di Olimpia Capitano

FIRENZE. Ieri sera, 25 settembre, a Firenze presso il PARC-performing arts reasearch center e in occasione del Festival Fabbrica Europa, il coreografo e danzatore Andrea Zardi ha portato in scena una sua recente ideazione: GRNDR _Date no one (ideazione, coreografia esecuzione, Andrea Zardi; suono, Federico Dal Pozzo; grafiche, Andrea Maurizio Berardi; costume, Federico Pozzzato; promozione, Valentina Barone; coproduzione, Za DanceWorks e Compagnia ArtGarage e con il sostegno di PARC Performing Arts Research Centre, Casa Luft/Zeogrammi). Entrare nelle suggestive stanze del centro è di per sé un’emozione, un catapultarsi in un flusso denso di stimoli, tanto più in occasione di Festival quali quello attualmente in corso che, di anno in anno e pure nel corso di questo più delicato periodo, riesce ogni volta a ospitare occasioni di scambio e presentazione artistica mai scontate e piene di senso. Un senso anche fortemente politico, rimarcando la dimensione interculturale dello spazio artistico e toccando sovente temi cardinali, che legano corpo e società in un intreccio stretto, pieno di nodi problematici talmente assorbiti nel quotidiano da essere continuamente banalizzati e dimenticati ed è bene che qualcuno si assuma il compito di ricordarlo. Anche per quanto concerne la pièce di Zardi, suggestioni e riflessioni si muovono sulle stesse linee, tra spazio e corpo, tra dentro e fuori, tra individuo e società. È una performance che, con insolita eleganza e originalità tematica e stilistica, si propone di indagare il fenomeno delle dating app per incontri e il rapporto controverso tra dimensione corporea e digitale.

Si esplora il sottile confine tra reale e virtuale, con la consapevolezza che nell’influenza osmotica di queste due compresenze questo stesso limite fatica a esistere e si innesca un sovrapporsi di livelli che si amalgamano nel mutar la percezione dell’altro, il suo corpo, la sua presenza, le dinamiche di relazione umana e sociale. Al di là delle potenzialità effettive del web e dei suoi più discussi temi di rischio legati alla dimensione della psicopolitica e allo spazio del controllo, c’è qualcosa che, a mio avviso e nonostante i molti studi sociologici e antropologici in merito, spesso non emerge, ma che questa performance riesce a suscitare: la corporeità è un elemento centrale nella produzione di immagine e di narrazione online, strumento fondamentale nel suo ibridarsi con la realtà, portando a sua volta quest’ultima a deteriorarsi e ad approssimarsi a un immaginario fatto di aspetto, apparenza, stereotipo socialmente accettato e assimilato che muta il corpo, nel suo presentarsi, nei suoi atteggiamenti, nel suo assorbire il mondo esterno e, dunque, nelle relazioni. Qui la sessualità è centrale, nella sua dimensione tanto naturale quanto delicata, al confine tra più manifesta istintualità corporea, profonda intensità emotiva e problematica accettazione del proprio corpo e del rapporto con esso: le conseguenze sociali del chiudersi dietro a uno schermo e il recinto relazionale che si crea, evocato dal danzatore anche grazie a una curatissima scenografia, agiscono su un corpo frustrato tra contraddittorie pulsioni, immaginari fissi, alienazione e lontananza. Sotto questa opprimente cappa di individualismo digitalizzato si snatura una sessualità non accettata in tutta la sua naturale e bella complicatezza umana e, al contempo, si erodono molti aspetti di una libertà personale perimetrata da canoni ulteriori cui attenersi, da un’abissale distanza dall’altro e da uno scostamento dalla realtà, che esiste in quanto relazionale. Per citare il Karl Marx de L’ideologia tedesca: Solo nella comunità con altri, ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni: solo nella comunità diventa possibile la libertà personale. Entrare all’interno della creazione dell’autore è già di per sé un primo passaggio verso questa dimensione alienante finora introdotta: un verde soffuso che assorbe una sala scarna e un perimetro di luce al neon che delimita i contorni di una gabbia al cui angolo un corpo sta. È un corpo rannicchiato, cinto da una tuta nera e senza volto: una cuffia nera ne copre interamente il viso, al posto del quale si erge uno smartphone. È una figura, un’immagine poco sessuata al parossismo, che inizia lentamente a tentare di muoversi da quella condizione di insicura stabilità e ricerca di equilibrio sul confine di uno spazio limitato: mentre il suono metallico si fa più incalzante, la figura inizia a muoversi lungo il perimetro delimitato, assumendo pose tra il mellifluo e il meccanico, che congiungono accenti di virilismo e seduttività, o meglio la loro versione estetica, da fermo-immagine o da poser se si vuole. Questi passaggi sono intervallati e scanditi da sonorità digitali che sottolineano freddezza e innaturalità di tal modo di presentare la propria sessualità, rimarcato dal frequente toccare il pezzo più appetibile del corpo. La figura poi alterna questo muoversi e presentare la propria immagine con momenti di sospensione, in cui sembra rivolgersi all’esterno, in rari momenti di lucidità, mentre sullo smartphone che copre il viso e diventa il simbolo del proprio sguardo sul mondo, si alternano frasi contraddittorie che da un lato sottolineano l’influenza delle nuove categorie con cui si legge l’altro; dall’altro evidenziano una nascosta (in)consapevolezza del proprio sentire: Only top, Bottom, No fem, ma pure Alone, Slave. Mano a mano che il ritmo metallico cresce, si intesse a proiezioni che richiamano lo scroll, il my type-not my type e a voci che sottolineano i più noti luoghi comuni che connotano tutta la comunicazione nelle sex-date app e che sfondano lo spazio del virtuale e strutturano tanto della visione che si ha dell’altro: Hai foto? Solo grossi calibri; “Sei peloso? Quanto pesi? Scusa ma preferisco palestrati. Su questo sfondo visivo e sonoro il movimento si fa più frenetico pur ripetendo sempre quei pattern incorporati, quelle pose che ormai sembrano auto-imporsi al corpo stesso e denunciarne una certa schizofrenia. Ciò fintanto che tal flusso appare arrestarsi, il movimento rallenta e la figura esce dal perimetro, forse in un attimo di auto-consapevolezza che subito si perde incontrando sul tragitto altri smartphone: questi diventano estensioni delle mani di un corpo che gradualmente si spoglia, mentre si riprende, si fotografa, si presenta e si mercifica, per poi andarsene, nudo, lasciando lo spettatore di fronte a uno spazio desolato, dove restano solo gli schermi e le immagini e i video, di quanto è stato, di un corpo che non c’è più, ma che continua a interrogarci. Al netto di tutto la scelta tematica e la pratica performativa di questo atto poetico e politico è una presa di posizione importante, non solo per la forza evocativa che attraversa l’intera restituzione, quanto anche per la centralità che si dà al corpo attraverso la danza. In una società di corpi, laddove tutto vive l’erosione post-moderna e la transizione critica che passa per un disfacimento della dimensione collettiva, di visioni del mondo, di ragioni sociali e di idiosincratici rapporti tra (auto)rappresentazioni e sistemi di rappresentanza, il corpo è ciò che resta e assorbe tanto la conflittualità sociale inespressa, quanto le contraddizioni del nostro tempo: in ogni gesto, in ogni relazione, si annida una non sempre evidente incorporazione di modelli, che rischiano di travolgerci senza alcuna coscienza, seppur minima in quanto incredibilmente complessa. Tra virilismo e violenza fisica e verbale, banalizzazione e post-verità, misoginia e misantropia, iper-individualismo e alienazione vanno mutando su tanti livelli l’abitudine culturale e la prassi sociale, perciò forse e come sembra volerci far notare il giovane e sensibile autore, occorrerebbe soffermarsi un poco di più sul proprio corpo, un corpo che si ha, ma pure un corpo che si è e che ci riguarda, proprio tutti.

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