento; il parossismo dell’incomunicabilità che parte dal non ascolto, dalla non accettazione del carattere complesso e pluri-interpretabile della comunicazione; l’incomprensione che parte in prima istanza dal pensiero, dalla dissincronia tra corpi, menti e coacervi di differenti esperienze umane, dal conformarsi ad un’aspettativa che si vuol dar di sé. Tutto ciò appare fulcro di una riflessione sul nostro mondo distorto, dove tutto deve essere edulcorato, dove non si può parlare di niente così per come è e per come lo si vede (figuriamoci per quanto concerne l’auto-rappresentazione e auto-narrazione del sé) e dove la felicità è l’imperativo (fittizio) categorico e la debolezza va celata, rincorrendo i paradigmi di una società stanca e nascosta dietro foglie d’oro pagate a caro prezzo. Questo è ciò che resta e di cui, con una poetica toccante, Massini parla tra storie che spaziano da aneddoti narrativi a racconti storici e biografici. L’autore ci conduce attraverso questo flusso con storie emblematiche, coniando neologismi puntuali e incisivi, per riassumere concetti e al contempo far notare il carattere storico e mutevole del linguaggio, che cresce, vive e muta con le civiltà e che su molto ancora non ha trovato le sue parole: forse perché non richiesto dallo spirito di un tempo che, si immagina, di alcuni concetti ha profondo timore. Massini ci racconta di Morosini, militare per la Serenissima, Capitano in Golfo, impegnato nell’estenuante e lunga Guerra di Candia contro i turchi ottomani nel XVII secolo. Ecco che la Morosinità o Bastitudine diventa in un attimo quella dignità che si ha quando si decide di lasciar andare qualcosa per cui a lungo si è lottato, poiché ci si rende conto che non ne vale più la pena, quand’anche mai ne fosse valsa. Molte altre sono le parole citate da altre lingue o coniate partendo da storie e narrazioni di esperienze umane e dell’inafferrabilità del sentimento. Spicca l’amore e il richiamo, il legame con Pablo Neruda emerge quasi naturalmente. Seguendo questa linea biografica emerge la figura di Nellie Bly, antesignana del giornalismo di inchiesta nel XIX secolo, la cui prima indagine-denuncia riguardò gli istituti psichiatrici. La donna, di enorme forza d’animo ed estro intellettuale, si finse mentalmente disturbata e riuscì a farsi ricoverare per alcuni giorni nel manicomio femminile di Blackwell’s Island. In Dieci giorni in Manicomio, sua pubblicazione, e nell’articolo magistrale che scrisse, raccontò di come le donne internate subissero soprusi e violenze. Tale inchiesta causò tanto scalpore da portare alla riforma degli istituti di cura mentale nello stato di New York. Implicitamente torna qui il tema della comunicazione e del controllo, dell’assurdità della sua pretesa, laddove la follia rappresenta quanto di più sconfinato e parimenti facile da toccare nel nostro intimo, mentre lo spazio della normalità è quanto di più piccolo e complesso da costruire nel rapporto con se stessi, al di fuori dell’estetica e superficialità della norma sociale. C’è uno spazio infinito e non raggiungibile dentro ogni soggettività e nel loro incontro e, al di fuori delle formalità, al netto delle difficoltà di comunicazione che costellano l’universo intimo e politico, questi momenti di empatia artistica hanno restituito qualcosa, almeno ricordandoci il nostro esser contraddizione.