di Simona Priami
FIRENZE. Il teatro riparte finalmente a pieno regime e lo splendido Puccini di Firenze riaccende i motori in grande stile, con uno spettacolo frizzante, divertente recitato da artisti di elevato spessore. Riccardo Rombi mette in scena una famosa commedia del XVII secolo dai contenuti ancora attualissimi, trovando consenso di critica e pubblico. Si tratta de Il malato immaginario di Molière. Il testo, rappresentato per la prima volta nel 1673, analizza attraverso un eccellente intreccio gli aspetti nevrotici dell’essere umano, dei quali l’autore era profondo conoscitore. In particolare, il personaggio principale ha una perversa fissazione per le malattie, per le medicine e per le varie cure; lo stesso Molière, definito lo scienziato delle nevrosi, sembra soffrisse della solita ossessiva tendenza a sopravvalutare i minimi disturbi; da ricordare che nel ‘600 il termine immaginario significava pazzo. All’inizio della rappresentazione lo spettatore si trova immerso in una simmetrica scenografia con sfumature dal rosso al blu, con ai lati scaffali pieni di boccette colorate. Al centro Argante, il malato immaginario, è seduto su una sedia che sembra un trono, sulla testa una coperta, un musico è sulla sinistra ma domina il silenzio; le luci sono basse e dopo poco una voce irrompe dall’alto elencando medicine e cure dai nomi impossibili, con i loro prezzi; un elenco assurdo, impossibile, ironico, ma anche inquietante: il malato immaginario pondera sul totale da spendere.
L’incipit mette subito in evidenza l’ipocondria del protagonista, ma anche la grande quantità di informazioni che nella nostra società provengono incessantemente dall’esterno, tra queste spesso è difficile saper scegliere, generando così un caos interiore, un vuoto esistenziale. Lentamente la simpatica trama si dipana e emerge la figura di Argante che ama sentirsi dire di essere malato, chiuso nelle proprie manie, nel proprio egoismo, ha ormai perso l’umanità e non sa distinguere chi lo ama da chi lo beffeggia; si affida a medici ciarlatani e questi, spesso ironici e grotteschi, dai nomi improponibili, vengono passati in rassegna con le loro cure ridicole e i loro flaconi miracolosi. Lo stesso figlio del medico, Tommaso Daifoirus, che sarà l’aspirante marito di Angelica, figlia del protagonista (nonostante lei spasimi per Cleante), medico come il padre, viene presentato come incapace, insicuro e limitato. Evidente la scarsa simpatia dello scrittore francese verso la categoria. Eccellente anche la recitazione di Tonietta, la serva stizzosa e pungente, che rispettando i ruoli della commedia dell’arte, è scaltra e a conoscenza di tutto. Simpatici e brillanti i battibecchi con il suo padrone, le battute serrate riescono a tenere costantemente alta l’attenzione del pubblico. Fondamentale la figura del fratello che ricorda al protagonista che la sua malattia è solo nella sua mente, il suo rapporto con il mondo è malato, dobbiamo convivere con la morte, perché è una parte della vita, siamo vittime dei nostri fantasmi, delle nostre illusioni e tutte le malattie messe in fila? adesso le chiamano varianti. Non può mancare una dolcissima storia d’amore tra la figlia di Argante e il sostituto del maestro di musica, storia che si concluderà bene ma, non del tutto. Una prima nazionale che ha acceso il pubblico grazie anche alla maestria del regista Riccardo Rombi, che ha interpretato magistralmente il protagonista; bravissimi anche gli altri giovani attori: Giorgia Calandrini, Dafne Tinti, Giovanni Negri e Marco Mangiantini. Complimenti anche alla musica di Gabriele Savarese; un gruppo preparato e affiatato che ha fatto ridere, ma anche riflettere. Il testo ha messo in evidenza i punti deboli che non vogliamo riconoscere, ma sono stati sempre presenti nell’animo umano; inoltre tanti vizi della società contemporanea, civile e industrializzata, come l’enorme quantità di medicinali e il ricorrere ai farmaci per un minimo problema, forse l’abuso che ne facciamo serve anche a nascondere le nostre paure.